04 giugno 2025

Tra Somalia e Italia. Vita, imprese e avventure di Mohamed Aden Sheikh, uomo politico e medico

di Francesca Romana Paci

L’evoluzione di un percorso

Nato a Galkayo in Somalia nel 1936 e morto a Torino il primo di ottobre del 2010, Mohamed Aden Sheikh è una figura emblematica di un periodo storico che può sembrare relativamente distante, ma che è invece molto più vicino di quanto spesso ci si preoccupi di riconoscere – un periodo tuttora molto, molto difficile nel Corno d’Africa, una temperie notevolmente avanzata dal fatidico 1960, ma certamente non trascorsa.

Nei suoi anni definitivamente italiani Mohamed Aden, ex ministro (tre differenti ministeri), ex prigioniero politico, medico chirurgo e politico militante, coadiuvato dal giornalista e ricercatore Pietro Petrucci, è autore di un libro storico/autobiografico, intitolato Arrivederci a Mogadiscio: Dall’Amministrazione fiduciaria italiana alla fuga di Siad Barre. Il libro esce nel 1991, presso le Edizioni Associate, a Roma, e ottiene un notevole successo nel suo ambito. Tanto che nel 1994 se ne ha una seconda edizione, moderatamente ma significativamente ampliata in dati e dettagli, con il titolo Arrivederci a Mogadiscio. Somalia: l’indipendenza smarrita – il sottotitolo, come si legge, è cambiato. I due testi hanno la struttura di una articolata intervista: la prima e la seconda edizione, infatti, sono entrambe lunghe sequenze di domande e risposte. Il giornalista Pietro Petrucci formula le domande, Mohamed Aden risponde.

Più di quindici anni dopo la prima edizione e undici dalla seconda, Petrucci nel 2005 spinge Aden a riprendere il filo dei due Arrivederci a Mogadiscio per aggiungere ai due scritti esistenti testimonianza degli anni intercorsi. Ha inizio a questo punto un lavoro intenso e intermittente di colloqui, registrazioni, raccolta documenti, assemblaggio, che portano alla pubblicazione di La Somalia non è un’isola dei Caraibi presso le Edizioni Diabasis di Reggio Emilia nel 2010, pochi mesi prima della morte di Aden. Il libro esce con la Prefazione del sindacalista e Senatore della Repubblica Pietro Mercenaro e una Nota del curatore, che ovviamente è Petrucci. Il libro è dedicato alla seconda moglie di Aden, l’italiana Felicita Torrielli, il cui nome però nella dedica non è menzionato. Torrielli, tuttora sulla breccia, ha dedicato gran parte della sua vita alla Somalia operando fattivamente nell’area della maternità e dell’infanzia.

Il passaggio dalle due prime edizioni di Arrivederci a Mogadiscio a La Somalia non è un’isola dei Caraibi, oltre all’esteso ampliamento, è una trasformazione radicale della forma. Il testo non è più in forma di dialogo: non è più un’intervista ma una narrazione. Sono state quindi necessarie trasformazioni della vera e propria scrittura per inserire le domande di Petrucci in un discorso indiretto. Ci sono anche alcune circostanziate aggiunte e un montaggio in parte differente degli argomenti dei libri precedenti, ma il primo aspetto cospicuo è quello formale. Lo scopo, comunque, come sopra accennato, era aggiungere ai contenuti iniziali una seconda parte, che non solo raccontasse la nuova vita italiana di Aden, ma raccogliesse anche e soprattutto sue riflessioni culturali, religiose, opinioni storico-politiche e prese di posizione sulla situazione somala di quei decenni. La spiegazione del titolo, La Somalia non è un’isola dei Caraibi, si legge nel secondo capitolo: « […] la gente continuava a chiedermi dove diavolo fosse questa Somalia […]. E se rispondevo, come cominciai a fare per provocazione, che la Somalia era un’isola dei Caraibi, nessuno batteva ciglio. Rarissimi erano gli italiani che avessero una conoscenza […] dell’Africa e della sua storia.» (Diabasis: 45).

Sostanziale ampliamento a parte, se da un lato la forma narrativa e argomentativa conferisce alla Somalia non è un’isola dei Caraibi una qualità di maggiore peso e permanenza, il dialogo dei libri precedenti possiede una immediatezza e vivacità emozionale che è difficile non rimpiangere. Come vedremo più avanti, Petrucci nella sua Editor’s Note alla edizione inglese dei testi italiani di Aden, intitolata Back to Mogadishu, racconta che Aden non gradisce molto il passaggio da intervista a narrazione. Così scriverà: «Mohamed hid his disappointment behind irony: “So I have to play the part of Emperor Hadrian and you Marguerite Yourcenar. Are we presumptuous enough for that?”» (Printed on demand by Amazon Italia, 2021: 15). Comunque, La Somalia non è un’isola dei Caraibi esce, nella sua nuova forma di autobiografia narrata, in tempo perché Aden, ormai malato terminale, possa presentarlo al Lingotto a Torino, alla Biblioteca del Senato a Roma e, pochi giorni prima di morire, a Helsinki.

Back_to_MogadishuIl libro ha un buon succès d’estime, ma circola quasi solo in Italia. La figlia maggiore di Aden, Kaha Mohamed Aden, scrittrice italofona e studiosa ben nota nel campo, in un suo articolo/racconto pubblicato su Africa e Mediterraneo (N. 92-93, 2020), intitolato Un felice goffo volo dallo Yaya Centre, narra delle circostanze – un incontro culturale allo Yaya Centre a Nairobi in Kenya – in cui decide, sollecitata da un giovane interlocutore, che il libro di suo padre per circolare deve essere tradotto in inglese. Pensa inizialmente di tradurlo personalmente, ma le vicende della vita rendono il progetto difficile. Entra così ancora in azione Petrucci, che non si ferma e pensa a come realizzare una traduzione inglese di La Somalia non è un’isola dei Caraibi, che riunisca anche paratesti importanti per capire Aden, la situazione somala e quella italiana del periodo. Procede attraverso un crowdfunding sostenuto da studiosi e personaggi di rilievo e infine ottiene quello che vuole. In realtà quella inglese non è solo una traduzione quanto una nuova edizione, con ulteriori ampliamenti e complementi. Nella già citata Editor’s note di Petrucci, posta in apertura del volume, si legge: «This new book Back to Mogadishu includes Mohamed Aden’s entire ethical and political testament. It comprises the autobiographic narrative of both his Somali and Italian lives, and is based on two ‘conversations’ we recorded in 1993 and 2009, and three texts all written in 1993: Mohamed Aden’s Note on the Somali civil war (The Disrupted Memory); Basil Davidson’s comment on our ‘first conversation’; and a repertory of modern Somalia’s leading players and political organisations» (Back to Mogadishu, On demand: 16).

Per riassumere: l’edizione inglese dell’opera di Mohamed Aden, intitolata Back to Mogadishu, e sottotitolata Memoirs of a Somali Herder mette insieme il testo, tradotto, di La Somalia non è un’isola dei Caraibi con scritti e documenti collegati alla sua pubblicazione italiana, e aggiunge anche intratesto, dove opportuno, altri riferimenti di rilevante interesse socio-politico. Subito dopo la Editor’s Note Petrucci pone The Disrupted Memory, un lungo scritto dello stesso Aden, datato Turin, March, 1994, nel quale la situazione della Somalia dal 1991 al 1994 è vivisezionata con estrema veemenza – basti per ora una sola frase: «The civil war that Said Barre’s dictatorship plunged the Somali nation into is entirely without any sense» (Back to Mogadishu, On demand: 17).

Segue, con un passo indietro temporale, l’inserimento del «commento» dello studioso Basil Davidson intitolato Somalia a Paradigm of African Continent, con il sottotitolo esplicativo Preface to the first edition of “Arrivederci a Mogadiscio, datato London, 1991. L’edizione inglese è arricchita, inoltre, di una Appendix di tre elementi: 15 Somali Factions Recognized Factions by the UN, Signatories to the “Addis Abeba Peace Agreement” of 1993; All Somalia’s Men Main Political Actors up to 1994; e Chronology Main Events 1936-2009. Non c’è, purtroppo, un indice analitico – non c’era nemmeno nella edizione italiana. La traduzione, che è sostanzialmente la traduzione di La Somalia non è un’isola dei Caraibi, è di Simon Marsh, scrittore in proprio e traduttore di numerose opere di autori italiani. La vera e propria auto-biografia di Mohamed Aden Sheikh, divisa in diciannove capitoli, che traducono fedelmente i titoli italiani, comincia alla quarantanovesima pagina – l’intero volume conta trecento ottantotto pagine.

Volontà di completezza

Quando Pietro Petrucci scrive la sua Editor’s Note, datata 2019, Mohamed Aden Sheikh è ormai morto da nove anni. La prima pagina della nota sintetizza i punti chiave della vita di Aden, il che, di fatto, è una guida articolata alla lettura di quello che segue, una mini-biografia che precede una auto-biografia.

Petrucci inizia presentando Aden, con il quale dichiara di aver vissuto quarant’anni di amicizia: «[…] we gradually reconstructed the steps of his remarkable life. First we did this orally, and then at a certain point we decided to write this long autobiographical story down […]» (Back to Mogadishu, 7). Non specifica, come invece fa nella Nota del curatore in La Somalia non è un’isola dei Caraibi (Diabasis:13) di aver conosciuto Aden a Mogadiscio nel 1970, mentre preparava un reportage per il quotidiano Paese Sera (ora non più pubblicato). In quel periodo Siad Barre era da non molto al potere, e Aden era Ministro della Sanità.

Segue nella Editor’s Note – che ovviamente appare solo nella edizione inglese – una lista dei dati biografici di Aden, dove si enfatizza per prima cosa il fatto che sia venuto in Italia giovanissimo e si sia laureato in medicina prima della Indipendenza della Somalia dall’Inghilterra e dall’Italia, datate rispettivamente 26 giugno e 1 luglio 1960.

Ritornato in Somalia dopo la Laurea e la Specializzazione in Medicina e Chirurgia, Aden diventa parte di un gruppo in qualche modo simpatizzante del Marxismo di allora e legato a Siad Barre – un gruppo che aspira a una modernizzazione del paese in parte epigona dei percorsi intrapresi molti decenni prima da Kemal Ataturk (1881-1938) in Turchia e, in seguito, da Gamal Abdel Nasser (1918-1970) in Egitto.

Petrucci sottolinea come una prima vittoria del nuovo corso sia stata il superamento di una epidemia di colera. Subito dopo ricorda che: «there was the decision to give the Somali language a written form in 1972» (Back to Mogadishu: 8). La questione della lingua somala si rivelerà più complessa del previsto, ma il 1972 è comunque un crinale fondamentale, tra l’altro perché si decide di usare per la scrittura l’alfabeto latino, opportunamente aumentato da digrammi necessari a rappresentare tutti i suoni somali. La terza vittoria è la fondazione nel 1973 di un Politecnico per la formazione di: «doctors, vets, engineers, agronomists, biologists and mathematicians» (Back to Mogadishu: 9).

Petrucci ricorda poi il fervore di modernizzazione sociale del 1974, interrotto dell’arrivo di una siccità violenta e di una conseguente carestia, disastrose per le aspirazioni del paese. Impossibile percorrere qui le vicende degli anni seguenti, ci si limita a ricordare la pesante questione Ogaden e la gestione di Said Barre dei rapporti con l’Etiopia. Il governo di Said Barre si trasforma in regime; Aden subisce sei anni di prigione dal 1983 al 1989, anno in cui «an official ‘ad hoc’ invitation from the government in Rome» (Back to Mogadishu: 11) gli consente di arrivare in Italia, dove poi rimarrà per tutta la sua vita, vivendo e lavorando soprattutto a Torino.

Tra racconto e denuncia: una tormentata auto-biografia

Nel suo primo libro italiano (1991 e 1994) Mohamed Aden inizia il suo racconto con emozione: «Come quasi tutti i dirigenti somali di oggi sono nato in boscaglia» […]. Sono nato vicino a Galcaio nel Mudugh» […]. A quell’epoca […] il nostro villaggio itinerante gravitava intorno a Galladi, cioè oltre l’attuale confine con l’Etiopia» (Arrivederci a Mogadiscio, Edizioni Associate,1991: 15). In La Somalia non è un’isola dei Caraibi si trova in aggiunta l’indicazione specifica del confine con l’Etiopia: proprio la regione dell’Ogaden.

L’edizione inglese, essendo la traduzione di La Somalia non è un’isola dei Caraibi, già in queste prime pagine, pur fornendo le stesse informazioni, si discosta per diversi dettagli dai primi libri – ogni dettaglio è interessante, ma una collazione sarebbe lunghissima, e non modificherebbe la sostanza dei testi.

Oltre tutto, implicherebbe anche qualche aspetto traduttivo. Petrucci si dimostra un curatore molto attento, che segue la traduzione passo per passo, perché in Back to Mogadishu sono corretti anche alcuni refusi di nomi, di persone e luoghi che erano sfuggiti nell’originale italiano.

Ma le avventure delle pubblicazioni e delle traduzioni dell’opera di Mohamed Aden Sheikh non si è fermata. La figlia maggiore di Aden, Kaha Mohamed Aden, desiderosa di far conoscere gli scritti del padre anche in Somalia, si adopera per far tradurre in somalo la traduzione inglese di La Somalia non è un’isola dei Caraibi – non quindi di far tradurre in somalo l’originale italiano, ma di far tradurre in somalo la traduzione inglese dell’originale italiano. Lo studioso somalo Cabdicasiis Guudcadde, costantemente accompagnato dall’attenzione e dalla collaborazione di Kaha, intraprende la traduzione in somalo di Back to Mogadishu, che in somalo suona Waa Inoo Muqdisho, e ha come sottotitolo Xasuusqorka Geeljire Soomaaliyeed – traduce dunque letteralmente il sottotitolo italiano e quello inglese.

Waa Inoo Muqdisho è stato pubblicato nel novembre del 2023, poco prima che Kaha Mohamed Aden morisse, il 12 dicembre dello stesso anno. Ora si trova in Amazon in brossura (momentaneamente non disponibile) e in kindle (disponibile).

Mogadishu

La Somalia non è un’isola dei Caraibi e la sua traduzione inglese Back to Mogadishu devono essere letti con attenzione, con apertura mentale e con almeno una conoscenza di base della storia somala. Si capisce perché Petrucci ha voluto chiamare il libro una “autobiografia”, motivando in questo modo un insieme di temi, argomenti, eventi e pensiero; un insieme che prima di tutto si muove in sequenze intermittenti tra Somalia e Italia, e inoltre passa dalla vita quotidiana personale e privata alla storia, dalla politica alla religione, dai sentimenti alla ragione. Aden è colto e intelligente, e rispetto all’Italia, guarda dall’esterno, il che è un elemento per noi di particolare interesse.

Si rivolge all’Italia (e anche a più di qualche somalo) quando parla della Somalia, e alla Somalia e all’Italia insieme quando parla dell’Italia – ma si deve però dire che oggi l’età del lettore, italiano o somalo o variamente anglofono che sia, è una variabile che inevitabilmente influenza la lettura. Ovviamente anche la scolarità del lettore è determinante, anche se è lecito presupporre che chi legga un libro come La Somalia non è un’isola dei Caraibi o Back to Mogadishu possieda una buona scolarità, oltre a un interesse pertinente. Si ricorda ancora una volta che il testo italiano e quello inglese presentano un certo numero di dettagli differenti, sia piccole aggiunte sia piccole soppressioni. Una lettura critica approfondita sarebbe comunque proficua, pensando a come Aden tratta argomenti come Marx, il Comunismo italiano, Présence Africaine, l’università italiana, istruzione e scuola, le prime elezioni somale, il tessuto clanico somalo, la guerra civile; e inoltre: religione, stato, laicità, e, con una certa ampiezza, Islam, tempo e storia.

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16 aprile 2025

Fotografia africana fra afropessimismo e afrofuturismo

Fotografia africana fra afropessimismo e afrofuturismo: il cambiamento della narrazione.
Al MAST di Bologna l’incontro con Azu Nwagbogu.

“La foto di Kevin Carter ‘L’avvoltoio e la bambina’, scattata nel 1993 in Sudan e vincitrice del Premio Pulitzer, ora non sarebbe apprezzata: la narrazione visuale dell’Africa è cambiata, e a questo hanno contribuito autori e autrici del continente.”

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Partendo da questa riflessione sull’iconica immagine del fotoreporter sudafricano, durante un incontro presso il MAST di Bologna il 7 aprile 2025, il curatore di fama internazionale ed esperto di arti visive Azu Nwagbogu ha sintetizzato il suo messaggio sulla rivoluzione “afro-ottimista” della fotografia africana.
Come evento parallelo alla mostra MAST Photography Grant 2025, che espone i cinque finalisti del concorso biennale su industria e lavoro dedicato agli artisti emergenti che sviluppano un progetto originale e inedito sul mondo dell’industria e della tecnica, si è tenuto un dialogo tra il curatore della collezione MAST Urs Stahel e Azu Nwagbogu, fondatore e direttore del Festival Internazionale di fotografia “LagosPhoto”, nonché fondatore e direttore della “African Artists’ Foundation” (AAF), un’organizzazione non profit con sede a Lagos.
Profondo conoscitore della scena africana della fotografia, curatore nel 2024 del primo Padiglione del Benin alla 60ª edizione della Biennale di Venezia, Nwagbogu ha esposto la sua visione dell’evoluzione della fotografia africana nel passaggio dalla cultura afropessimista, caratterizzata da un approccio negativo sulle possibilità di sviluppo del continente, alla cultura afrofuturista, che invece include l’Africa in una visione aperta al futuro e allo sviluppo tecnologico.
Nella sua esposizione ha passato in rassegna alcuni esempi di autori e autrici che, in particolare negli ultimi 15-20 anni, hanno contribuito a rivoluzionare la narrazione sul continente, e a contrastare l’immagine afropessimista incapsulata nelle rappresentazioni come la famosa foto di Carter.

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Al di fuori delle visioni tragiche e misere, nei media mainstream dominava l’indifferenza, come denunciò nel 1996 l’installazione “Searching for Africa in LIFE” di Alfredo Jaar (1996), constatando che in più di 300 copertine della celebre settimanale statunitense dal 1936 al 1996, solo 5-6 persone afrodiscendenti erano rappresentate in copertina.
Gli autori e le autrici dell’Africa e della diaspora hanno affrontato questa sfida di ampliare la narrazione corrente e dare sempre più spazio al dinamismo e al potenziale innovativo delle comunità africane.

Lo ha mostrato Nwagbogu con esempi di autrici come la statunitense Ayana Jackson, la cui serie Desease gioca con la tradizionale afropessimistica rappresentazione dell’Africa; la sudafricana Mary Sibande, figlia, nipote e bisnipote di donne impiegate come domestiche nel Sudafrica dell’apartheid, che ha “inventato” Sophie: una colf con l’attitude di una supereroina; i ritratti trionfanti della sudafricana Zanele Muholi, autoproclamatasi “visual activist”: queste artiste sfidano gli archivi, li decostruiscono e li reinterpretano per imporre uno sguardo decoloniale. Sono loro, ha affermato Nwagbogu, ad aver insegnato un nuovo approccio agli artisti in Sudafrica e non solo, cambiando la narrazione.
E così sono emerse opere come la serie Afronauts della spagnola Cristina de Middel, ispirata all’utopistico programma iniziato in Zambia dal professore Edward Makuka Nkoloso di portare il suo paese a conquistare lo spazio.

Nwagbogu ha poi raccontato l’evoluzione del Lagos Photo Festival, dalla prima edizione nel 2010, soffermandosi su edizioni come quella del 2020, dal titolo Rapid-Response-Restitution Home Museum, costruita sull’invito aperto a tutte le persone chiuse in casa per il lockdown a partecipare con foto fatte con il cellulare a oggetti di valore presenti in casa. Una spinta alla democratizzazione del museo.

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Nel 2021 è stata la volta del progetto “Unpacking the Suitcase. Searching for Prince Emmanuel Adewale Oyenuga”, un interessante esempio di “restituzione” basato su una storia di archivi famigliari. Nel 1967, il principe Emmanuel Adewale Oyenuga si iscrisse come studente alla scuola d’arte Escuala Massana di Barcellona. Tre anni dopo, lui e sua moglie Elizabeth decisero di lasciare Barcellona per Londra. Il principe Oyenuga lasciò una valigia con il suo archivio alla sua cara amica Luisa Guadayol a Barcellona, che non ebbe più sue notizie. Nel 2016, Luisa morì e sua figlia Ana Briongos decise di tentare di restituire la valigia a Emmanuel Adewale Oyenuga o alla sua famiglia in Nigeria. Il materiale trovato nella valigia, che è diventato l’oggetto dell’esposizione, indica diversi momenti sociali e culturali nella storia della Nigeria e oltre: la guerra civile nigeriana, i legami culturali tra due paesi, Nigeria e Spagna, l’eredità dell’artista, la storia dell’emigrazione, la fotografia in studio nigeriana degli anni ’70. Dopo una lunga ricerca, i discendenti di Oyenuga sono stati rintracciati e la valigia gli è stata solennemente restituita, ha affermato Nwagbogu, come atto di decolonizzazione. Un esempio di lavoro sugli archivi, con pratiche di decostruzione e reinterpretazione, per far sì che essi parlino e contribuiscano a nuove riflessioni.

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Nella restituzione, ha infine affermato, non dobbiamo vedere solo una restituzione dei preziosi oggetti presenti nei musei occidentali, ma uno sforzo condiviso di capire cosa è successo. E per fare questo l’arte, l’immagine, giocano un ruolo fondamentale nel cambiare le narrazioni, e cambiare la percezione.

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11 febbraio 2025

A Zanzibar apre il festival musicale Sauti za Busara. Intervista con il fondatore Yusuf Mahmoud

Tra due giorni inizia a Zanzibar l’importante festival musicale Sauti za Busara, che in swahili significa “Suoni di saggezza”. In agosto 2024 abbiamo incontrato a Zanzibar Yusuf Mahmoud, dj, fondatore e direttore del Festival dal 2003 fino a due anni fa.

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S.F.: Come è nato il festival Sauti za Busara?
Y.M.: Sono venuto a Zanzibar dal Regno Unito nel 1998 per un contratto dello Zanzibar International Film Festival (ZIFF), perché avevo esperienza come organizzatore di festival. Mi chiesero di organizzare un programma musicale all’interno del festival cinematografico. Sin dal primo anno fu un grande successo, e per 5 anni ho organizzato la parte musicale dello ZIFF. Ero già un conoscitore e promotore della World Music, ma questa esperienza mi ha permesso di scoprire l’enorme ricchezza della musica swahili. Così, a un certo punto ho avuto l’idea di fondare un festival ad hoc, creando l’ONG Busara Promotions.

S.F. Come avete fatto a farlo diventare un riferimento per le industrie creative della regione e per la promozione di Zanzibar come destinazione leader per il turismo culturale?
Y.M.: La nostra intenzione con la prima edizione, in febbraio 2004, era promuovere la musica swahili di Tanzania, Kenya e Mozambico. Già allora era evidente la differenza con musica tradizionale e moderna.
A quel tempo, lo staff era composto da me assieme a un assistente, e poi c’era un board nel quale era presente Emerson [Emerson Skeens, pioniere degli hotel boutique a Zanzibar, fondatore nel 2014 delle Emerson Foundation per la promozione culturale locale, n.d.r.]. Emerson spingeva molto la cultura dell’isola, credeva nella necessità di essere orgogliosi della ricchezza culturale locale invece che copiare l’ovest, la “Mainland” [parte continentale della Tanzania, n.d.r.]. Il finanziamento inizialmente venne dalla Ford Foundation, per tre anni.
Il festival all’inizio aveva un budget di 28.000 dollari, che poi è man mano aumentato, per arrivare a 4-500.000 dollari per anno. E da uno staff di due persone siamo aumentati a 6-7 persone.

S.F.: Quali sono stati gli sponsor principali?
Y.M.: Ci hanno sostenuti Africalia [ente belga federale per il sostegno della cultura in alcuni stati africani, n.d.r.], l’Unione Europea, ZanTel, l’ambasciata della Norvegia, mentre negli ultimi due anni il principale sponsor è stata un’azienda privata che investe in Fumba Town, un nuovo polo a sud di Stone Town. È molto importante che ci sia un supporto regolare per la nostra organizzazione, il fund raising impiega moltissimo del nostro tempo. Puntiamo molto anche sul networking internazionale, il collegamento tra festival per fare circolare gli artisti e le artiste, ad esempio il Sakifo Musik Festival, della Réunion, il MASA (Marché des Arts du Spectacle Africain) di Abidjan.

S.F.: Avete un finanziamento dal governo di Zanzibar?
Y.M.: In realtà non molto, anzi, le tasse aumentano… Comunque ci danno gli spazi, e ci hanno supportato con la security. Sono orgogliosi del loro festival, che attira tanta gente ogni anno. Tutti dicono che il festival è un successo, non tanto in termini finanziari, ma come impatto. Come spinta all’economia posso dire che porta almeno 10.000.000 dollari: ci sono stati studi economici che lo hanno verificato.

S.F.: Come avviene l’organizzazione e la selezione degli artisti?
Y.M.: È un festival panafricano, e gli artisti che si esibiscono sono abbastanza emergenti: preferiamo giovani, donne, che facciano musica con una identità culturale, con testi che contengano messaggi sociali. Spaziamo tra tanti generi: musica Taarab tradizionale, Jazz, Bongo Fleva, Kidumbaki, Afrobeats, Singeli, Urban Music, AfroFusion, Reggae, Hip-Hop, Elettronica.

Pubblichiamo una call, per quest’anno abbiamo ricevuto 400 applicazioni, e ora ci riuniamo per ascoltare gli audio, guardare i video con le performance, leggere le biografie. Così selezioniamo 25-30 artisti e gruppi che possono essere invitati.

S.F.: Dove si svolge il festival? L’ingresso è a pagamento?
Il principale palco è nel prato dell’Old Fort, il secondo l’Anfiteatro, poi ci sono altri spazi nella città. Per entrare si paga un biglietto che per tutti i tre giorni del festival costa 170 dollari per i turisti internazionali, 85 per i cittadini africani e i residenti in Africa dell’Est, 8 dollari per i tanzaniani. Per noi è molto importante avere pubblico tanzaniano, avere persone che esprimono diverse culture sul palco e anche tra il pubblico.

S.F.: Come mai hai lasciato la guida dell’organizzazione?
Y.M.: Non ho lasciato, sono membro del board! In questi anni ho avuto molto stress, che ha inciso sulla mia salute. Però adesso ci sono i giovani, che portano avanti benissimo l’organizzazione.
Abbiamo consolidato un sistema organizzativo per rendere il progetto sostenibile. Esiste un piano strategico di cinque anni che comprende la comunicazione e la gestione finanziaria. Il 95% dello staff sono impiegati tanzaniani, che diventano sempre più competenti. Quando ho lasciato, alla direzione c’erano, e ci sono tutt’ora, due persone, un tanzaniano che lavorava al festival dal 2009 e un tedesco incaricato del fund raising e della gestione della ONG. Per lui era il primo anno, ma aveva esperienza di altri progetti culturali a Zanzibar. Sono molto in linea con la nostra attenzione alla cura della qualità.
Ora sono felice e in salute, e sono molto positivo per il futuro. So che ci saranno problemi tutti gli anni, è normale, ma ho fiducia nel fatto che Busara Promotions ha una reputazione, e questo è un grande valore.

S.F.: Il festival ha avuto anche una funzione di monitoraggio dello sviluppo musicale della regione.
Y.M.: Sì, è una lunga storia, e abbiamo un grande archivio di foto, video, le biografie e i dossier di tutti i gruppi e artisti/e che hanno partecipato: un importante archivio storico.

Sauti za Busara
La selezione dei/lle partecipanti all’edizione 2025 è sul sito del festival.
Nella pagina “artists” c’è un utile database delle partecipazioni a tutte le edizioni del festival, con le schede di singoli/e artisti/e e gruppi e possibilità di ricerca per nome, paese, genere musicale.

Sito: https://busaramusic.org/
Instagram: https://www.instagram.com/sautizabusara/
Facebook: https://www.facebook.com/sautizabusara/?locale=da_DK

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22 gennaio 2025

La dispensa “IO CAPITANO” creata in classe al Liceo Fermi di Bologna

La dispensa IO CAPITANO contiene gli interventi dell’assemblea seguito alla proiezione del film “Io Capitano” di Marco Garrone, organizzata dal Liceo Scientifico “E. Fermi” di Bologna il 15 novembre 2023 presso il Cinema Medica Palace.
800 studenti e studentesse hanno potuto ascoltare dalla viva voce di due protagonisti, Mohamed Sacko (Kapi) e Mamadou Bah, il racconto delle vicende che li hanno portati a lasciare la Guinea Conakry, per scappare da una realtà dittatoriale che perseguita chiunque sia impegnato nell’opposizione politica e, soprattutto, di come, una volta arrivati in Italia e a Bologna, la loro vita sia potuta ripartire e oggi sia una vita nuova. Due storie di successo, grazie ad incontri con persone, opportunità offerte e tanta intraprendenza da parte loro.

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Sono due i messaggi importanti che hanno lasciato alle classi con il racconto della loro vita: un invito ad informarsi su quello che succede nei paesi coinvolti nei processi migratori e un appello a ciascuno/a dei/lle presenti a non essere indifferenti, perché a volte basta un piccolo gesto di umanità per salvare letteralmente la vita di una persona che si trova in un paese straniero, dove non ha nessun riferimento linguistico e culturale e nessun legame.

La dispensa contiene anche alcuni dei prodotti multimediali di comunicazione realizzati dagli studenti della classe 3L per il progetto “Migrazioni”.

Scarica subito qui:
Dispensa IO CAPITANO-compresso

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08 gennaio 2025

Femminicidi d’onore e matrimoni forzati: una formazione con Tiziana Dal Pra

Nella settimana della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 27 novembre i gruppi di lavoro delle cooperative Lai-momo, Abantu, e associazione Africa e Mediterraneo hanno realizzato un incontro di formazione interna sul tema dei femminicidi d’onore e matrimoni forzati insieme a Tiziana Dal Pra, attivista femminista e fondatrice dell’associazione Trama di Terre. L’incontro si è svolto presso Stazione Boldrini in forma di dialogo condotto dalle colleghe Margherita Battaglia e Costanza Preziosi della cooperativa Abantu.

Silvia Festi, responsabile dell’area sociale, ha aperto l’evento sottolineando l’importanza della giornata e il ruolo centrale che tutte le operatrici e tutti gli operatori possono avere per la prevenzione del fenomeno.

Attingendo alla sua lunga e pioniera esperienza, Tiziana Dal Pra si è concentrata su temi cruciali quali i matrimoni forzati, matrimoni combinati e i femminicidi d’onore. Le tematiche sono state affrontate in maniera approfondita, sottolineando la necessità per gli operatori e le operatrici sociali di approcciare il tema con la consapevolezza della sua complessità per le variabili in gioco, avendo chiaro che la bussola per trattare questi temi resta quella della salvaguardia della vita delle donne e della tutela dei diritti. Il fenomeno riguarda non solo giovani ragazze che dall’Italia vengono obbligate a rientrare nel paese d’origine dei genitori per contrarre matrimoni forzati o combinati, ma anche molte ragazze e donne che si trovano costrette ad affrontare il viaggio migratorio dai paesi di origine perché promesse spose a uomini già presenti in Italia. Si è discusso ampiamente del ruolo della comunità di appartenenza, sia nel paese di arrivo sia nel paese di origine, facendo emergere i potenziali elementi di cambiamento che spesso sono poco conosciuti e comunicati e che, in alcuni casi, mostrano che è possibile sradicare comportamenti violenti e pregiudizi.

Con Tiziana, che è stata tra le prime in Italia a lanciare l’allarme e a studiare i matrimoni forzati con azioni di protezione e una costante formazione per aiutare le vittime e contrastare il fenomeno, si è parlato anche del ruolo delle operatrici nelle case rifugio dedicate a ragazze e donne che decidono di rifiutare, scegliendo di allontanarsi dalla famiglia, e della loro difficoltà nel persistere nel percorso intrapreso, che può essere molto pesante dal punto di vista emotivo.

È emersa inoltre l’importanza dell’equilibrio tra prevenzione e rispetto dell’autonomia delle donne: dall’esperienza di Tiziana Dal Pra è chiaro che sostenere una donna nel suo percorso di uscita dalla violenza significa condividere un obiettivo comune di rispetto dei diritti umani, senza mai cadere nel controllo.

Tiziana Dal Pra ha offerto a tutti e tutte i presenti informazioni importanti per il lavoro da svolgere all’interno dei servizi, una visione concreta del fenomeno fatta di incontri e percorsi con le donne, fornendo strumenti necessari per poter affrontare possibili situazioni di violenza.

L’evento, che si inserisce nell’ambito del percorso di Certificazione parità di genere PDR 125 che le nostre coop Abantu e Lai-momo hanno realizzato, ha rappresentato un’importante occasione di riflessione e stimolato nelle partecipanti e nei partecipanti nuove conoscenze e consapevolezze, affinché ciascuna/o si senta sempre più parte attiva nelle azioni contro la violenza di genere, contribuendo al cambiamento con impegno e determinazione.

Visualizza le pillole degli interventi di Tiziana Dal Pra QUI

 

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22 novembre 2024

Il numero 100 di Africa e Mediterraneo: Metodologie ed etica della restituzione

Se le relazioni culturali asimmetriche proprie del colonialismo hanno portato al saccheggio di oggetti culturali, come abbiamo costruito i dispositivi coloniali? In che modo essi agiscono ancora oggi? In che modo dobbiamo decostruire il nostro sguardo per denaturalizzarli e denaturalizzarne l’impatto sulle nostre società contemporanee? In che modo è possibile riparare? Queste sono alcune delle domande che pongono Lucrezia Cippitelli e Donatien Dibwe dia Mwembu, curatori del dossier numero 100 di Africa e Mediterraneo dedicato alla questione restituzioni.

Impugnato dai paesi africani fin dalle lotte di indipendenza degli anni 50 e 60, poi oggetto di convenzioni UNESCO e UNIDROIT ad hoc (rispettivamente del 1970 e 1995), questo tema è diventato di grande attualità perché le istituzioni occidentali, in possesso di oggetti che non hanno provenienza chiara e che testimoniano una storia oggi difficile da salvaguardare, hanno mostrato un disagio e un bisogno di liberarsi della pesante eredità coloniale e affrancarsi dalla definizione di “ultimi baluardi del colonialismo”.

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Il dibattito sulla restituzione, sulle ricostituzioni, sul riparare, attraverso la riappropriazione dei valori culturali, permette di ricollegare il passato precoloniale, consapevolmente sepolto e dimenticato, a un presente postcoloniale amputato. Cosa viene restituito? Qual è il valore degli oggetti culturali restituiti alle comunità di origine? Queste domande sono l’humus di un dibattito che dovrebbe essere speculare a quello delle società occidentali e interno al continente africano cosiddetto moderno, tra i membri delle comunità di origine, per creare uno spazio di dialogo e di sensibilizzazione sull’importanza dei valori culturali africani in generale e sul loro mantenimento e conservazione. Ripristinare tutti i valori tradizionali distrutti sembra essere la risposta alle domande: “Qual è il futuro delle nostre lingue madri, soprattutto all’interno delle famiglie intellettuali? Come manteniamo i nostri cimiteri? Come conserviamo i nostri documenti d’archivio?”

Il dossier raccoglie contributi in italiano, inglese e francese di studiosi, esperti e attivisti che trattano casi puntuali, come quelli dell’Etiopia, del Kenya e della Nigeria, e questioni più ampie. La sezione sull’Italia, che include due articoli sull’ex Museo Coloniale, oggi Museo delle Civiltà di Roma, evidenzia i limiti del dibattito e delle iniziative sulla restituzione nel nostro paese.

Al dossier è allegata come inserto la fanzine del progetto “Decolonizing the Gaze” di Caterina Pecchioli, realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council (2022). Una riflessione aperta sul legame tra identità, moda e colonialismo a partire dall’osservazione di oggetti di abbigliamento, tessuti e accessori del periodo coloniale custoditi presso archivi e istituzioni museali italiani e olandesi.

Tutte le info sul numero e per l’acquisto qui: https://www.africaemediterraneo.it/it/la-rivista/

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18 novembre 2024

PER UN MONDO PIÙ GIUSTO: IL REPORT L20 2024 UNA VISIONE DALLE PERIFERIE DEL MONDO

Roma, 18 novembre 2024.

Mentre i leader del G20 si riuniscono per firmare gli accordi contro la povertà e la fame, l’Associazione Last20 APS lancia un appello urgente non dimenticare gli “ultimi”, i 20 paesi più impoveriti del mondo, gli L20.  In occasione del summit, l’Associazione presenta il Report 2024 L20, un’analisi dettagliata delle crisi che affliggono questi paesi, dimenticate dai media.

I 20 paesi sono: Afghanistan, Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Gambia, Haiti, Liberia, Madagascar, Malawi, Mali, Mozambico, Niger, Sierra Leone, Somalia, Sud Sudan, Togo e Yemen.

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“Non possiamo parlare di sviluppo e di giustizia globale senza considerare la realtà di questi paesi,” afferma Tonino Perna, Presidente dell’Associazione Last20. “Il nostro Report offre una prospettiva unica, quella di chi vive quotidianamente le conseguenze della povertà, dei cambiamenti climatici, dei conflitti e delle disuguaglianze.” Il Report 2024 L20 si basa su dati forniti dalle Agenzie internazionali delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del FMI o raccolti sul campo, attraverso testimonianze dirette e analisi di esperti, o da membri delle diaspore, offrendo un quadro completo della situazione nei paesi L20.  Tra i temi chiave:

Crisi climatica:  La gran parte dei Paesi L20 sono i più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, nonostante siano i meno responsabili delle emissioni globali.  Molto rari sono gli interventi di mitigazione e prevenzione delle catastrofi ambientali (siccità, alluvioni, ecc.)

Conflitti e instabilità:  Quasi i due terzi dei Paesi L20 fanno registrare conflitti armati o instabilità politica, con conseguenze devastanti per le comunità locali. Il Report analizza le cause profonde di questi conflitti e il loro impatto sulla vita quotidiana delle persone,, sottolineando l’urgenza di interventi di pace e di ricostruzione. 

Povertà multidimensionale: Il Report va oltre gli indicatori economici tradizionali, analizzando la povertà nella sua complessità. Mancanza di accesso all’istruzione, alla sanità, a servizi essenziali, discriminazioni di genere, violazione dei diritti umani sono solo alcune delle dimensioni analizzate

Migrazioni forzate: Il Report analizza il fenomeno delle migrazioni forzate, spesso causate da conflitti, persecuzioni e disastri naturali. Inoltre, si sofferma sulle migrazioni all’interno degli stessi Paesi l20 o nei Paesi confinanti, ricordando che solo il 6% dei migranti dell’Africa sub-sahariana arriva in Europa.

“Il Report 2024 L20/Last20 è uno strumento fondamentale per tutte le ONG che operano nei paesi del Sud del mondo,” sottolinea Ugo Melchionda, segretario dell’Associazione.  “Offre dati, analisi e spunti di riflessione per orientare gli interventi umanitari e di sviluppo, promuovendo un approccio basato sui bisogni reali delle comunità locali.”

Il Report L20 2024 propone soluzioni in vari settori, offrendo alle ONG  un panorama di diverse opportunità di intervento per migliorare l’accesso e la qualità dell’istruzione, promuovere l’uguaglianza di genere, supportare lo sviluppo economico, fornire assistenza nelle crisi umanitarie, proteggere i diritti dei migranti e facilitarne l’integrazione o ridurre i costi di transazione delle rimesse.

L’Associazione Last20 APS invita le ONG a utilizzare liberamente i dati e le analisi dei Report 2022,  2023 e 2024,  per le proprie attività, partecipare agli eventi organizzati dall’Associazione e unirsi alla rete L20 per condividere esperienze, conoscenze e buone pratiche per un mondo più giusto e solidale.

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12 novembre 2024

La Terza Plenaria del Consultative Forum dell’Agenzia per l’Asilo dell’Unione Europea (EUAA)

I membri della società civile sollevano importanti criticità nella tutela dei diritti fondamentali dei soggetti migranti minori e vulnerabili

Di Eleonora Ghizzi Gola

Sullo sfondo di una fase cruciale nell’implementazione del Sistema Comune di Asilo (CEAS) a seguito dell’adozione nel giugno del 2024 da parte della Commissione Europea del nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo, si è svolta il 14 e 15 ottobre 2024 a Malta la Terza Plenaria del Consultative Forum dell’EUAA, l’Agenzia per l’Asilo dell’Unione Europea.

Foto EUAA CF 2024 Malta

L’EUAA assume un ruolo rilevante nell’implementazione del nuovo pacchetto di riforme legislative, avendo un mandato specifico di supporto della Commissione Europea nonché direttamente degli Stati Membri nell’elaborazione dei piani di attuazione nazionali. A cadenza annuale, EUAA è tenuta altresì ad elaborare il piano di attività del Consultative Forum, un organismo consultivo composto attualmente da 118 organizzazioni della società civile con comprovata esperienza nel settore del diritto d’asilo e dell’accoglienza, operanti a livello locale, regionale, nazionale o sovranazionale. Lai-momo è membro attivo del Consultative Forum e dello specifico Gruppo di Consultazione tematico sulle persone in una situazione di vulnerabilità, che conta ad oggi 62 membri.

I lavori della plenaria sono stati aperti dalla Dott.ssa Ana Ciuban dell’Associazione Multietnica dei Mediatori Interculturali – AMMI, attuale Presidente del Consultative Forum, che ha descritto le attività svolte nel corso dell’anno 2024, riportando un resoconto del proprio primo mandato di attività. Le organizzazioni della società civile sono state coinvolte in specifiche consultazioni in riferimento a documenti prodotti dall’agenzia, sono state invitate a partecipare a sessioni informative e incontri tematici previsti dal piano annuale di attività, nel rispetto del mandato di EUAA di mantenere un canale di stretto dialogo con gli enti maggiormente rappresentativi della società civile nell’ottica dello scambio di informazioni e condivisione delle specifiche competenze di cui sono portatori in materia di diritto d’asilo e accoglienza.

Nella prima sessione della plenaria sono intervenuti i referenti delle diverse unità che compongono l’Agenzia, fornendo un aggiornamento rispetto alla situazione dell’asilo in Unione Europea ed illustrando le attuali attività e azioni implementate dall’EUAA. L’Operational Support Centre dell’Agenzia ha lo scopo di supportare operativamente gli Stati Membri affinché il sistema nazionale di asilo e di accoglienza sia conforme alla normativa europea. Attualmente EUAA ha dislocato circa 1,300 unità di personale in 160 sedi all’interno di quegli 11 Stati Membri individuati come maggiormente bisognosi di supporto, tra cui rientra l’Italia. Sono state altresì presentate le più recenti pubblicazioni in materia di Country of Origin Information (COI) e l’Asylum Report 2024, prima di condividere le incrementate attività dell’agenzia nell’attuale e complessa fase preparatoria all’entrata in vigore del nuovo Sistema Comune Europeo per la gestione della migrazione e l’asilo, che avverrà nel giugno del 2026, a distanza di due anni dall’adozione del piano di attuazione comune varato dalla Commissione Europea.

Un affondo specifico è stato effettuato dal Fundamental Rights Officer (FRO), garante della conformità delle azioni dell’Agenzia con i diritti fondamentali delle persone. Figura istituita nel maggio del 2023 e che è tenuta ad operare in stretto raccordo con il Consultative Forum, i cui membri sono chiamati ad essere consultati nella preparazione, adozione e implementazione del piano strategico di EUAA in materia di diritti fondamentali, così come nella revisione del codice di condotta applicabile agli esperti EUAA facenti parte dei team di supporto del diritto d’asilo.

La seconda giornata, in cui si è svolto l’incontro che ha visto coinvolto un gruppo ristretto di membri del Consultative Forum in relazione alle persone in situazioni di vulnerabilità, è stata introdotta da una presentazione a cura della Commissione Europea focalizzata sull’impatto del Regolamento Screening, uno degli strumenti legislativi adottati nell’ambito del Patto Europeo sulla Migrazione e l’Asilo, sui soggetti vulnerabili. Nonostante sia stato sottolineato dalla Commissione Europea come siano previste garanzie procedurali e sostanziali in tutela dei soggetti vulnerabili, la discussione con i membri del Consultative Forum ha sollevato importanti criticità in termini di tutela dei diritti fondamentali dei soggetti migranti, in particolare dei minori stranieri non accompagnati e delle persone portatrici di quelle vulnerabilità più “nascoste”, quali le vittime della tratta degli esseri umani, a causa del ristretto termine previsto dalla normativa per l’individuazione delle condizioni di vulnerabilità. Inoltre, si teme una compressione dei diritti dei/lle cittadini/e dei Paesi Terzi nell’esercizio del diritto di presentare domanda di asilo e del rispetto del principio di non-refoulement.

I lavori si sono conclusi con la votazione del piano dei lavori del Consultative Forum per l’anno 2025, le cui specifiche tematiche saranno definite nel corso delle prossime consultazioni.

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29 ottobre 2024

Bologna, 29 ottobre 2024: Presentazione regionale per l’Emilia-Romagna all’Istituto Aldini Valeriani il Dossier statistico immigrazione Idos/Confronti

L’Emilia-Romagna si conferma la regione italiana con la più alta incidenza di residenti stranieri (12,9%)

“Fino a quando ci accaniremo sulle loro vite difficili, con i capestri normativi e le forche burocratiche di leggi bizantine, complicate da 26 anni di interventi restrittivi che hanno reso loro sempre più proibitivo mantenere (e recuperare) la condizione di regolarità? E che, a forza di stratificarsi, hanno sempre più inclinato il piano di scivolamento nel sommerso? E fino a quando, intenzionalmente tenuti in questo status giuridico incerto, proseguiremo a porgerli, senza diritti e senza tutele, su un piatto d’argento a sfruttatori senza scrupoli, nei campi e nei cantieri, nelle aziende e sui mezzi di trasporto, negli alberghi e perfino, sì, perfino nelle nostre case?”

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Queste le parole dell’introduzione del Dossier Statistico Immigrazione Idos/Confronti, la cui presentazione regionale per l’Emilia-Romagna si è tenuta questa mattina all’Istituto Aldini Valeriani di Bologna, in contemporanea con le presentazioni in tutte le regioni e provincie autonome d’Italia. Tra il pubblico, due classi di studenti del quinto anno di questa scuola storicamente inserita nel tessuto sociale e produttivo di Bologna. Dopo i saluti istituzionali del preside Pasquale Santucci e di Claudia Garbuglia della Diaconia Valdese, sono stati presentati i dati nazionali, i dati regionali e i dati del Sistema Accoglienza Integrazione del Comune di Bologna, a cura di ASP-Città di Bologna.

La referente intercultura della scuola Sara Pisani ha raccontato i progetti interculturali svolti all’IAV, ed è stato presentato da Michelle Rivera lo Sportello Antidiscriminazioni del Comune di Bologna.
Infine Isabella Pavolucci e Carmela Lavinia, rappresentanti dei sindacati CGIL e CISL per l’area bolognese, che supportano il dossier, hanno rivolto un saluto di chiusura al pubblico trattando del forte legame tra la presenza migrante e il mondo del lavoro territoriale.

PHOTO-2024-10-29-14-15-26Dati regionali
Come avviene per tutte le regioni d’Italia, anche per l’E.R. il Capitolo regionale del Dossier è redatto da una redazione regionale di ricercator* volontar*, di cui fanno parte Andrea Facchini (Regione E.R.), Valerio Vanelli (Unibo), Pietro Pinto (Comitato scientifico IDOS) e Sandra Federici (Africa e Mediterraneo), che hanno condotto la presentazione.

Al 1° gennaio 2024 i cittadini stranieri residenti in Emilia-Romagna sono 575.476 (12,9% della popolazione complessiva), in incremento di oltre 6.600 persone rispetto all’anno precedente dopo la leggera flessione del 2023 e la marcata crescita post-pandemia registrata nel 2022. Anche a livello nazionale c’è stato un leggero aumento di presenze, arrivando a oltre 5,3 milioni (9,0%).
L’Emilia-Romagna è da diversi anni la regione italiana con la più alta incidenza, seguita dalla Lombardia (12,1%). Se si considerano i soli cittadini di paesi non Ue, l’incidenza sul totale della popolazione residente in Emilia-Romagna risulta pari al 10,0%.
In regione, l’incidenza più alta si ha nelle province di Parma (15,4%), Piacenza (15,3%) e poi Modena (13,7%).
Si conferma la prevalenza di donne tra le persone straniere residenti in Emilia-Romagna sin dal 2009 (in Italia dal 2008). Al 1° gennaio 2024 sono il 52,1% del totale dei residenti stranieri in regione (in Italia 50,5%; nel comune di Bologna il 52,9%).
L’età anagrafica delle persone straniere è decisamente più giovane di quella delle italiane: se per gli Italiani è di oltre 48 anni; per gli stranieri è 36,7 anni. Tuttavia, anche tra i/le cittadini/e stranieri/e aumenta soprattutto la popolazione adulta e anziana: fra i/le stranieri/e residenti, quelli/e di almeno 50 anni nel 2008 erano l’11%, oggi sono quasi il 25%; quelli/e di meno di 35 anni erano il 57,6%, oggi sono il 44,9%.
I/le minori stranieri/e residenti in Emilia-Romagna sono circa 113.551, corrispondendo a quasi un quinto (19,7%) del totale degli stranieri, così come in Italia, e al 17,0% del totale dei minori residenti in Emilia-Romagna (i valori sono leggermente più bassi per Bologna).
I bambini e le bambine stranieri/e nati/e nel 2023 in Emilia-Romagna sono stati 6.089, pari al 21,3% del totale dei nati nell’anno (in Italia sono il 13,3%). In venti anni, in Emilia-Romagna il numero di bambini stranieri nati è aumentato del 58,8%, mentre i nati italiani sono diminuiti del 29% circa.
Fra i cittadini stranieri residenti in Emilia-Romagna il 17% circa è nato in Italia. Se si considerano i soli minorenni, circa tre quarti sono nati in Italia, e in particolare lo è la quasi totalità dei residenti con meno di 6 anni, circa l’80% di quelli con 6-10 anni, circa il 70% degli 11-13enni.
Le acquisizioni di cittadinanza italiana, dopo una flessione 2017-2019, hanno avuto un nuovo incremento fino al 2022.

PHOTO-2024-10-29-14-17-14I primi quattro Paesi di cittadinanza dei residenti stranieri in Emilia-Romagna sono: Romania (17,3%), Marocco (10,1%), Albania (10,0%), Ucraina (6,7%). In Italia sono Romania (21,0%), Albania (8,1%), Marocco (8,1%), Cina (6,0%). Per quanto riguarda l’area metropolitana di Bologna, i comuni con la maggiore presenza straniera sono: Galliera (18,6), Crevalcore e Vergato (16,6), Bologna (15,7), Baricella (15,4), San Pietro in Casale (14,9), Monterenzio (13,6), Castel del Rio (13,4), Casalfiumanese (13,3), Castiglione dei Pepoli (13,0).
Il fenomeno migratorio è oggetto di costanti approfondimenti da parte dell’Osservatorio regionale della Regione Emilia-Romagna, si segnala in particolare un recente Focus su Salute e servizi sanitari dal quale emerge un quadro importante di ricorso ai servizi sanitari ma con possibili ulteriori elementi di miglioramento in termini di equità e utilizzo appropriato dei servizi.

Nota di sintesi dei dati SAI-Bolognacares!
Il progetto SAI cura dal 2015 la raccolta di dati relativi al sistema di accoglienza dell’area metropolitana rendendo disponibili infografiche aggiornate e informazioni relative al progetto nel sito dedicato www.bolognacares.it. Alla sezione REPORT/DATI presenta infografiche mensili dettagliate per comuni, distretti e i quartieri di Bologna relative alla Dimensione territoriale dell’accoglienza e infografiche annuali in merito alle Caratteristiche delle persone accolte https://www.bolognacares.it/dati/.
I dati pubblicati nel sito, grazie alla collaborazione della Prefettura di Bologna, comprendono nella dimensione territoriale quantitativa anche i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) in capo alla Prefettura di Bologna.
Attualmente il sistema CAS e SAI conta complessivamente 3597 posti in 415 strutture, con una media rispettivamente di posti per struttura per i CAS di 25 posti e per i SAI di 6 posti.
Il progetto SAI (Sistema Accoglienza Integrazione) è realizzato nell’Area Metropolitana di Bologna dal comune di Bologna, titolare del progetto, con l’adesione di 41 comuni del territorio metropolitano e nel Circondario Imolese con un progetto specifico. Il progetto, a titolarità del Comune di Bologna è realizzato in co-progettazione e in convenzione con 9 enti del Terzo Settore capofila che coinvolgono complessivamente 15 enti attivi nel territorio con tre categorie specialistiche di accoglienza: Ordinari, Persone con disagio sanitario e/o mentale (DS/DM), minori stranieri non accompagnati (MSNA).
Si tratta di un sistema di accoglienza diffusa (distribuita nel territorio in abitazioni di piccole dimensioni) che nel 2015 contava 294 posti ed oggi 2076. È un sistema strutturato con servizi specialistici: accoglienza, accompagnamento legale, alla formazione (linguistica e professionale) e al lavoro, mediazione linguistico-culturale, attività di comunicazione rivolte alla cittadinanza, iniziative volte a promuovere le autonomie e le relazioni con le comunità. Ha come obiettivo principale la (ri)conquista dell’autonomia individuale delle persone accolte, intesa come una loro effettiva emancipazione dal bisogno di ricevere assistenza.

PHOTO-2024-10-29-14-17-14 2L’accoglienza SAI nell’Area Metropolitana di Bologna è realizzata in 340 strutture, che si sostanziano in appartamenti in condomini o in abitazioni multifamiliari.
La maggioranza delle strutture si trova a Bologna città con 1202 posti in 189 strutture. Seguono i dati degli altri distretti: 250 posti nel distretto Pianura Est, 229 nel distretto San Lazzaro di Savena, 224 nel distretto Reno Lavino Samoggia, 125 nel distretto Appennino Bolognese e 46 nel distretto Pianura Ovest. A queste si aggiungono 114 posti in 19 strutture del progetto del Circondario Imolese.
Il SAI a titolarità Comune di Bologna ha accolto nel 2023 per la categoria Ordinari 1690 persone, per la categoria DS/DM 136, e per la categoria MSNA 858 minori. Nel 2023, per gli adulti e le persone in nucleo famigliare, le nazionalità di provenienza sono 55: la maggiormente rappresentata è la Nigeria (344 persone), seguita dall’Ucraina (330), il Pakistan (140), l’Afghanistan (111), la Somalia (94) e la Tunisia (91).
Oltre il 57% delle persone accolte nelle categorie Ordinari e DS/DM è in nucleo famigliare o monoparentale, complessivamente il 67,5% delle persone accolte ha meno di 30 anni.
Per i MSNA, la nazionalità maggiormente rappresentata nel 2023 è la Tunisia (348 persone), seguita dall’Albania (151 persone) e dall’Egitto (127 persone).

Info: s.federici@africaemediterraneo.it
Tel. 349 2224101
www.africaemediterraneo.it

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09 ottobre 2024

Il 3 ottobre 2024 a Lampedusa: ricordare le vittime, raccontare il coraggio di chi non si è girato dall’altra parte

Lampedusa si è riempita anche quest’anno di studenti e studentesse provenienti da diverse regioni d’Italia, per ricordare il naufragio del 2013 in cui morirono 368 persone.

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Il programma messo in campo dall’associazione Comitato 3 ottobre è stato particolarmente ricco, con diversi incontri, concerti, un commovente spettacolo teatrale con Yong Di Wang, attore di origine cinese non vedente e Amadou Diouf un giovane senegalese sordo arrivato solo un anno prima a Lampedusa (a cura di Raizes teatro di Alessandro Ienzi) e un musical realizzato dagli studenti del Liceo coreutico-musicale di Pesaro, ispirato al libro di Enaiatollah Akbari e Fabio Geda, “Nel mare ci sono i coccodrilli”, che narra il drammatico percorso migratorio di un bambino afghano fuggito al regime dei Talebani.
Gli spettacoli e gli incontri si sono tenuti nella centrale via Roma, accanto al museo archeologico, e sono stati sempre molto partecipati.

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Quest’anno è stato organizzato dall’amministrazione comunale anche un cartellone parallelo che ha voluto colmare una certa frattura tra le celebrazioni ufficiali, che coinvolgono soprattutto personalità politiche e del mondo associativo nazionale e internazionale, e la cittadinanza di Lampedusa, che le percepisce a volte come un “festival arrivato dall’esterno”. Il 2 ottobre le realtà culturali e sociali dell’Isola coinvolte hanno aperto le loro porte in piccole iniziative di dialogo e racconto, e il 3 si è proseguito con alcuni momenti molto intensi. Innanzitutto, la veglia silenziosa con i sopravvissuti e i parenti alle 3:20 del mattino, ora in cui la grande barca colma di 500 persone si ribaltò 11 anni fa.

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Questo commovente incontro si svolge dal 2019 ogni anno attorno al memoriale con i nomi delle persone morte realizzato da Vito Fiorino, il “pescatore” che con 7 amici e amiche dette l’allarme e quella notte salvò sulla sua piccola barca 47 persone. Alle 18 si è svolta una cerimonia interreligiosa in chiesa e alle 19 l’inaugurazione del Giardino dei Giusti, realizzato dall’amministrazione grazie a un progetto FAMI, e patrocinato da Fondazione Gariwo.

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I primi Giusti di Lampedusa riconosciuti dai grandi ulivi, piantati in un’area riqualificata accanto al Museo Archeologico delle Pelagie affacciata sul Porto Nuovo, sono I pescatori di Lampedusa, rappresentanti di una comunità che nel corso degli anni ha salvato centinaia di vite in mare, e Alexander Langer, politico e attivista che ha dedicato la sua vita alla pace e al dialogo tra culture. “Questi pescatori, soccorrendo delle persone in mare, non hanno solo salvato delle vite umane, hanno scosso le coscienze dell’Europa. E questo Giardino dei Giusti a loro dedicato vuole insegnare che tutti siamo chiamati a prenderci delle responsabilità”, ha detto Gabriele Nissim, presidente della Fondazione Gariwo. Oltre a Vito Fiorino sono intervenuti i pescatori Pietro Riso (“È un istinto naturale che mettiamo in campo, perché, noi diciamo che in mare non ci sono taverne, bisogna far salire chiunque sia in difficoltà. Ma questo è un fenomeno che perdura dagli anni 90.”) ed Enzo Partinico (“un giorno del del 2021, erano le 5 di mattina e si è avvicinata una barchetta. In quel momento, la prima cosa a cui si pensa è solo di salvarle, e come fare a mettere queste persone sulla barca, ma è difficilissimo… li guardavo negli occhi e pensavo al loro padre e alla loro madre… c’era uno che contava le persone: erano 24”) e Alexander, un giovane eritreo salvato la notte del 2013 che ora vive in Olanda.

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La serata è proseguita con il musical “Sotto lo stesso cielo”, interpretato da studentesse e studenti della Compagnia del Kintsugi del Liceo di Pesaro, ispirato alla vicenda del naufragio come raccontata dai superstiti e dal gruppo di 8 persone che dettero l’allarme e quella notte salvarono sulla loro piccola barca 47 persone. Al termine si è svolta la proiezione del documentario “A Nord di Lampedusa”, diretto da Davide Demichelis e Alessandro Rocca, che sono andati a vedere come vivono alcune persone sopravvissute al naufragio del 3 ottobre nelle loro vite attuali in Olanda, Svezia e Norvegia, e come non si è mai interrotto il rapporto con i pescatori che li hanno salvati, tra questi Vito Fiorino.

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Queste iniziative hanno forse riallacciato un legame e coinvolto le persone che nell’isola vivono, e che hanno vissuto in ottobre 2013 un trauma terribile che non è ancora passato, e dato spazio alla voce di questo piccolo territorio che all’estremo sud dell’Italia continua a essere il luogo di approdo di centinaia di persone. In questi giorni, tra l’altro, non sono mancati approdi e salvataggi di barche di migranti, e il 3 ottobre nell’hotspot di contrada Imbriacola, nonostante i continui trasferimenti, erano accolte 732 persone.

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