24 luglio 2023

Quattro ragazze da quattro paesi per la giustizia climatica e sociale

Quattro donne, quattro vite, quattro ritratti provenienti da diverse parti del mondo, con l’obiettivo di sensibilizzare sulla crisi ambientale e sostenere la giustizia sociale delle comunità in cui vivono. È la serie “Wonder Women – Storie di donne ordinarie che fanno cose straordinarie”, il nuovo format prodotto da WeWorld – organizzazione impegnata da 50 anni a garantire i diritti di donne, bambine e bambini in 27 paesi del mondo – con la firma di Unknown Media, casa di produzione indipendente berlinese.

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Viaggiando tra Germania, Italia, Tunisia e Kenya nella serie con la regia di Carlotta Piccinini, Mario Piredda e Shira Kela, si racconta l’impegno di quattro giovani donne in prima linea nell’affrontare emergenze ambientali, economiche, sociali e culturali, alla ricerca di alternative originali di vita e che con le loro azioni, non solo hanno un impatto significativo sul clima e sugli ecosistemi del pianeta, ma portano al superamento dello stereotipo di genere, del razzismo, del sessismo e del classismo. Protagoniste Paula Pröbrock, Carola Farci, Sereti Nabaala, Thowaiba Ben Slema che, nel corso delle puntate, affrontano un tema specifico in parallelo alla crisi climatica: dalla sensibilizzazione sulle mutilazioni genitali femminili, alla danza e la musica come strumento di emancipazione per chi viene costretto ai margini della società. Con arte, musica, spettacolo, sport, scuola, lavoro, scienza ed ecologia, attraverso piccoli gesti quotidiani, le giovani attiviste contribuiscono, non solo a migliorare la qualità della vita delle loro comunità, ma a sensibilizzare la propria generazione ad attivarsi e chiedere cambiamenti concreti. Per queste giovani donne la giustizia ambientale e quella sociale sono due facce della stessa medaglia.

Schermata 2023-07-24 alle 11.05.34“La serie mette al centro le storie di quattro giovani donne che raccontano il loro quotidiano fatto di piccole ma potenti azioni, capaci di sensibilizzare la propria comunità e per questo portatrici di grandi cambiamenti – spiega Rachele Ponzellini, coordinatrice comunicazione EU & Mondo di WeWorld – Quando si parla di cambiamento climatico sappiamo che le singole azioni non sono più sufficienti ma sono necessarie politiche ambiziose capaci di mitigare e prevedere gli effetti della crisi climatica in corso. Eppure, l’eco delle azioni messe in campo dalle singole persone mostra come le comunità – in tutto il mondo – siano consapevoli degli impatti della crisi ambientale e come le popolazioni siano disposte a cambiare stile di vita. Un racconto corale che dà voce ad ampio spettro alle nuove generazioni per ribadire che il cambiamento climatico ci riguarda tutte e tutti e non c’è più tempo da perdere”.

“Puntare su storie di donne apparentemente ordinarie che però con il loro agire rispecchiano valori necessari ed universali è per noi doveroso, in un periodo in cui le produzioni audio-visive, soprattutto di vasta scala, prediligono prodotti commerciali, macchiettistici e molto stereotipati dimenticando il valore e la forza delle piccole persone ordinarie, che con le loro storie di vita ci raccontano lo sforzo di mettersi in gioco per proteggere i nostri valori comuni e i diritti umani universali tentando di costruire un futuro migliore per tutti. Per una società di produzione puntare anche su queste eroine ordinarie e portare sul grande schermo le loro storie è importante non solo da un punto di vista produttivo ma anche etico”, spiegano da Unknown Media.

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La serie è stata presentata in anteprima nazionale al WeWorld Festival durante un evento in programma sabato 27 maggio alle 16.30. Alla proiezione è seguito un dibattito con le protagoniste e i registi Carlotta Piccinini, Mario Piredda e Shira Kela, con la moderazione di Laila Bonazzi, giornalista e sustainability editor.

La serie è stata realizzata nell’ambito della campagna di comunicazione europea #ClimateOfChange, guidata dall’Organizzazione e cofinanziata dalla Commissione Europea nell’ambito del Programma DEAR (Development Education and Awareness Raising Programme), che mira a sviluppare la consapevolezza dei giovani, cittadine e cittadini dell’UE sul nesso tra cambiamento climatico e migrazioni.

Wonder Women: le storie delle donne protagoniste

Carola Farci, Cagliari, Italia – Carola, ha trentadue anni ed insegna storia ed italiano in un liceo di Cagliari. Soffre di una “malattia” che lei definisce “ansia ecologica”. Ha iniziato da piccola a pulire la spiaggia davanti casa e col tempo è diventata la sua attività quotidiana, un bisogno di fare qualcosa per il Pianeta.
Il 17 ottobre dello scorso anno si è lasciata tutto alle spalle, si è presa un anno sabbatico e insieme al suo cane Polly ha intrapreso un viaggio on the road per ripulire le spiagge d’Europa. Appena tornata dal suo lungo viaggio ha organizzato un’asta mettendo in vendita alcuni degli oggetti trovati sulle spiagge. Con il ricavato progetta di piantare 2000 alberi in tutto il mondo.
È sempre stata appassionata di immersioni subacquee ed è orientata esclusivamente alla pulizia dei fondali: impiega il suo tempo sott’acqua portando in superficie nasse, reti da pesca, plastica e ogni genere di materiale. Il suo sogno è sensibilizzare le altre persone, i giovani, i suoi studenti sulle tematiche ambientali rendendo la virtuosa ‘patologia’ ecologica, contagiosa!

Sereti Nabaala, Narok, Kenya – Sereti, ha ventiquattro anni ed è un’attivista keniota Maasai del villaggio di Aitong a Narok West. L’obiettivo di Sereti è quello di sensibilizzare le donne delle comunità Maasai a opporsi alle mutilazioni genitali femminili e diventare spose bambine. Con la sua Associazione “Save Our Girls”, di cui è capogruppo, fornisce alle donne dei villaggi assorbenti riciclabili, un bene difficile da ottenere per le donne del villaggio. Molte devono recarsi in grandi centri abitati per ottenerli. Viaggiare dalla campagna ai centri urbani per le giovani donne è estremamente pericoloso, a causa di rapimenti e violenze sessuali.
Le conseguenze del cambiamento climatico stanno ostacolando l’uso diffuso del materiale riciclabile e il fiume del suo villaggio, dove le donne possono lavare gli assorbenti, si sta prosciugando. Sereti e il suo gruppo di donne Maasai hanno ideato un progetto per piantare alberi e riforestare l’area a ridosso del fiume, il “Mara”, la riserva nazionale Maasai, per riportare l’acqua. La dedizione di Sereti sui diritti delle donne della sua regione proviene dalla sua esperienza complicata e dolorosa di giovane Maasai: a 10 anni, come ogni ragazza Maasai della sua età, Sereti ha subito la mutilazione genitale femminile. Dopo un lungo periodo di sofferenza e studio, decide di fondare l’Associazione “Save Our Girls”.

Paula Pröbrock, Berlino, Germania – Paula ha ventisette anni ed è un’attivista ambientale tedesca, coreografa e ballerina. È nata nell’area rurale di Brandeburgo, la regione più arida della Germania. Sin dall’infanzia Paula è stata consapevole del problema climatico e si è dedicata alla cura del suo territorio, che oggi accusa una grande crisi idrica. Dopo gli studi di danza ad Amsterdam, ha subito un incidente che l’ha costretta ad abbandonare il suo sogno di diventare una ballerina professionista e si è trasferita a Berlino per lavorare come insegnante di danza. Paula sfrutta le sue conoscenze per creare un ponte tra la danza e il volontariato sociale contro la crisi climatica. Nei suoi progetti di danza coinvolge anche i gruppi più fragili, quelli che subiscono maggiormente le conseguenze del cambiamento climatico: figli di immigrati, donne, le comunità LGBTQIA+ e persone con disabilità. E’ vicina a realizzare il suo sogno e debuttare con Tanzwekstatt, uno show ambizioso, basato sulla visione armonica che la Natura riesce a creare tra esseri differenti e dove ballerini professioni e figli disabili di cittadini migranti danzano insieme. 

Thowaiba Ben Slema, Tunisi, Tunisia – Thowaiba ha venticinque anni ed è la presidente dei “Giovani per il clima” in Tunisia. Il suo impegno contro il cambiamento climatico è connesso ad un trauma ed ad una violenza subita nel passato, che la fa sentire insicura di sé stessa e dell’ambiente che la circonda. Nel 2018, quando realizza che il suo Paese sta cadendo a pezzi, politicamente e socialmente, a causa della corruzione e della cattiva gestione, diviene un’attivista climatica: comprende che per salvarsi deve agire e spronare le persone accanto a lei. Ha attivato diversi progetti di sensibilizzazione di empowerment femminile e progetti di giustizia climatica, sociale e di gender equality. Tra i suoi tanti progetti c’è “FeMENA”, uno spazio sicuro dove poter praticare djing, storytelling e podcasting, digital art, content creation. FeMENA rappresenta uno spazio per incoraggiare le donne a riprendere in mano la propria vita e a non sottostare alla dominazione maschile, creando nuove formule di lavoro e di green jobs. Thowaiba è riuscita a fare della sua tragica esperienza personale un problema globale, aiutando gli altri ad affrontare il proprio trauma e ad avere una visione diversa del mondo.

#ClimateOfChange
#ClimateOfChange è la campagna di comunicazione europea – guidata dall’italiana WeWorld e cofinanziata dalla Commissione Europea nell’ambito del Programma DEAR (Development Education and Awareness Raising Programme) – che mira a sviluppare la consapevolezza dei giovani cittadini e cittadine dell’UE sul nesso tra cambiamento climatico e migrazioni e coinvolgerli per creare un movimento pronto non solo a cambiare il proprio stile di vita ma anche a sostenere la giustizia climatica globale.
Ad unire le forze per raggiungere lo scopo sono 16 organizzazioni europee – tra organizzazioni della società civile, università e ONG – che dal 2020 sono al lavoro per progettare in sinergia, non solo ricerche e dibattiti nelle scuole e nelle università, ma anche una campagna paneuropea di comunicazione e sensibilizzazione, online e offline, che interesserà milioni di ragazzi e ragazze dai 16 ai 35 anni che vivono in 23 stati membri dell’UE. Per saperne di più è possibile visitare il sito www.climateofchange.info.

WeWorld
WeWorld è un’organizzazione italiana indipendente impegnata da 50 anni a garantire i diritti di donne e bambini in 27 Paesi, compresa l’Italia.
WeWorld lavora in 129 progetti raggiungendo oltre 8,1 milioni di beneficiari diretti e 55,6 milioni di beneficiari indiretti. È attiva in Italia, Siria, Libano, Palestina, Libia, Tunisia, Afghanistan, Burkina Faso, Benin, Repubblica Democratica del Congo, Burundi, Kenya, Tanzania, Mozambico, Mali, Niger, Bolivia, Brasile, Nicaragua, Guatemala, Haiti, Cuba, Perù, Tailandia, Cambogia, Ucraina e Moldavia.
Bambine, bambini, donne e giovani, attori di cambiamento in ogni comunità sono i protagonisti dei progetti e delle campagne di WeWorld nei seguenti settori di intervento: diritti umani (parità di genere, prevenzione e contrasto della violenza sui bambini e le donne, migrazioni), aiuti umanitari (prevenzione, soccorso e riabilitazione), sicurezza alimentare, acqua, igiene e salute, istruzione ed educazione, sviluppo socio-economico e protezione ambientale, educazione alla cittadinanza globale e volontariato internazionale.
MissionLa nostra azione si rivolge soprattutto a bambine, bambini, donne e giovani, attori di cambiamento in ogni comunità per un mondo più giusto e inclusivo.  Aiutiamo le persone a superare l’emergenza e garantiamo una vita degna, opportunità e futuro attraverso programmi di sviluppo umano ed economico (nell’ambito dell’Agenda 2030).
VisionVogliamo un mondo migliore in cui tutti, in particolare bambini e donne, abbiano uguali opportunità e diritti, accesso alle risorse, alla salute, all’istruzione e a un lavoro degno. Un mondo in cui l’ambiente sia un bene comune rispettato e difeso; in cui la guerra, la violenza e lo sfruttamento siano banditi. Un mondo, terra di tutti, in cui nessuno sia escluso.

Per informazioni:

Ufficio Stampa WeWorld
Greta Nicolini – Responsabile Ufficio Stampa, 347 5279744 – greta.nicolini@weworld.it
Irene Leonardi, 389 1642500 – irene.leonardi@weworld.it

Ufficio stampa Eprcomunicazione
Chiara Comenducci, 3343124974, comenducci@eprcomunicazione.it;
Paola Garifi, 328 9433375, garifi@eprcomunicazione.it;
Laura Fraccaro, 347 4920345, fraccaro@eprcomunicazione.it;
Elisabetta Amato, 3341062933, amato@eprcomunicazione.it;

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17 luglio 2023

Il colore X

di Francesca Romana Paci

Dal 19 al 23 giugno 2023 presso la sala Bausch del Teatro Elfo Puccini di Milano è andato in scena Il colore X, uno spettacolo composto di tre pièce, scritte da tre differenti autori, prodotto dalla compagnia teatrale Animanera, fondata a Milano nel 2003 da Aldo Cassano, Natascia Curci, Antonio Spitaleri, e Lucia Lapolla, ma attiva e creativa in campo teatrale già da alcuni anni prima della fondazione ufficiale. Animanera ha una forte identità sociale, legata soprattutto al territorio di Milano e dintorni – ma universalizzabile – e ai problemi di rapporti, comunicazione, aspirazioni, sopravvivenza, e, implicitamente, speranza.
L’attività artistica della compagnia, in realtà, è talmente varia da sfidare classificazioni. I componenti del gruppo scrivono di sé: «Animanera insegue la forza evocativa delle immagini […]. Votata alla sperimentazione e alla ricerca, nell’ottica di interpretare e agire il politico, il sociale e il presente, […] [l]’urgenza della compagnia è sperimentare […].»

1958

Nei giorni seguenti le rappresentazioni di Land of Poetry al Teatro Nohma, lo zambiano Martin Llunga Chishimba ha recitato all’Elfo Puccini in tutte e tre le pièce del Colore X. Il titolo dello spettacolo – un bellissimo titolo unificante, ideato dal regista Aldo Cassano – suona intenzionalmente sommesso e nello stesso tempo rappresenta una dichiarazione di credo, principio e scopo. Qualcosa come, grossolanamente, “qualunque sia il colore, gli umani sono tutti uniformemente umani”. Il “colore”, si deve aggiungere, non è solo il colore della pelle, ma si può estendere a metafora di molto altro. Nella prima pièce, La panchina di Davide Carnevali, Martin Chishimba è co-protagonista con Yudel Collazo, cubano; nella seconda, L’uomo con gli occhiali di Greta Cappelletti è protagonista unico, nella terza, Mani blu, di Magdalena Barile, è co-protagonista con Kalua Rodriguez, anche lei cubana. Conviene dire subito che i tre attori, nessuno di loro evidentemente madrelingua, recitano in ottimo e duttile italiano. La regia è di Aldo Cassano, l’aiuto regia di Natascia Curci; le scene sono di Nani Waltz, i costumi di Lucia Lapolla, le luci di Giuseppe Sordi, il sound design di Antonio Spitaleri. Come si vede, il gruppo fondatore continua lavorare unito.

La prima pièce, La panchina, usa la parola “panchina” in almeno due o tre dei suoi significati contemporanei più frequenti: la panchina dove siedono i calciatori, pronti a essere chiamati per una sostituzione in campo; un sedile di veri o soi-disant calciatori; e la panchina come dimora di senzacasa – le situazioni cambiano quasi improvvisamente, senza alcun cambio di scena, solo un breve silenzio. I due attori, Chishimba e Collazo sono entrambi veramente molto bravi, capaci di muoversi su e intorno alla panchina, quasi unico arredo di scena, centrale e imperante; e capaci di adattare la voce alla fluttuazione del narrato e dell’argomentazione.
Nella seconda pièce, L’uomo con gli occhiali, Chishimba è protagonista unico. Recita in piedi davanti a un microfono posto al centro di un palcoscenico altrimenti vuoto. Vestito con eleganza casual, porta un vistoso e farsesco paio di occhiali rosa e violetti. Gli occhiali sono il segno della sua diversità, ma non per vistosità e colori, ma proprio in quanto “occhiali”, e quindi modificatori del visibile, per poi virare a una dimensione metaforica e diventare auto-modificatori individuali del vissuto; e, infine, per generare, o meglio causare un modo metastabile di porsi davanti ai rapporti umani. Chishimba entra nel personaggio con slancio e sottigliezza, mostrando una notevole abilità nel modulare la propria voce e il proprio corpo in nuances e innuendo. Il pubblico coglie i suggerimenti e, se vuole, li elabora.
Nella terza pièce, Mani blu, Rodriguez e Chishimba sono una madre e un figlio, che vivono in una situazione emarginata e disagiata, e mostrano pieghe del loro rapporto, insieme a quotidiani e reiterati tentativi passati e presenti di resistenza al loro stato. Lei sperava tutto per suo figlio – tutto nella forma di un inserimento se non prestigioso almeno borghese nella società; lui non ha raggiunto alcuno di quei traguardi: scrive messaggi salvifici sui muri; è omosessuale e probabilmente si prostituisce vestito da donna. Alla fine, la madre, che lo aiuta a vestirsi, pur soffrendo per i sogni inesauditi, gli dice «Come sei bella!»
Il titolo dello spettacolo, Il colore X, come sopra accennato, già di per sé dichiara la posizione di Animanera. Altrettanto importante il dato di fatto che la compagnia abbia scelto di ingaggiare tre attori neri, e nello stesso tempo renda palese con vari mezzi che tutti e tre potrebbero essere di qualunque colore – la natura umana è una. All’inizio, o meglio prima dell’inizio, una voce fuori scena proclama: «I due personaggi non sono neri – I due personaggi non sono bianchi – I due personaggi non sono blu – I due personaggi non sono gialli – I due personaggi non sono rossi». Il regista Aldo Cassano spiega che questo elenco deriva da una nota autoriale di Davide Carnevali a margine del copione della Panchina. L’autore, dunque, l’ha intesa come intrinseca alla sua pièce, ma la compagnia e il regista la leggono come appropriata e pertinente a tutte e tre le pièce, e decidono di adattarla e porla nella posizione vessillifera di introibo allo spettacolo in toto.
Perché, dunque, la scelta di tre attori neri? La risposta deve restare libera, ma la forza argomentativa della negritudine appare evidente, anche perché contiene una buona dose di pregresso intellettuale, di storia, di critica e di provocazione al presente.
In conversazioni private post-spettacolo, alcuni membri della compagnia hanno fatto notare come sia difficile trovare a Milano, e in Italia, attori neri. Nel caso particolare, Kalua Rodriguez, laureata, tra molto altro, in “Pedagogia teatrale” a Cuba, e diplomata della Scuola del Piccolo Teatro, vive vicino a Milano, dove lavora. Ha fondato e partecipa a varie iniziative teatrali di studio e ricerca, come il “Teatro utile” legato al Teatro Filodrammatici, privilegiando l’indagine e la critica sociale; recita in teatro; e insegna spagnolo all’Istituto Cervantes di Milano. Anche Yudel Collazo, attore, danzatore e studioso gravita su Milano; si laurea a Cuba come “Promotore e operatore teatrale”; lavora presso il Teatro Filodrammatici – con Kalua Rodriguez – e lavora come interno per il Teatro alla Scala. Di Martin Chishimba, attore, scenografo, coreografo, musicista, studioso e scrittore, si è già detto; vive e lavora in Zambia, nella città di Ndola, e, per lavoro, viene spesso a Milano, dove si è diplomato presso la Scuola del Piccolo Teatro. In breve, tutti e tre gli attori hanno curricula interessanti e prestigiosi, che ci impongono riflessioni, scomode, sulla società, sulla cultura e, come dice, proprio all’inizio dell’episodio di Proteo, Stephen Dedalus nell’Ulisse di James Joyce, sulla «Ineluttabile modalità del visibile» – il che, in realtà, è solo la punta dell’iceberg. Per inciso: si potrebbe qui, ma non è il momento, aprire un discorso sul teatro radiofonico e su come quel teatro comunica il visibile.

Il pubblico, ovviamente, può assistere allo spettacolo senza conoscere la vita e la provenienza degli attori, e abbandonarsi, come a diritto di fare, alla «sospensione dell’incredulità» (la «suspension of disbelief», teorizzata da S. T. Coleridge nella sua Biographia Literaria), ma lo scopo della compagnia Animanera è proprio quello di portare il pubblico a riflettere, insieme a loro, sulla situazione umana. Per ottenere quello scopo, però, è necessario non fermarsi mai, e, inoltre, portare il pubblico a teatro. Non è facile, perché il teatro nella nostra contemporaneità non è abbastanza frequentato e certamente non è abbastanza sostenuto dai poteri. Le iniziative, lo slancio, le idee, le sfide – pur non esenti da pecche – non mancano, quelle che spesso mancano sono le risorse economiche. E anche una più diffusa educazione teatrale e insieme più cultura storico-politica.

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10 luglio 2023

Decolonizing the Gaze: Textile Cultural Heritage vs Colonialism – Cultural Appropriations?

Il dibattito su ciò che i diversi tessuti e la loro storia raccontano degli scambi tra culture diverse, del colonialismo e delle appropriazioni culturali continua a produrre riflessioni e interrogativi. L’11 luglio (h 18:00–20:30) ad Amsterdam la piattaforma per l’arte contemporanea e la cultura visuale Framer Framed ospita la tavola rotonda “Decolonizing the Gaze – Textile Cultural Heritage vs Colonialism – Cultural Appropriatons?”.

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La discussione, che coinvolge stilisti, artisti e fashion designer afro-discendenti originari di paesi con una storia di colonizzazione da parte dell’Olanda, intende identificare nuovi significati sulle diffuse pratiche di abbigliamento coloniale e sulle politiche del corpo, nonché sugli effetti del colonialismo sull’individuo e sull’immaginario collettivo.
Insieme allo stilista e direttore creativo Zinzi de Brouwer e all’editore e designer Willem van Zoetendaal, la tavola rotonda offrirà uno sguardo sui tessuti Dutch Wax, prodotti in Olanda e venduti in Africa, sulle implicazioni dei loro disegni e messaggi, e sulla loro complessa e controversa identità. Le immagini e i messaggi di questi famosi tessuti possono essere considerati archivi di significati che raccontano un rapporto ambiguo legato al periodo coloniale europeo.
Gli stilisti e direttori creativi Semhal Tsegaye Abebe, Bubu Ogisi e Zinzi de Brouwer metteranno in luce anche iniziative e progetti di design che rivelano la ricchezza del patrimonio tessile africano, oggi ancora poco conosciuto in Europa, e il suo legame con la sostenibilità.
Alcuni dei temi portati alla discussione emergeranno da un workshop partecipativo che Caterina Pecchioli conduce presso CBK Zuidoost Broedplaats Heesterveld e dalle interviste raccolte su questi temi da lei stessa e da Roxane Mbanga tra Amsterdam e Parigi.
La tavola rotonda è organizzata nell’ambito di “Decolonizing the Gaze: The Colonial Heritage of Italian and International Fashion Design and Its Impact on the Collective Imagination”, un progetto di Caterina Pecchioli che propone un’analisi visiva e storica di capi di abbigliamento, tessuti e accessori del periodo coloniale italiano e olandese che sono conservati nelle collezioni dell’Ex Museo Coloniale di Roma e del Tropenmuseum di Amsterdam.
Esso consiste in uno studio partecipativo che mira a portare la prospettiva decoloniale italiana all’interno del vivace dibattito europeo sulla decolonizzazione della moda e della cultura e sugli usi politici della moda e dell’abbigliamento.
Il complesso rapporto tra decolonialismo, patrimonio, globalizzazione culturale e “Made in Italy” viene affrontato attraverso un programma di workshop e seminari con la collaborazione di istituzioni impegnate sul tema in Italia, Olanda, Etiopia, Sudafrica e USA.
In Olanda, Caterina Pecchioli è artista residente presso la Fondazione Thami Mnyele per i mesi di giugno e luglio 2023 per sviluppare la fase olandese del progetto.

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Questo progetto è sostenuto dall’Italian Council (11
a edizione, 2022), Direzione Generale per la Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura italiano. I programmi sono in collaborazione con Framer Framed (NL), Thami Mnyele Foundation (NL), CBK Zuidoost NL (NL), Africa e Mediterraneo, Afrosartorialism, Nation25. Partner culturali: Africa e Mediterraneo – Afrosartorialism – B&W-Black&White, The Migrant Trend APS – Istituto Italiano di Cultura di Addis Abeba (Etiopia) – Museo delle Civiltà – Thami Mnyele Foundation (Amsterdam, Olanda) – Georgetown University (Washington DC) – Moleskine Fondazione – Nation25 – Orientale di Napoli – Università IUAV di Venezia – Politecnico di Milano.

Info: https://framerframed.nl/en/projecten/roundtable-decolonizing-the-gaze-textile-cultural-heritage-vs-colonialism-cultural-appropriations/

IAMISIGO’s AW20 collection, Creative Direction: Babu Ogisi, Photography: Maganga Mwagogo

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03 luglio 2023

Identità africane a confronto: il Canto di Lawino e il Canto di Ocol al Teatro No’hma di Milano

di Francesca Romana Paci

Il 10 e 11 maggio 2023 a Milano è andato in scena al Teatro No’hma – Spazio Teatro Teresa Pomodoro – lo spettacolo Land of Poetry, una produzione dello Twangale Cultural Centre della città di Ndola in Zambia. La regia, il copione, la selezione di brani musicali che accompagnano la pièce sono di Martin Ilunga Chishimba, nato nel 1988, attore, cantautore, scenografo, coreografo, studioso e fondatore dello stesso Twangale Cultural Centre. Chishimba è conosciuto in ambienti italiani per aver studiato alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano. Livia Pomodoro, presidente e direttrice operativa del No’hma, che lo aveva già ospitato nel 2019 con la pièce Broods of Any, dedicata alla grande piaga dei bambini strada, lo ha nuovamente invitato per la stagione 2022-2023.

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La pièce Land of Poetry ha due ipotesti: Song of Lawino e Song of Ocol, due poemetti narrativi, collegati fra loro, dello scrittore ugandese Okot p’Bitek (1931-1982), romanziere, poeta, musicista, studioso, accademico, e, non meno significativamente, atleta, danzatore, suonatore di tamburo e cantore narrativo tradizionale. I poemetti sono stati originariamente scritti in lingua acholi – una lingua Iwo dell’Uganda, per alcuni un dialetto – e poi tradotti in inglese dal loro stesso autore e pubblicati, in inglese, in Kenya, Song of Lawino nel 1966 e Song of Ocol nel 1970, dalla East Africa Publishing House di Nairobi. Ora se ne trovano edizioni congiunte con il titolo Song of Lawino & Song of Ocol. Si ricordano l’edizione di Heinemann del 1986, e quella del East African Educational Publisher del 2013, in Kenya. Entrambe le Song sono state pubblicate anche in acholi.

Okot p’Bitek, nato nel 1931, vive in pieno le prime indipendenze africane e i decenni posteriori, con le difficoltà, gli entusiasmi, le contraddizioni legate alla grande Africa, e, in realtà, già allora, inerenti a una pre-globalizzazione del mondo – non solo economica, anche se condizionata da rapporti economici, ma anche pesantemente culturale, innescata dal Colonialismo stesso e accresciuta dalle due Guerre Mondiali. Okot p’Bitek nasce a Gulu in Uganda, figlio di un padre insegnante scolastico e di una madre nota come storyteller, danzatrice e cantante tradizionale. Completa le scuole superiori in Uganda, facendosi già notare per l’ampia gamma della sua creatività artistica, e poi persegue studi universitari in UK, nelle università di Bristol, Aberystwyth-Wales, e Oxford. Nelle sue opere si legge quanto i suoi incontri con la cultura europea siano stati profondi e nello stesso tempo critici, soprattutto per tutto quello che riguarda il punto di osservazione degli studiosi occidentali dell’Africa, ma anche, in posizione speculare, il punto di vista dei personaggi creati dagli scrittori africani stessi.

Song of Lawino e Song of Ocol sono poemetti relativamente lunghi, raccontati ciascuno integralmente in prima persona; da una giovane donna, Lawino, il primo, da un giovane uomo, Ocol, il secondo. Di fatto sono due monologhi drammatici con qualità intensamente teatrali. Lawino e Ocol sono moglie e marito in un contesto dove la poligamia è consueta. Lawino è una prima moglie. Ocol ha da poco preso una seconda moglie, Clementine, ma è bene dire subito che Lawino non lamenta la presenza di un’altra donna nella vita di suo marito, quanto il confronto con l’altra, colta e occidentalizzata – «Clementine […] aspires / To look like a white woman»; un confronto che Ocol le fa pesare e le fa vivere come sfavorevole a lei stessa. Lawino non accetta senza reagire quello che considera una ingiustizia culturale prima ancora che amorosa e da voce al suo lamento. Le vicende sono ambientate in un luogo preciso dell’Uganda e in un tempo dato, ovvero negli anni di poco posteriori alle prime indipendenze di paesi africani. Lawino accusa: «He [Ocol] abuses me in English / And he is so arrogant […] My husband abuses me together / With my parents / He says terrible things about my mother /And I am ashamed. […] He says we are all Kaffirs / We do not know the ways of God / We sit in deep darkness / […] He says Black People are Primitive […]».

Okot p’Bitek crea con Lawino un modello femminile intensamente locale e immerso in una situazione di rifiuto di ogni cultura esterna. Con Ocol, di contro e simmetricamente, crea un giovane uomo affascinato dalle culture esterne. Entrambi i personaggi sono strumentali alla ricca, stratificata, contrastiva poetica culturale di Okot p’Bitek (contrastiva non contraddittoria), e, come tali, presentano aspetti finzionalmente caricati a scopo di ricerca.

Song of Lawino è composto di tredici sezioni, che sono un vero e proprio catalogo di elementi culturali del paese africano dove è nata – a suo modo Lawino è una accurata antropologa. Song of Ocol è più breve, ma è similmente un catalogo, nel quale Ocol risponde a Lawino, sezione per sezione. Ocol evoca Senghor, Marx, Mozart, la dea Athena con diretto ardore giovanile. Ma non ci si deve far ingannare: non c’è nulla di facile e nulla di ingenuo nei poemetti, anzi, c’è una stratificazione di livelli che richiede molta attenzione.

Okot p’Bitek, che ha una grande cultura sia africana sia occidentale, ha scelto, come studioso di focalizzare l’attenzione sul corrosivo, spesso ultra-enfatizzato problema coloniale e post-coloniale delle identità culturali, della loro permanenza, dei loro confini, della loro stessa legittimità. Un fenomeno in realtà generato da qualunque forma di colonialismo e pseudo-colonialismo sulla terra, intendendo con “colonialismo” l’incontro e il conseguente rapporto chiuso e/o aperto, univoco e/o biunivoco con l’altro, gli altri – problemi mai risolti e tuttora ben vivi nel mondo contemporaneo. In realtà una situazione che si presenta sempre in varia misura nei rapporti “noi” e gli “altri”. La risposta di Ocol alle argomentazioni di Lawino non chiude la questione, anzi la complica, e forse indebolisce gli obiettivi di Okot p’Bitek. Une lettura completa dei due testi si può ascoltare in rete all’indirizzo https://youtu.be/p0JidvB33vM.

Martin Chishimba, creando la sua versione teatrale dei poemetti ha fatto una scelta intelligente, ma certamente non facile. Racconta di aver incontrato Song of Lawino & Song of Ocol nella edizione Heinemann del 1986, mentre frequentava la High School nella città di Ndola nella provincia del Copperbelt in Zambia. Quando nel 2016 fonda il Twangale Cultural Centre, cercando testi che rappresentino storicamente aspetti della cultura africana, si ricorda di Okot p’Bitek, e scrive un arrangiamento teatrale delle due Song – scrive in inglese, che è la lingua ufficiale dello Zambia. È interessante notare che “twangale” in lingua bemba (una delle lingue dello Zambia) vuol dire “let us play”, e che in inglese il verbo “play” copre i significati di “giocare”, “suonare” e “recitare”. Data la lunghezza delle due composizioni, Chishimba spiega di aver limitato la sua versione ad alcune delle sezioni e nello stesso tempo di aver introdotto alcune aggiunte. Prendendo l’avvio dalla scenografia implicita del lamento di Lawino, che nel poemetto evidentemente si rivolge a un pubblico per averne un aiuto, Chishimba crea una sua propria struttura teatrale: Lawino nella versione Twangale parla davanti agli anziani del suo popolo in una assemblea della comunità riunita per ascoltare le sue ragioni e quelle del marito. Nel cast, quindi, oltre Lawino e Ocol, entra il popolo, rappresentato dai quattro musicisti, che suonano, recitano e agiscono in coreografie organizzate insieme agli altri attori; entra un Wiseman, che rappresenta gli anziani; entra la madre di Lawino, che appoggia la figlia, e rappresenta il valore permanente della tradizione; non entra, invece la seconda moglie occidentalizzata di Ocol, Clementine, la cui caratterizzazione è affidata totalmente alle parole di Lawino.

Attori e attrici sono tutti molto bravi sia nella recitazione e movimenti scenici sia nelle loro competenze musicali specifiche. I quattro musicisti sono: Charles Kabwita, percussioni; Derick Chileshe, tastiera; Kombe Mutale, basso; Ng’andu Mweetwa, chitarra. Lawino è Karen Mbolela; la madre è Chanda Henriettah Pule; Ocol è Martin Chishimba stesso; il Wiseman, il “Saggio”, è Amos Chipasha, compositore, cantante, molto seguito in Zambia come T-Low (Terror-League of war; scollegato al rapper tedesco omonimo), interprete hip-hop, rapper, e infine attore. Il personaggio del Wiseman è fondamentale perché assomma in sé funzioni importanti. Ascolta, non giudica, non condanna, quasi come può fare uno psicanalista; sembra avere grande conoscenza sovra-locale e insieme un completo rispetto per il locale; ama la conoscenza; è un negoziatore di pace, suggerisce la riconciliazione, valuta la vita in sé, donde il suo ripetuto refrain «life is good». Lo spettatore può persino congetturare che il Wiseman sia anche una rappresentazione di Okot p’Bitek.

Martin Chishimba dichiara apertamente di aver dato maggiore attenzione alla storia di Lawino e Ocol che alla forma metrica dei monologhi, ma di essere stato colpito dal ritmo della lingua delle Song, che gli è sembrato affine al bit del rap. Il Wiseman e la musica sono le innovazioni più evidenti rispetto ai monologhi di Okot p’Bitek, anche se, letti con attenzione a suono e ritmo, i testi in inglese di Okot p’Bitek si prestano effettivamente molto bene a interpretazioni rap – si deve ricordare che sono stati scritti negli anni Sessanta, prima, sia pure di poco, dell’esplosione del rap. La colonna sonora del play di Martin Chishimba è costituita da canzoni contemporanee, ispirate alla musica tradizionale dello Zambia, intrecciate a influenze jazz, ska, reggae, rock, e non solo.

Le canzoni sono composte da Amos Chipasha e da Martin Chishimba stesso. A un certo punto irrompe un breve brano della Eine kleine Nachtmusik, eseguito alla tastiera da Derich Chileshe. La citazione è dovuta perché la Serenata K525 di Mozart compare anche in Song of Ocol. Per inciso: Okot p’Bitek ha una grande conoscenza della musica classica occidentale, e in particolare di Mozart, dal cui Flauto magico, che ha studiato, ha tratto ispirazione per alcune sue creazioni.

La musica non solo accompagna, ma sembra provocare i movimenti coreografici degli attori. Un aspetto interessante è l’abbigliamento: i due personaggi femminili, Lawino e sue madre, indossano il tradizionale chitenge, un grande colorato rettangolo di cotone che avvolge la figura, analogo a molti altri  femminili africani; Ocol e i suonatori/popolo portano abiti non connotati, universalmente contemporanei e informali; il Wiseman, interpretato da un alto e smilzo Amos Chipasha, è vestito di bianco, con un insieme di pantaloni, bretelle, camicia e cravatta che ricorda un neo-dandy degli anni Trenta in UK e in US, e che trasmette qualcosa di permanente fuori del tempo – in una iconografia cinematografica statunitense piuttosto nota, potrebbe rappresentare un angelo; e potrebbe anche far pensare a un surreale intervento di p’Bitek. Land of Poetry si può vedere integralmente in rete al link https://www.youtube.com/watch?v=_mtBdg6LEl8.

In Okot p’Bitek e in Martin Chishimba sono le donne, fatte salve le gradazioni ironiche dei due autori, a dare corpo alla tradizione, mentre gli uomini sono favorevoli alla innovazione – il Wiseman suggerisce equilibrio. Impossibile non ricordare, però, che in scrittrici come Mariama Bâ, Ama Ata Aidoo, Tsitsi Dangarembga, Yvonne Vera sono le donne ad aspirare alla innovazione e gli uomini a resistere al cambiamento.

Nel retroterra di Okot p’Bitek, e di conseguenza in quello di Martin Chishimba, ci sono testi importanti per lo studio dei rapporti dell’Africa con l’Occidente. Non potendo ricordarli tutti, ci si limita a qualcuno che sembra significativo. Uno dei più precoci è il romanzo Mister Johnson (1939) dell’irlandese Joyce Cary, dove un giovane nigeriano è letteralmente innamorato della cultura inglese, che cerca di imitare il più possibile; il romanzo scava e mostra aspetti razzisti sia consci sia inconsci, e la storia finisce tragicamente. Dopo la Prima Guerra Mondiale arriva l’intensità di Frantz Fanon, con Peau noir, masques blancs (1952), opera che nessuno scrittore africano potrà mai permettersi di ignorare e/o dimenticare – certamente non la ignora Okot p’Bitek. Ci si concede di menzionare anche Nini, mulâtresse du Senegal (1954) di Abdoulaye Sadji, un romanzo discusso dallo stesso Fanon in Peau noir, masques blancs con attenzione antropologica, sociale, e, data la sua professione, psichiatrica.

Non meno importante l’influenza di Chinua Achebe, vero capostipite della narrativa africana. A partire da Things Fall Apart (1958-1959), Achebe affronta ripetutamente il problema dell’incontro, scontro, e confronto tra le culture africane e le culture occidentali, tanto da costituire un modello inevitabile e permanente nel tempo. Lo ha subito anche l’ivoriano Ahmadou Kourouma, sia nei romanzi sia nei suoi straordinari testi per bambini, dove descrive e spiega l’organizzazione sociale – cacciatori, griot, fabbri, e altro – di una comunità africana nel suo paese e in stati limitrofi. 

Pur con tutte le aggiunte e complementi teatrali, nel remake di Martin Chishimba, come era in Okot p’Bitek, il centro focale è il confronto tra culture e la ricerca di come rispettarle entrambe in una realtà inevitabilmente plurale e contraddittoria da quando il Colonialismo le ha irreversibilmente sommate e per molti aspetti fuse. 

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