10 maggio 2018

Dak’Art – Biennal of Contemporary African Art

Aimé Césaire scrive nell’edizione de “L’étudiant noir” del maggio 1935 che la parola Négritude «[…] designa in primo luogo un rifiuto. Il rifiuto di una certa immagine dell’uomo nero passivo ed incapace di creare una civiltà». Sulla scia di questa poetica della negritudine, di cui Léopold Sédar Senghor e Aimé Césaire sono i padri fondatori, ha preso avvio l’edizione del 2018 della Dak’Art – Biennal of Contemporary African Art dal 3 maggio al 2 giugno a Dakar.
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(Malaïka Dotou Sankofa, Laeïla Adjovi / Loïe Hoquet)

Il tema proposto quest’anno «L’heure rouge» è tratto, inoltre, dall’opera “Et les chiens se taisaient” (1956) di Césaire: l’ora rossa rappresenterebbe il momento della trasformazione e dell’emancipazione delle comunità africane dopo il passato coloniale. L’inaugurazione della Biennale è accompagnata da un importante mini-festival, organizzato in tre giorni, e intitolato Afropunk Fest The Takeover Dakar, che celebra attraverso la musica, la diversità creativa e culturale della capitale senegalese.
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(Anorher Day Without You SeriesFranck Fanny)

Durante la cerimonia di apertura della 13a Biennale sono stati assegnati i premi agli artisti della mostra Une Nouvelle Humanité, curata dal direttore artistico Simon Njami: tra i 75 artisti provenienti per la maggior parte dal continente africano, il gran premio Léopold Sédar Senghor è stato assegnato alla fotografa e artista del Benin Laeïla Adjovi con la serie fotografica Malaïka Dotou Sankofa, che indaga il modo con il quale l’Africa è descritta dai media occidentali.
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(Elders of TenTejuoso Olanrewaj)

Altri premi assegnati, l’UEMOA al fotografo ivoriano Franck Fanny, le cui immagini catturano il realismo crudo di alcune situazioni sociali, mentre il premio alla Diversità dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia è attribuito alla marocchina Souad Lahlou per l’organizzazione di una residenza artistica formativa e originale. Infine, il Ministero della Cultura senegalese ha assegnato il Premio Rivelazione all’artista nigeriano Tejuoso Olanrewaj, che affronta le questioni relative ai cambiamenti climatici e al degrado ambientale.
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(Lettre aux Absents, Rina Ralay-Ranaivo)

In questa mostra internazionale la questione del tempo, e quindi dell’heure rouge, diventa cruciale, come dimostrano le diverse installazioni e i video presenti: ad esempio, l’idea del tempo che scorre è presente nell’installazione Temps perdu II della cubana Glenda Leon, dove una clessidra è posta sopra una duna di sabbia; oppure le fotografie del senegalese Kan-Si riportano un piede su un pavimento di terra che svanisce, e rimangono solo impronte o tracce; un’altra installazione-video Lettre aux Absents della malgascia Rina Ralay-Ranaivo offre un paesaggio sospeso tra assenza e bellezza.
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(Photographies, Kan-Si)

Sono testimonianze artistiche che portano a interrogarsi, e che gettano uno sguardo alla storia passata per capire meglio il presente e immaginare un futuro. Se oggi la negritudine non è più condivisa da molti intellettuali e artisti africani, tuttavia il suo ruolo storico è incontestabile per comprendere la ricomposizione della vita culturale delle comunità africane, che continuano ancora oggi a stimolare un nuovo modo di raccontare la storia del continente.

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04 maggio 2018

“Mai avremmo pensato che un pezzo di carta può essere tanto violento”: storie di richiedenti asilo al Festival della letteratura di Budrio

Noi visti da loro, in un racconto che mette in luce i tanti preconcetti e gli episodi di ordinario razzismo, spesso inconsapevole, a cui devono assistere, ma anche la gratitudine per chi li ha accolti e li aiuta a integrarsi e a rendersi autonomi. Di questo hanno scritto cinque richiedenti asilo, ospiti del Centro di accoglienza straordinaria della frazione di Mezzolara, gestito dalla cooperativa sociale Lai-momo. Il pensiero senza censure di chi ha scelto l’Italia “perché è un paese dove c’è la libertà di stampa e d’espressione”. I testi sono stati letti davanti al pubblico, in occasione dell’appuntamento dedicato alle “Storie d’Africa”, all’interno del Festival della Letteratura di Budrio.

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Le storie di questi ragazzi – partiti dal Senegal, dal Mali, dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea, dal Togo, dal Niger, dal Camerun – hanno in comune “la ricerca di protezione, di una vita tranquilla e di migliori condizioni di salute”, dopo il viaggio che li ha visti attraverso prima il deserto, poi una Libia in guerra e infine la traversata in mare. Un percorso affrontato “con coraggio, pazienza, paura”, che altre persone possono fare in aereo in poche ore con un semplice visto. “Mai avremmo pensato che un pezzo di carta può essere tanto violento, decidere tra la vita e la morte delle persone”, si legge nei loro testi.

Adesso la loro ricerca di una nuova vita riparte da Mezzolara di Budrio, dalla grande casa rossa in cui abitano con la bandiera della pace sul cancello. Con uno sguardo privo di pregiudizi, giudicano più alto il rispetto che gli italiani hanno verso le persone perché “qui le macchine si fermano per lasciar passare le biciclette, mentre nei nostri Paesi raramente si dà la precedenza a un ciclista, che spesso rischia la vita”. E anche il rispetto della natura, “perché l’ambiente è pulito, non si possono buttare cose per terra, le case sono curate come anche i giardini e le strade”, e degli animali “che vengono a volte curati quasi come delle persone”.

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Il loro sguardo ci riporta anche che “qui le donne sono molto belle e curate, gli anziani attivi e sempre impegnati”. Molti degli ospiti lavorano in aziende agricole e conoscono tanti contadini di una certa età che ancora lavorano la terra con passione. La gente di Mezzolara – continuano a raccontare – è gentile e cordiale, “ci saluta quando ci incontra”. Il riconoscersi per strada li fa sentire sicuri reciprocamente.

Hanno conosciuto tante persone speciali dicono: “abbiamo lasciato le nostre mamme ma qui ne abbiamo trovata un’altra. Noi la chiamiamo Mamma Africa, anche se in realtà si chiama Mirella. […] Lei e gli altri operatori ci hanno insegnato tante cose, come fare la spesa e cercare le offerte più convenienti”. Ma hanno anche insegnato a tenere in mano una matita ai ragazzi che nel loro Paese non erano mai andati a scuola.

Un altro punto di riferimento nella comunità è il meccanico delle biciclette che, con pazienza, ha insegnato ai ragazzi a riparare il mezzo di locomozione che è stato loro regalato da qualche cittadino. Le competenze poi vengono messe in comune perché “quello che ci ha insegnato il meccanico Valerio lo utilizziamo anche per aiutare i ragazzi di un altro centro di accoglienza, a Miravalle”.

La dimensione del paese aiuta l’integrazione, mentre la città spersonalizza e rende diffidenti: “A Bologna spesso le persone ci guardano male e sul treno non vengono a sedersi nei posti liberi vicino a noi”. Gli anziani, dicono, sono più cordiali dei giovani, ma l’ignoranza porta a gesti sgarbati e offensivi: “Ci è capitato che, durante la Messa, quando è il momento di scambiarsi un segno di pace le persone siano imbarazzate a darci la mano e ci guardino con diffidenza”. Alcuni ospiti sono impegnati nel servizio civile in una casa di riposo ed è successo che alcuni degli anziani pazienti in carrozzina non volessero essere spinti da uno di loro perché nero. Questi episodi li mortificano ma sanno anche prenderli con ironia: uno di loro racconta di avere trovato un telefono a terra fatto squillare dalla persona che lo aveva perduto, di averlo riconsegnato alla legittima proprietaria e di essersi sentito dire: “Grazie, sei molto bravo anche se sei nero”.

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Ciò che li preoccupa di più è la mancanza di certezze sui propri documenti, sulla possibilità di rimanere in Italia: “Da un lato ci stiamo sempre più integrando e dall’altro non sappiamo se potremo restare. Per questo cerchiamo di tenerci impegnati, di pregare, di essere positivi”. Ma la paura è tanta.

Nel quotidiano, vorrebbero che i trasporti da Bologna per Budrio e viceversa non terminassero troppo presto la sera e nei giorni festivi. L’aspirazione di tutti è quella di trovare una collocazione nel mondo del lavoro per condurre una vita propria in una dimensione autonoma, una volta usciti dal progetto di accoglienza.

La narrazione degli ospiti di Mezzolara si chiude con un appello: “Vogliamo dire che siamo venuti in pace, non vogliamo fare male a nessuno; vogliamo solo lavorare, vogliamo stare bene, in una parola vivere”. Il pubblico di Budrio li saluta con un applauso e con la richiesta di una stretta di mano. Forse non sarà alta letteratura la loro, ma certamente con le loro parole hanno aiutato i cittadini a conoscerli meglio e superato alcune barriere.

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