23 agosto 2024

Samwel Japhet, dall’infanzia nelle strade della Tanzania alla danza

«A 6-7 anni ho lasciato la mia casa e ho vissuto come bambino di strada in Tanzania per 10 anni. Dico ‘in Tanzania’ perché non sono stato in un solo luogo, ho girato in varie città

Samwel Japhet è un giovane performer tanzano che sta velocemente costruendo una carriera a livello nazionale e internazionale, ma ha iniziato da una condizione estremamente svantaggiata. Un’infanzia e un’adolescenza durissime e pericolose, che lui ha saputo trasformare nell’esperienza fondamentale per il nutrimento della sua ispirazione. L’ho incontrato a Dar es Salaam.

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Samwel Japhet, 2024

S.F. Perché hai lasciato la tua famiglia?
S.J. Sono fuggito perché venivo picchiato molto. E così sono finito in strada, a vivere con altri bambini, era pericoloso e difficile ma mi sentivo comunque meglio lì che nella situazione di abuso che c’era a casa. Dopo essermi spostato in vari luoghi, nel 2009 sono arrivato a Dar es Salaam e nel 2010 ho incontrato Makini, un’organizzazione non profit che aiutava i bambini di strada: ci raccoglievano, ci facevano giocare, nuotare e ci offrivano anche una terapia per superare i traumi della vita in strada. Dopo un po’ hanno cominciato a portarci in vari spazi pubblici, tra cui centri culturali e artistici, così ci hanno introdotto all’arte, di cui noi non sapevamo niente. Hanno organizzato formazioni nell’arte performativa: workshop di teatro, musica, danza, e abbiamo fatto performances comunitarie.

 S.F. In quel periodo dove vivevi?
S.J. Sempre in strada. Loro ci insegnavano a vivere insieme e ad aiutarci a vicenda mentre vivevamo nelle strade. Makini era uno spazio per riflettere e metterci in una relazione migliore tra noi. Era una vita folle, quella in strada, ma è stata anche l’inizio della mia carriera artistica e continua a influenzare anche oggi il mio lavoro. Quel periodo ha formato le mie aspirazioni e prospettive, ho imparato che la vita, anche se fragile, è un viaggio in costante evoluzione in cui abbiamo il potere di formare nuove realità nonostante le difficoltà che affrontiamo, personalmente e nella società. E io ho deciso di farlo attraverso l’arte.

Nel 2013 ho fatto un’audizione per entrare nel programma triennale della MUDA Africa Dance School in Tanzania e sono stato ammesso. Sono stato formato professionalmente dal 2014 al 2016 e mi sono diplomato. In questo periodo ho avuto il privilegio di collaborare con artisti internazionali, tra cui Nora Chipaumire, una coreografa e performer nata in Zimbabwe e basata a Brooklyn, che ha sfidato gli stereotipi dell’Africa, del corpo nero danzante, e mi ha introdotto a un nuovo modo di pensare, a scoprire la mia voce artistica personale, a definire un mio primo manifesto artistico. È stato un momento fondamentale, che mi ha indicato una prospettiva e acceso una grande ambizione dentro di me a perseguire una carriera come danzatore e coreografo. E mentre entravo più profondamente nel mondo della danza, diventavo più curioso su quanto si poteva fare con la danza e le varie forme artistiche, allargando i miei interessi.
Intanto, nel 2015, con Tadhi Alawi ho co-fondato una compagnia di danza, Nantea, che ora è la mia compagnia.

S.F. Qual è la vostra attività come gruppo?
S.J. Facciamo progetti comunitari, collaborazioni interculturali, produzioni, tournée. Abbiamo prodotto lo spettacolo “YIN-YANG“, che stiamo portando in tour fuori dalla Tanzania.
Usiamo la danza come un’espressione artistica per raccontare storie, riflettere su temi sociali e sull’esperienza umana, sul nostro tempo e sulla politica. I temi che esploriamo sono gli squilibri sociali, la dignità, il conflitto, memoria e uguaglianza, creando spazi in cui il pubblico può riflettere e immaginare futuri alternativi. Vogliamo sviluppare la scena della danza tanzaniana e ispirare i giovani a diventare ambasciatori di crescita e cambiamento sociale, realizzare un lavoro di alta qualità e costruire una cultura in cui l’arte abbia un valore proprio.

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Samwel Japhet (secondo da destra) con altri bambini di strada

S.F. Quanti anni hai?
S.J. Non lo so! (sorride) Penso di avere 25-26-27 anni.

S.F. Hai ripreso i contatti con la tua famiglia? Sanno del tuo percorso?
S.J. Non vedo ragioni per ricreare una relazione. Loro non hanno nessuna idea della mia vita di adesso. Quando stavo in strada, cambiavo sempre nome per non essere ritrovato, anche se non credo che mi cercassero. Comunque non avevo documenti, e mi sono creato un nome e un cognome scelti da me. Poi ho avuto i documenti.

S.F. Hai fratelli, sorelle?
S.J. Ricordo che avevo una sorella, ma lei stava spesso via con mia madre. Mia madre era spesso in viaggio, credo per lavoro, e se la portava con sé. Comunque ricordo bene di non avere avuto una stretta relazione con mia madre.

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Samwel Japhet con altri bambini di strada

S.F. Riesci a vivere autonomamente?

S.J. Sì, vivo con l’arte, la danza, l’organizzazione di performance. Con la compagnia Nantea, io e Tadhi facciamo progetti, ed è il nostro lavoro. Siamo stati in vari festival e teatri nei Paesi Bassi, Corea del Sud, Israele, Sudafrica, Germania, Mozambico, Portogallo, Etiopia. Ad esempio nel 2022 abbiamo voluto invitare artisti da altri paesi africani e dall’Europa per lavorare insieme, e abbiamo fatto un progetto finanziato dall’Unione europea, per due anni. Si intitolava UMOJA Residency e abbiamo riunito nove artisti e artiste di varie discipline da Francia, Kenya, Lettonia, Repubblica Democratica del Congo, Estonia, Spagna e Tanzania per una residenza di cinque settimane a Dar es Salaam. Io ero co-manager del progetto.

S.F. È stato complicato con la burocrazia europea?
S.J. Un po’ difficile, sì, soprattutto perché non ho una educazione.

S.F. Sei andato a scuola? Come hai fatto a imparare a leggere e a scrivere? E l’inglese?
S.J. Quando ho lasciato la mia casa avevo già un’idea di come scrivere in swahili, ho ricordi di essere andato a scuola. Partendo da questa base, e stando in strada, leggevo qua e là e insomma in qualche modo ho imparato. Così per l’inglese. Anzi, mi piace scrivere, preferisco scrivere che parlare.

S.F. Parlami del lavoro con la tua compagnia di danza.
S.J. Con Nantea abbiamo iniziato a fare spettacoli nel 2016, la prima performance è stata in Rwanda. Organizziamo una serata biennale di danza contemporanea, con spettacoli di danza tanzaniani e dell’Africa orientale. La compagnia gestisce anche “Nje Ndani”, un progetto di sensibilizzazione attraverso la danza strutturato per accrescere conoscenze e competenze di danzatori emergenti tanzani attraverso workshops, seminari, e dialoghi aperti sull’espressione artistica e l’impresa creativa. Ora l’abbiamo estesa invitando produttori da Uganda, Congo, Zimbabwe, e poi dalla Germania.

S.F. Hai detto che attraverso la danza vuoi narrare storie. Come lo fai?
S.J. La nostra danza non è solo espressione artistica, ma anche riflessione su questioni sociali, sull’esperienza umana e lo facciamo usando testo, musica, movimento, linguaggio verbale, costumi… Combiniamo tutte queste cose, e così narriamo la storia. Di solito collaboriamo con altre persone, con designer dei costumi e musicisti che registrano musiche apposta per gli spettacoli.
Normalmente dopo ogni performance dialogo con il pubblico, non con domande e risposte, ma in una sessione di riflessione, per far loro esprimere come hanno vissuto la performance, come si sono sentiti.

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Nantea Dance Company, 2021, ph Jimmy Mathias

S.F. Avete avuto problemi con la censura?
S.J. Sì, perché in Tanzania non è permesso stare sul palcoscenico con il corpo praticamente nudo. Ci hanno detto che andavamo contro la cultura tanzaniana. Bisogna essere molto attenti.

S.F. Dovete praticare un’auto-censura.
S.J. Sì, è proprio così, ci auto censuriamo!

S.F. Quindi come artista devi affrontare molte sfide?
S.J. Sì, certo, la precarietà del mondo dell’arte, le limitazioni alla libertà di espressione, i sistemi discriminatori, il problema dei visti e l’instabilità finanziaria hanno avuto un impatto sul mio percorso. In Tanzania, ad esempio, impegnarsi in attività artistiche richiede la registrazione presso il National Arts Council (BASATA), che comporta quote iniziali e annuali, oltre ai costi per i viaggi internazionali correlati all’arte. Questo ostacolo burocratico aggiunge complessità al già difficile processo di espressione artistica in Tanzania. Quando noi artisti usciamo dalla Tanzania dobbiamo avere un permesso di viaggio che costa 15 euro. Può sembrare niente, ma so di molti che non hanno potuto viaggiare perché non avevano il denaro. E poi, perché questa tassa solo per gli artisti? E a volte ci sono stati gruppi che hanno perso il lavoro per questioni burocratiche.

S.F. E ovviamente la mancanza di libertà espressiva.
S.J. Sì, ma noi crediamo comunque di poter fare attivismo attraverso l’arte: denunciare, fare riflettere su problemi come le limitazioni nella società, o il razzismo. Ad esempio, il mio collega Tadhi ha avuto l’esperienza a Zanzibar di essere fermato al suo arrivo dalla polizia, perché era con la moglie tedesca, bianca. La nostra performance “YIN-YANG” parla anche di questo, è nata dalla sua esperienza personale di aver subito razzismo interno (cioè discriminazione tra persone che condividono la stessa cultura), di cui nessuno parla. A lui è successo tante volte a Zanzibar, un luogo rinomato per la sua bellezza ma dove lui non si è mai sentito a casa perché, ogni volta che ha visitato l’isola con amici bianchi, ha sempre assistito a privilegi razziali. È stato fermato tante volte dalla polizia e interrogato su perché “andava in giro con persone bianche senza permesso”, mentre la polizia non ha mai chiesto ai suoi amici bianchi perché andavano in giro con lui. Questa esperienza mostra che il doppio standard basato sulla razza è ancora profondamente radicato nelle strutture della società, anche tra persone che condividono lo stesso background. Questo fastidioso doppio standard ha fatto riflettere Tadhi sul suo senso di appartenenza e sulla libertà nel suo stesso paese e ha cominciato a discuterne, e sono uscite diverse testimonianze di persone che avevano avuto la stessa esperienza. Queste conversazioni e questa esperienza sono state le basi per la creazione della performance “YIN-YANG”.

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Nantea Dance Company, 2021, ph Jimmy Mathias

S.F. Un argomento di chi è favorevole alla censura è che serve a proteggere la cultura originaria del paese da influenze che vengono dall’esterno.
S.J. Io penso che anche prima che le persone facessero campagne per i diritti esistevano in Tanzania determinati orientamenti. Però bisogna seguire delle regole: il National Council ha prodotto un vademecum con una check list sulle cose da controllare prima di proporre un’opera. Io comunque voglio continuare a raccontare storie: sono consapevole di avere avuto una grande fortuna, mentre ci sono tante persone come me che non possono raccontare le loro storie.

Samwel Japhet ha vinto nel 2021 il Seed Award del Prince Claus Fund for Culture and Development in Olanda. Ha ottenuto una borsa di studio per essere formato, nel 2024-2026, nel Laboratory for Global Performance and Politics della Georgetown University, Washington D.C. Comincerà in settembre le lezioni online e in giugno 2025 sarà in Umbria per la prima sessione in presenza presso laMaMa Umbria International.

Mentre mi racconta di come ha vissuto da bambino, di come ha imparato l’inglese in strada, di come si è costruito una carriera artistica, mi colpisce la sua pacatezza, la concretezza e persino auto-ironia del suo discorso e, devo dirlo, un’impressione di totale equilibrio psicologico. Non dà l’idea di essere una persona che nasconde una sofferenza interiore, ma piuttosto di essere molto capace e attivo nel perseguire il suo lavoro culturale e nel tessere relazioni. Poche ore dopo il nostro incontro mi aveva già mandato una e-mail con il curriculum, un suo statement e alcune foto. Insomma, è sicuramente un giovane artista con risorse umane e caratteriali fuori dal comune, che ha saputo permettere alle relazioni, alle occasioni fortunate e all’arte di curare i suoi traumi.

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05 agosto 2024

Industrie creative in Tanzania: Intervista ad Ayeta Wangusa, e al gruppo di lavoro del Center for the Development of Eastern Africa (CDEA)

di Sandra Federici

In un quartiere periferico di Dar es Salaam ha sede il CDEA, organizzazione dedicata allo sviluppo di attività culturali in Tanzania. È uno spazio di co-working denominato Eco Sanaa Terrace, costituito da piccole strutture adibiti a uffici, sale riunioni e laboratori e una grande tettoia centrale in legno arredata con tavoli. Qui ci sono diversi ragazzi e ragazze, soli o in piccoli gruppi che stanno lavorando. La direttrice Ayeta Anne Wangusa ha organizzato in occasione della mia visita un incontro con lo staff direttivo: Ismael Mutanda, manager amministrativo, Angela Kilusungo, responsabile del settore creative economy, Sarah Balozi, responsabile dei progetti artistici, Magreth Bavumo, comunicatrice, e Johnny Mudolo responsabile della logistica. Prima di iniziare, mi propone di fare una foto con Aichi Masauri, appena nominata “Midundo Radio Face of the People” con un concorso su Instagram. Aichi è laureata in economia e statistica.

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S.F.: Come nasce il Center for the Development of Eastern Africa?
Ayeta Wangusa: Siamo nati come think tank creativo e poi nel 2012 abbiamo istituito formalmente una ONG, per cercare di mobilitare la società civile nel dialogare e fare pressione sulla politica affinché la cultura sia posta al centro dello sviluppo umano. Nella nostra visione, la cultura può servire a risolvere molti problemi nella regione dell’Africa orientale, per questo facciamo ricerca e advocacy sulle politiche. Alla base di questo noi poniamo la documentazione della cultura tanzaniana, affinché ci sia un legame tra passato e il presente. Per noi è molto importante documentare il passato, per dare consapevolezza di quale è la nostra origine culturale, la nostra storia, e collegarlo al presente, alle nuove tecnologie e forme espressive che oggi abbiamo a disposizione.

S.F.: Quali sono le vostre attività principali?
Ayeta Wangusa: Abbiamo quattro principali settori di intervento:
Innanzitutto, il Culture and Governance Programme, sviluppato tramite diverse ricerche sull’economia creativa e la governance della cultura [i rapporti di diverse ricerche sono disponibili in accesso libero sul sito https://www.cdea.or.tz, ndr]. In secondo luogo c’è tutta l’attività volta a favorire l’espressione culturale da parte dei giovani: incontri, laboratori di scrittura, presentazioni. Importante il “film critic lab”: proiettiamo film e poi li analizziamo, ne discutiamo, perché manca spesso nei film tanzaniani una profondità dei temi presentati.
Abbiamo poi una Web radio [Midundo] per musicisti emergenti, dove cerchiamo di promuovere i/le “conscious artists”, coloro che esprimono contenuti di riflessione, di cambiamento. Abbiamo anche organizzato nel 2016 e nel 2017 l’East African Vibes Concert, invitando artisti di altri paesi.
Infine, dal 2022 abbiamo avviato la Creative Economy Incubator & Accelerator Initiative, una piattaforma per promuovere artisti, artigiani e imprenditori creativi, selezionati tramite bando, e offrire loro un processo di “accelerazione”, affinché implementino la loro idea di business grazie a una formazione tecnica. I settori sono design di moda e accessori, industria del cinema e della musica.

S.F.: Immagino non sia facile rendere sostenibili questo tipo di attività.
Angela Kilusungo: Io sono responsabile dell’incubatore, e in effetti il lavoro difficile è l’accesso al mercato di queste produzioni. Innanzitutto, i formatori sono degli imprenditori già affermati, ad esempio stilisti del settore moda. Prima però facciamo una valutazione dei bisogni, per dare concretezza alla formazione. Abbiamo una piattaforma formativa online, in modo che possano accedere più persone.

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S.F.: Sono persone con una formazione nel campo della moda?
Angela Kilusungo: Sono quasi tutti autodidatti, solo all’Università di Dodoma c’è un corso di fashion design. Noi accettiamo volentieri persone che si sono auto-formate sul campo, e che nel nostro incubatore possono acquisire competenze tecniche e di gestione. L’accompagnamento verso il mercato lo facciamo tramite partecipazione a fiere, attività di marketing e networking. Organizziamo eventi in cui possano mostrare il loro lavoro, abbiamo una collaborazione con la Swahili Fashion Week, che si svolge ogni anno in dicembre. Poi abbiamo anche una boutique in cui possono vendere, aperta all’esportazione.

S.F.: Ho visto che avete pubblicato una ricerca sulle condizioni degli artisti in Tanzania, come avete affrontato questo tema?
Sarah Balozi: Abbiamo studiato le condizioni di lavoro ed espressione degli artisti, e il loro status, come funziona l’Art & Culture Fund della Tanzania e come può essere migliorato, perché è fondamentale il finanziamento pubblico della cultura. Il rapporto tratta i problemi relativi alla tassazione, ai contratti, alla formazione, alla parità di genere. Poi c’è il tema dei diritti. La nostra idea è creare una “Legal Rights Clinic” per gli artisti, dando innanzitutto consulenza sui contratti di ingaggio.

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S.F.: Il tema della censura è abbastanza problematico in Tanzania.
Sarah Balozi: La censura c’è ed agisce sulla libertà degli artisti, che è legata alla libertà di espressione. C’è una Commissione che controlla e vieta la pubblicazione di prodotti che contengano questioni legate alla morale, in particolare è proibito ogni accenno all’omosessualità. E ovviamente sono un problema anche le critiche al governo. Anche su questo abbiamo pubblicato sul nostro sito una ricerca: Artistic freedom in Tanzania (2024), finanziata dall’ambasciata Norvegese in Tanzania.

S.F.: Fate un lavoro di promozione della cultura a tutto tondo.
Ayeta Wangusa: Noi crediamo che la cultura, se si fanno investimenti, sia una fonte di sviluppo economico, che possa offrire posti di lavoro in modo che le persone non debbano più emigrare, anzi, chi è uscito possa ritornare. Tante donne potrebbero vivere del loro lavoro, ad esempio nell’artigianato e nella sartoria per l’industria cinematografica. Cerchiamo di creare un ecosistema che favorisca il lavoro regolare. A mio parere il mercato per la creatività dell’Africa c’è, basti pensare alla fame di contenuti delle piattaforme come Netflix.

S.F.: Come gestite gli aspetti di comunicazione?
Magreth Bavumo: Io mi occupo di comunicare internamente ed esternamente. Facciamo eventi mensili, legati a progetti, ma anche eventi di networking, per fare incontrare gli artisti e le artiste. Io creo i contenuti per Instagram, TikTok e per Facebook, che però ha un pubblico più “adulto”. C’è anche la radio comunitaria Musoma, a Butiama, villaggio natale del primo presidente della Tanzania, Julius Nyerere. Abbiamo creato uno studio radiofonico e tra poco partiranno le trasmissioni in FM, anche se i fondi sono scarsi. Speriamo di creare un pubblico numeroso e che questo faciliti il reperimento di finanziamenti. Parleremo di salute, notizie, aspetti culturali che possono influire sulla vita delle persone.

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S.F.: In che modo per voi la cultura agisce sulla vita concreta?
Ayeta Wangusa: La nostra è una visione olistica, ad esempio è importantissimo il tema ambientale, l’approccio circolare. I nostri principi di base sono Environment, Social, Governance: anche i mobili della Eco Sanaa Terrace sono in materiale riciclato. Crediamo molto nella prospettiva del turismo culturale. La Tanzania è conosciuta per la natura, i parchi, gli animali selvatici, ma c’è tanto valore culturale che può essere attrattivo per una forma alternativa e sostenibile di turismo: la nostra storia, le tradizioni, la musica.

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13 febbraio 2024

La svolta digitale in Africa

L’Africa digitale è il tema del nuovo numero di Africa e Mediterraneo curato dal Prof. Piergiorgio degli Esposti e dalla direttrice editoriale Enrica Picarelli. Gli ultimi studi mostrano che la digitalizzazione avanza ovunque in Africa con percentuali diverse a seconda delle aree geografiche e coesistendo con un uso ancora diffuso di strumenti e tecnologie analogici. È uno scenario caratterizzato da grandi disomogeneità nel grado di penetrazione delle infrastrutture e dell’alfabetizzazione digitale che riflettono un gap sia tra macroaree sia tra centri urbani, periferie e campagne, ma anche una certa reticenza dei governi e di alcune istituzioni a guidare la transizione. Questo contribuisce a configurare una situazione più volatile rispetto a quella del nord globale, lungo la quale si muovono soprattutto attori privati.

AeM_99_Cover 2Che siano imprenditori, utenti individuali o piccole e medie istituzioni, come start-up, organizzazioni, e comunità, i protagonisti della rivoluzione digitale africana sono soprattutto i singoli. Questo cambiamento dal basso è portatore sia di sviluppi positivi che di sfide. La prima riguarda il divario città-campagne. I grandi centri urbani rappresentano il principale luogo di innovazione e imprenditoria, con una forte concentrazione di start-up, piccole e medie imprese e progetti innovativi soprattutto a Città del Capo, Lagos, Nairobi e Accra.

Al contrario le comunità rurali sono toccate ancora marginalmente dalla transizione digitale con conseguenti forti limitazioni dell’accesso all’informazione, alle opportunità economiche e a molti servizi. Tuttavia, quando presenti e utilizzati, i media digitali offrono anche opportunità senza precedenti per migliorare l’efficienza e la qualità della vita, con la diffusione degli smartphone e l’accesso a Internet come strumenti che guidano processi di democratizzazione dell’informazione e un diffuso miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Di contro, la digitalizzazione è fonte di preoccupazioni legate alla diffusione di fake news e hate speech, alla sicurezza dei dati e alla cybercriminalità, con possibili impatti sui processi politici e democratici.

Il dossier presenta alcuni casi studio in cui questa doppia natura emerge nel suo potenziale dirompente e dunque rivoluzionario. I temi trattati includono la digitalizzazione dell’agricoltura, la moda, la telemedicina e la comunicazione sui social.

Il volume può essere acquistato qui https://www.laimomo.it/prodotto/africa-digitale/

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13 settembre 2023

Essere donna oggi in Ghana: il romanzo “L’unica moglie” di Peace Adzo Medie

La prima scena del romanzo d’esordio di Peace Adzo Medie, accademica nata in Liberia ma cresciuta in Ghana, studiosa delle politiche contro la violenza delle donne presso l’Università di Bristol, descrive la cerimonia di un matrimonio combinato vissuta dal punto di vista della giovane sposa. La prima cosa che la ragazza ci dice è che il suo promesso sposo non c’è: il matrimonio avverrà “in absentia”, perché il futuro marito è in viaggio di lavoro e sarà rappresentato dal fratello. Dai pensieri di Afi Tekple capiamo che lei, convinta dalla madre, ha accettato di sposare il ricco, bello e brillante uomo d’affari Elikem Ganyo, figlio di una potente commerciante – Zietta – che ha beneficiato la madre di Afi dopo la morte del marito, e che spera così di allontanare il figlio da una misteriosa compagna liberiana, non gradita alla famiglia. Questa scelta consente alla giovane Afi di sperimentare il passaggio tra le due punte lontanissime della forbice che separa le famiglie povere dalla nuova rampante classe medio-alta di imprenditori e politici. Si trasferisce infatti dalla cittadina di Ho ad Accra per iniziare la sua nuova vita da moglie, in un quartiere per nuovi ricchi con servitù e appartamento equipaggiato di elettrodomestici che lei non sa usare.

Schermata 2023-09-13 alle 11.31.44La sua inquietudine per la strana assenza del marito è ignorata dalle due famiglie che la spingono ad accettare il ruolo di bella moglie silenziosa, spendacciona e ubbidiente di un uomo che in realtà non vuole lasciare un’altra donna. Ma Afi fa domande, chiede spiegazioni, pretende che il marito sia presente, inizia a formarsi come stilista… I parenti potrebbero pensare che la sua sia solo la lotta per essere l’unica moglie, e inizialmente anche lei lo pensa, mentre invece è un vero e proprio cammino verso l’emancipazione e l’indipendenza.

Non stupisce il fatto che i diritti del libro siano stati presto acquisiti da produttori statunitensi di cinema e serie, perché la storia cattura chi legge quasi come un romanzo rosa, con “illusioni” romantiche alternate a momenti di frustrazione a cui la protagonista, consigliata e sostenuta da altre giovani donne, risponde con sempre maggiore coscienza femminista, sganciandosi con determinazione, seppur lentamente, dagli obblighi di obbedienza alla madre e ai parenti che fanno parte dell’ambiente culturale in cui è cresciuta. Figura simbolo di questo ambiente è lo zio Pious, parassita che vive alle spalle delle numerose mogli, trascurando i figli e pretendendo elemosine dai nuovi parenti in nome di una pretesa autorevolezza morale.

Dal punto di vista narrativo il romanzo ha un andamento un po’ disomogeneo, passando dalle minuziose descrizioni dei rapporti e dialoghi tra i personaggi della prima parte a passaggi un po’ frettolosi nella parte finale, verso lo scioglimento della vicenda. Lo stile di Peace Adzo Medie è neutro, con alcune parole in lingua originale soprattutto in riferimento al cibo e a modi di dire in gergo locale, elencate nel glossario finale.

Il libro offre un’interessante rappresentazione delle contraddizioni sociali di un paese in crescita come il Ghana: nell’esperienza di Afi si ritrovano infatti sia la vita povera di un villaggio rurale sia l’estremo lusso dei magnati della politica, del commercio e della finanza. Non mancano inoltre il settore della moda – con le nuove stiliste che si affermano producendo costosi abiti e accessori per le classi alte – lo sviluppo immobiliare, gli affari facili, il traffico incontrollabile della metropoli.

Afi trova la propria strada tra le donne costrette alla subordinazione dalla povertà e quelle che vivono la condizione di “oggetto” di uomini ricchi con consapevolezza e traendone il massimo vantaggio.

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Peace Adzo Medie
L’unica moglie
Francesco Brioschi editore 2022
Collana Gli Altri
Traduzione di Gabriella Grasso

Il libro è acquistabile qui:
https://www.brioschieditore.it/catalogo-libri/l_unica_moglie.aspx

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05 settembre 2023

“Acqua e Africa” un dossier di Africa e Mediterraneo che mette in prospettiva le sfide del mondo che cambia

“Acqua e Africa | Water and Africa” è il dossier numero 98 di Africa e Mediterraneo, appena pubblicato. Uno dei fondamenti epistemologici del pensiero sul continente, l’acqua è un filtro che racchiude molti degli aspetti asimmetrici del rapporto del Nord con questa parte del Sud globale. Dopo aver orientato saperi e narrazioni occidentali nei secoli del colonialismo, oggi è un significante dell’agenda politica globale attorno al quale si coagulano il nuovo linguaggio securitario nel Mediterraneo e le risposte alla crisi climatica. Quest’ultimo un tema attualissimo che interessa tutto il continente, dove le mutazioni del clima stanno già avendo effetti massicci sulla qualità della vita e la sopravvivenza di milioni di esseri viventi.

Diverse sono le angolazioni e i posizionamenti geografici da cui i contributi del dossier affrontano il tema dell’acqua, a partire dall’approccio letterario dei primi quattro articoli: Francesca Romana Paci fa una panoramica del tema dell’acqua dolce nelle opere in inglese e francese di autori di romanzi e studi scientifici provenienti da diversi paesi africani, Marco Fazzini presenta uno studio monografico sul sudafricano Douglas Livingstone, poeta e scienziato che ha studiato per tutta la vita l’inquinamento delle acque a largo di Durban; Jessica Falconi guarda alla letteratura lusofona, in particolare ai romanzi degli angolani Pepetela e Luandino Vieira e del mozambicano João Borges Coelho, e Mina M. Đurić propone una lettura dell’acqua, e più precisamente della pioggia, in Africa nella produzione letteraria degli anni ’30 del Novecento.

AeM_98_2023_CoverSeguono tre articoli che inquadrano l’acqua attraverso le lenti della sostenibilità e della comunità. Elena Giacomelli e Pierluigi Musarò esaminano i rapporti tra mare, crisi climatica e migrazioni in Senegal, Mattia Fumagalli descrive l’inaridimento del lago Turkana e i suoi effetti sulla convivenza, sempre meno pacifica, tra i pastori nomadi Turkana e i Dassanech che vivono in prossimità del confine tra Kenya ed Etiopia e Mohamed Sacko presenta un caso studio sul degrado ambientale del fiume Niger in Guinea.

Seguono alcuni contributi storici. Luigi Gaffuri descrive i resoconti di viaggio dei missionari italiani in Sudan Angelo Vinco e Stanislao Carcereri, soffermandosi sulla funzione strategica dell’acqua nell’evangelizzazione, Monica Labonia e Mamadou Lamine Sané esaminano le somiglianze tra i siti geografici dei santuari musulmani Keñekeñe jáaméŋ di Gunjur e Kafountine – entrambi sorti in prossimità di acque dolci – introducendo un nuovo elemento analitico nello studio della confraternita senegalese della Tijâniyya, Emanuele Oddi descrive la storia della Great Ethiopian Renaissance Dam, una delle maggiori infrastrutture idroelettriche in Africa, Ettore Morelli ricostruisce l’esperienza della 2a Guerra Mondiale attraverso i componimenti lirici dei membri degli African Auxiliary Pioneer Corps che hanno combattuto per l’Impero Britannico, soffermandosi sul naufragio dell’Erinpura avvenuto al largo delle coste libiche nel 1943 nel quale morirono centinaia di ausiliari provenienti dai moderni Botswana, Lesotho ed eSwatini.

Nella sezione “Cantieri” Jama Musse Jama denuncia l’indifferenza del mondo alla siccità che si è abbattuta sul Corno d’Africa in questi ultimi anni e che sta provocando insicurezza alimentare e spopolamento, il collettivo artistico keniano Kairos Futura, intervistato dalla redazione, illustra “Nairobi Space Station”, un progetto di educazione alla responsabilità ecologica intrapreso presso alcuni quartieri informali di Nairobi dove la popolazione attinge acqua da fonti inquinate, Paolo Agostini descrive invece un progetto nelle oasi della Tunisia dove la desertificazione minaccia la sopravvivenza socioeconomica ed ecologica.

Infine, nella sezione “Musei” Claudio Arbore presenta il progetto del Memorial da Escravatura e do Tráfico negreiro di Cacheu, in Guinea-Bissau, avviato da una ONG locale e sostenuto da programmi di cooperazione allo sviluppo dell’Unione Europea.

Info: https://www.africaemediterraneo.it/it/numeri-rivista/acqua-africa_water-and-africa/
Acquisti: Il volume può essere acquistato qui: https://www.laimomo.it/prodotto/acqua-e-africa-rivista-98/

Fotocover: Artist and activist Stoneface Bombaa standing atop a pile of trash in Nairobi wearing one of his Tree Helmets, part of his Nomadic Forest Installation. Bombaa created the installation as part of his Future Forest Ritual meant to engage his community around the issue of deforestation and regreening the community he lives in, Mathare, an informal settlement in Nairobi. © Kairos Futura

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01 giugno 2023

I Festival Eritrei a Bologna nella ricerca artistica di Muna Mussie

Abbiamo partecipato ieri alla preview della mostra di Muna Mussie, Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna, che inaugura oggi 1° giugno alle 18.00 con la performance collettiva Uroboro e rimane aperta dal 2 giugno al 10 settembre 2023 a Project Room del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna.

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Il progetto, a cura di Francesca Verga con Archive Ensemble, riattiva la memoria personale dell’artista e l’archivio storico e iconografico dei Congressi e Festival Eritrei che si sono tenuti a Bologna ininterrottamente dal 1972 al 1991. Frequentati dalle comunità diasporiche eritree provenienti da tutto il mondo, i Festival si sono collocati in prima linea per supportare la lotta armata inaugurata nel 1961 per l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia.
Tanto che ad Asmara, dopo l’indipendenza nel 1993, si è voluto intitolare una strada Bologna St., come riconoscimento permanente del ruolo fondamentale che la città di Bologna ha avuto nel raggiungimento dell’indipendenza dell’Eritrea.

All’incontro era presente il fotoreporter bolognese Mario Rebeschini, che ha regalato un ricordo diretto dei festival “I festival si facevano in agosto, in una Bologna quasi deserta, che però reagiva bene, con atteggiamento accogliente e solidale, perché allora c’era un pensiero comune, di attenzione alle lotte per la libertà. Erano momenti molto seri, impegnativi e anche riservati, perché si parlava di resistenza armata, la si organizzava.”

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Ha spiegato Muna Mussie: “Venivano persone dall’estero, ad esempio dalla Germania, infatti questa mostra avrà una prossima tappa a Kassel, ma anche dai Paesi Arabi, dall’Egitto. Io ero piccola ma li vivevo con un senso di famigliarità, come ritrovare una ‘iper-casa’. E ho cercato di rappresentarla qui. Io sono alla ricerca di tracce, memorie personali e memorie storiche. Infatti ho messo al centro la rappresentazione di un pop corn, che per noi è simbolo di festa, infatti si offre spesso con il caffè al posto dei pasticcini, ma anche dell’esplosione delle armi. E durante i festival bolognesi quello dei pop corn era l’odore dominante”.

A partire dal legame che unisce l’Eritrea, il paese nativo dell’artista (1978), e Bologna, la sua città adottiva, Muna Mussie consegna una narrazione e una mappatura tracciata dai Congressi e Festival eritrei, attraverso la consultazione di archivi pubblici e privati nel territorio bolognese. I materiali di archivio vengono messi in dialogo dall’artista con alcune opere che hanno accompagnato le tappe precedenti della ricerca e altre inedite, tra cui la performance che inaugura la mostra, un rito collettivo e propiziatorio che segue un movimento circolare e richiama, in parte, le danze tradizionali della cultura eritrea e, in parte, la figura dell’uroboro, il serpente, presente fra le opere allestite. L’uroboro, un antico simbolo rappresentato da un serpente che si morde la coda, è la metafora dell’eterno ritorno e il serpente, che ciclicamente cambia pelle, rivela l’essenza di un nuovo inizio.

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La ricerca e la mostra sono realizzate grazie al sostegno dell’Italian Council (XI edizione, 2022), programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Nell’ambito del programma è prevista la donazione al MAMbo di un’opera che verrà completata alla fine del processo di ricerca di Muna Mussie.
L’esposizione al museo bolognese nasce inoltre dal dialogo e dal confronto con Archive Kabinett e fa seguito alla mostra personale di Muna Mussie, intitolata Bologna St. 173. Il sole d’agosto, in alto nel cielo, batte forte (Milano 2021), curata da Zasha Colah e Chiara Figone.

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Sono stati coinvolti: l’Archivio storico del Comune di Bologna; la Biblioteca Amilcar Cabral | Settore Biblioteche e Welfare Culturale del Comune di Bologna; Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia – Fondo Giorgio Lolli; l’Archivio storico de il Resto del Carlino; l’Archivio storico Paolo Pedrelli CdLM Bologna; la Comunità Eritrea in Italia; gli Archivi fotografici dei fotoreporter Mario Rebeschini, Massimo Sciacca e Luciano Nadalini.

Muna Mussie si conferma artista profonda le cui opere indagano le apparizioni fantasmatiche e la storia minore. Il suo lavoro è stato presentato ad Art Fall/PAC Ferrara, Xing/Raum e Live Arts Week Bologna, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Torino, Museo Marino Marini Firenze, Workspace Brussels, Kaaitheater Bruxelles, MAMbo Bologna, Santarcangelo Festival, Museion Bolzano, ERT Bologna, Rue d’Alger/ Manifesta 2020 Marsiglia, Archive Books Milano, SAVVY Contemporary Berlino, Short Theatre Roma, ArteFiera Bologna, HangarBicocca Milano, Biennale Democrazia Torino, Mattatoio Roma, Sesc  San Paolo, Kunstencentrum BUDA Kortrijk, SZENE Salzburg, Centrale Fies Dro, Black History Month Firenze, Spazio Griot Roma, Villa Romana Firenze.

DIDASCALIA:
Muna Mussie
Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna
veduta della mostra nella Project Room del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Photo Ornella De Carlo
Courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

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19 ottobre 2021

Ambiente ed economia circolare: un focus sull’Africa nel nuovo dossier di Africa e Mediterraneo

Esce in questi giorni il numero 94 della rivista semestrale Africa e Mediterraneo, dedicato al tema “Tutela ambientale, rifiuti ed economia circolare in Africa”. La pressione e l’allarme per la scarsità delle risorse a fronte della crescita della popolazione e per l’emergenza climatica sono più che mai forti, a pochi giorni dal G20 di fine ottobre e dall’attesissima conferenza sul clima COP26 di Glasgow, e l’opinione pubblica globale sente il problema in maniera sempre più urgente, prendendo come punto di riferimento comune i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile adottati dalle NU nel 2015 all’interno dell’Agenda 2030 e diventando sempre più consapevole dell’interdipendenza globale.

Cover_AeM_94:2021La via alla crescita sostenibile, tra opportunità e contraddizioni, deve essere percorsa dall’intera comunità internazionale, e in questo processo l’Africa può giocare un ruolo da protagonista. Con l’Agenda 2063, the Africa we want, l’Unione africana ha proposto un piano strategico comune per la trasformazione socioeconomica del continente lanciato nel 2013, così come le imprese africane del Global Compact delle NU richiamano il ruolo del settore privato per «creare mercati più integrati, società più resilienti e raggiungere uno sviluppo duraturo e sostenibile».

In questo dossier vari aspetti sono presi in considerazione: i rifiuti smaltiti in Africa, in particolare quelli connessi all’industria della moda con il fenomeno ambientalmente devastante del fast fashion, che è responsabile dell’8-10% delle emissioni globali di CO2 e scarica tonnellate di rimanenze abiti invenduti in Africa orientale (Ghana e Kenya); i progetti che offrono soluzioni per una produzione di moda a impatto ambientale zero (Kenya e Sudafrica); la necessità di un’efficace comunicazione dell’economia circolare da parte dei media del continente, affinché il cambiamento sia compreso e adottato da tutti; la gestione dei rifiuti, in particolare della plastica e degli imballaggi, da parte degli Stati (qui è trattato il caso del Mozambico) per la non facile transizione verso la circolarità; l’attivismo della società civile, come la creazione nel 2016 dell’African Circular Economy Network (ACEN), al quale aderiscono enti pubblici, privati e non-profit di oltre trenta paesi africani; le nuove soluzioni adottate dai settori agricolo (con l’agroecologia che può rimediare al problema della bassa produttività della terra e del lavoro) e forestale (con soluzioni tecniche a vantaggio dell’efficienza energetica).

Anche in Africa, come nel resto del mondo, la sfida dell’attuazione di una transizione ecologica che sia anche equa è cruciale: questo dossier offre un contributo alla riflessione su questo tema estremamente complesso, con alcune analisi di pratiche e situazioni attuali, esempi positivi da promuovere e criticità da affrontare, senza dimenticare che la circolarità è stata praticata in tutta l’Africa per generazioni, in larga misura per necessità, e che questo atteggiamento rigenerativo e rispettoso dell’ambiente può contribuire al pensiero circolare, in uno scambio globale che sia arricchente per tutti.

Le rivista è acquistabile online in formato cartaceo e digitale.
Info: www.laimomo.it/editoria/

© Photo Credits. Detail of garment label by the upcycling Ghanaian brand Slum Studio, based in Accra. http://www.theslumstudio.com/ Photo by Tora San Traoré

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06 ottobre 2021

La notte e il giorno della memoria a Lampedusa: un impegno per il futuro

Abbiamo partecipato anche quest’anno a Lampedusa alle celebrazioni in ricordo della strage del 3 ottobre 2013 in cui, a sole due miglia della costa di Lampedusa, morirono 368 persone.

Non ci stancheremo mai di continuare a ricordare, da questa isola, a chiedere alla comunità internazionale a dare risposte concrete“, ha detto Tareke Brhane del Comitato 3 ottobre, mentre Totò Martello, Sindaco di Lampedusa, ha denunciato il mancato impegno della politica, in particolare europea, nell’affrontare il fenomeno dell’immigrazione con un approccio strutturale e non emergenziale, per arrivare ad avere un’immigrazione ordinata, regolare e sicura, come previsto dal Global Compact on Migration promosso dalle Nazioni Unite nel 2018. Solo così si potranno interrompere le tragedie del mare dovute alla migrazione irregolare. Lampedusa fa la sua parte, ha detto, ma non può più essere l’unica a far fronte alle conseguenze di questa cecità politica.

Lampedusa - 2021 - Mathias Marchioni

Estremamente toccante e partecipato il momento di raccoglimento nella notte tra il 2 e il 3, alle 3,15, orario del naufragio del 2013, al memoriale con i nomi dei 368 morti voluto da Vito Fiorino, il pescatore che assieme ai suoi compagni per primo ha dato l’allarme e salvato 48 persone sulla sua barca omologata per 9 persone.

La mattina del 3 c’è stato un primo incontro – in piazza Castello – con gli studenti. Poi, per la commemorazione non c’è stata nessuna marcia lungo le strade dell’isola, a causa delle misure sanitarie, ma le numerosissime persone presenti sono andate autonomamente alla Porta d’Europa.  Qui si è svolta una preghiera interreligiosa e l’inaugurazione del restauro del monumento di Mimmo Paladino che, installato nel giugno 2008, necessitava di un’azione di recupero. Poi con varie barche dei pescatori, i/le partecipanti si sono recati/e sul punto del naufragio a deporre una corona di fiori. Proprio in quel momento era in corso un’azione di recupero di un piccolo gommone da parte della Guardia Costiera, mentre al Molo Favaloro altri migranti stavano scendendo a terra per essere soccorsi e seguire le procedure mediche e legali consuete.

Lampedusa - 2021 - Mathias Marchioni

Oltre ad alcuni superstiti e parenti delle vittime, ad associazioni, autorità civili, religiose e militari e a studenti di 22 paesi, sull’isola erano presenti anche undici madri tunisine che cercano i loro figli scomparsi durante il viaggio verso l’Europa. Durante la cerimonia della notte hanno deposto la Couverture de la Mémoire fatta di 368 quadretti realizzati con l’uncinetto, a partire dalla Coperta di Yusuf, nata a Lampedusa all’indomani dell’annegamento del piccolo Yusuf, ennesima vittima del mare. Ogni “mattonella” che compone la coperta rappresenta la storia di una persona perduta lungo la rotta migratoria e ricorda una persona che ancora si ricerca e per cui si chiede verità e giustizia.

Lampedusa - 2021 - Mathias Marchioni

Nel pomeriggio è stato inaugurato il Percorso della Pace, creato sull’isola nell’ambito del progetto Snapshots from the Borders unendo in un cammino ideale i vari luoghi non solo per ricordare, ma per costruire vie positive di convivenza.

PHOTO GALLERY
Tutte le foto nel presente articolo sono a cura di Mathias Marchioni

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10 marzo 2021

L’Africa potrà raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030 solo con una rivoluzione green. Il 7° Forum africano sullo sviluppo sostenibile

Di Sandra Federici

Si è tenuto in dall’1 al 4 marzo con incontri a Brazzaville e online il 7° Africa Regional Forum on Sustainable Development (ARFSD), per fare il punto sul raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 e dell’Agenda 2063: The Africa We Want, nella consapevolezza della “devastazione economica e sociale portata dalla pandemia”, e decidere le misure politiche da adottare. L’idea che ha permeato gli interventi è che anche qui la ricostruzione post-Covid19 dovrà seguire traiettorie green e tendenti alla minima emissione di carbonio, per poter costruire un’Africa resiliente inclusiva e sostenibile.

EvhDxZZWQAICospMa molti relatori hanno affermato che, proprio ora che si è inaugurata la “decade of action” per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030, si prevede che molti paesi falliranno nell’ottenerli, in particolare, a detta del rappresentante regionale per l’Africa della FAO, Abebe Haile-Gabriel, per quanto riguarda il numero 1: “fame zero”. “Ci sono troppe criticità dovute al cambiamento climatico, alla povertà economica e all’impatto negativo del Covid19, così come alla scarsità degli investimenti pubblici” che dovrebbero sostenere misure di protezione sociale verso i più vulnerabili. Tuttavia, il fatto di aver creato l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA) costituisce un’opportunità unica per trasformare il sistema alimentare del continente, se gli impegni ad alto livello si uniranno a investimenti e azioni locali e nazionali.
Il report Building Forward for an African Green Recovery lanciato dall’ECA contestualmente al Forum, spiega che, prima della pandemia, i paesi africani crescevano in media di più del 3%, più che altre aree del mondo, anche se le disparità di reddito erano in aumento in tutta la regione e più del 50% della popolazione dell’Africa centrale viveva sotto la soglia di povertà estrema. Se l’impatto della pandemia non sarà limitato entro la fine del 2021, si rischia di distruggere i progressi fatti nell’ultimo decennio.

global-goals-495x400James Murombedzi, esperto dell’ECA’s African Climate Policy Centre (ACPC), ha garantito che il suo ente supporterà la Commissione dell’Unione africana nel finalizzare la African Climate Change Strategy (2020-2030), per inquadrare l’azione degli stati verso l’abbassamento delle emissioni di anidride carbonica. Il cammino verso la crescita economica, ha sottolineato, dovrà essere verde, perché il cambiamento climatico distrugge le economie nazionali, gli ecosistemi e le vite, e la possibilità per l’Africa di raggiungere gli obiettivi 2030 e 2063. Murombedzi ha indicato tra le sfide da raggiungere quella di integrare i servizi digitali di informazione climatica nei processi di sviluppo, e la promozione di interventi green che sicuramente, come è provato anche dal Report dell’ECA, genereranno posti di lavoro “ecosostenibili”.

Il forum ha dato molto spazio al tema degli investimenti e dei finanziamenti. James Kinyangi dell’African Development Bank (AfDB) ha notato che si prevede di raddoppiare i finanziamenti per la diminuzione delle emissioni di carbonio e la resilienza climatica da $12.5 miliardi nel 2016-2020 a $25 nel periodo 2021-2025. Gli investimenti pubblici sono in effetti cruciali: Chris Toe del WFP ha affermato che i paesi africani devono investire prioritariamente nella trasformazione del settore agricolo, nello sviluppo di infrastrutture sostenibili e nel capitale umano. Il rappresentante del Ministero dell’Agricoltura Congolese, Mukena Bantu, ha affermato che la nuova amministrazione è determinata a sviluppare l’agricoltura, e che vuole far sì che “il suolo prevalga sul sottosuolo”.
Germain Mpassi, il Direttore Generale per lo Sviluppo Sostenibile del Ministero dell’Ambiente e del Turismo della Repubblica del Congo, ha affermato che l’Africa deve giocare un ruolo nell’ottenimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi COP21, e ha posto l’accento sull’importanza del bacino del Congo, secondo polmone del pianeta, come riserva globale contro l’emissione di carbonio, e spiegato le misure che stanno prendendo per proteggere la foreste e le popolazioni che vi sono insediate.

downloadRazi Bozekri, del Ministero dell’Ambiente marocchino, ha sottolineato la traiettoria verso l’energia pulita intrapresa dal suo governo, attraverso l’uso del solare e dell’energia eolica. Ha citato come success story il Noor Ouarzazate Solar Complex, che nel 2016 è stato collegato alla rete principale del Marocco ed è stato finanziato anche dalla AfDB, e ricordato l’African Action Summit organizzato dal re del Marocco a margine della COP22 tenuta a Marrakech nel 2016. L’importanza del finanziamento delle azioni contro il cambiamento climatico e della digitalizzazione e dell’accesso ai sistemi di informazione climatica è stata sottolineata da Mithika Mwenda della Pan African Climate Justice Alliance (PACJA), coalizione con sede a Nairobi che riunisce più di mille ONG, comunità, fondazioni e network, e dall’attivista nigeriana Chinma George.

Numerosi documenti e studi relativi alla conferenza sono disponibili sul sito dell’United Nation Economic Commission for Africa (UNECA), che ha organizzato l’evento.

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23 maggio 2017

Rapporti tra culture. Una storia di malintesi e… fake news

Bufale e hate speech, affermazioni inverosimili e polemiche: come sappiamo, il panorama mediatico è invaso da un’aggressività inquietante che disorienta e, anche, spaventa un po’. Tra le forme di resistenza alla superficialità on-line che si vedono emergere sempre più, abbiamo conosciuto l’associazione “Gli incontri di Sant’Antonino”. Attiva da circa due anni nella divulgazione culturale, affronta temi attuali secondo approcci diversi: storici, filosofici, antropologici, teologici. I partecipanti agli incontri – rigorosamente off-line e cioè reali – approfondiscono le ragioni dei problemi attuali, cercando di delineare scenari futuri. Il gruppo si riunisce presso l’antica dimora Sgaravatti di Sant’Antonino (Casalgrande, RE). Non c’è appartenenza politica o religiosa, solo l’interesse ad approfondire e a dialogare. Mettendoci tempo, pensiero, curiosità. Il tema di domenica 7 maggio, ad esempio, è stato: “Rapporti interculturali. Una storia di malintesi”.

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Francesco Maria Feltri, storico e docente di liceo (fortunati gli studenti a cui tocca come professore di storia e filosofia…) ha spiegato come l’ideologia razzista nei confronti di ebrei, moriscos e marrani, diffusa nella Spagna del 500, è stato il bagaglio di mentalità intollerante con il quale l’Europa è arrivata nelle Americhe e, in seguito, ha sviluppato le sue imprese coloniali. Un “razzismo teologico” nei confronti degli ebrei, etichettati come la razza perversa degli assassini di Cristo, portatori nel sangue di una macchia che nemmeno il battesimo poteva lavare. E’ stato questo l’inizio di una dissertazione storica che, di documento in documento, ha ripercorso le tappe dell’atteggiamento violento dell’Occidente nei confronti degli Altri, un atteggiamento di cui torna ancora qualche eco negli striscioni razzisti con slogan irripetibili che vediamo negli stadi. Di seguito Guido Armellini, autore del manuale di letteratura italiana Armellini-Colombo e componente della chiesa valdese di Bologna, ha raccontato cosa vuol dire “Essere protestante nell’era di Francesco”. Mostrando un curioso Playmobil raffigurante Martin Lutero, prodotto e diffuso in Germania dall’azienda di giochi in occasione dei 500 anni dall’affissione delle 95 tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg, ha spiegato cosa un protestante non celebra 500 anni dopo la riforma. Non celebra la posizione di Lutero verso i contadini, quella verso gli ebrei, l’appoggio che i governi hanno avuto dalle autorità per imporre la loro idea ai sudditi con la forza (il famoso cuius regio eius religio). Ha però anche spiegato i punti di differenza tra cattolicesimo e riforma, sottolineando ad esempio la responsabilità nei confronti delle scelte morali a cui sono chiamati i credenti protestanti, che non hanno un clero che faccia da intermediario con Dio.

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Il dialogo è proseguito con domande dei presenti e interventi dei due esperti, fino a concludere che la storia continua a dimostrare che l’intolleranza “non conviene”, che i popoli che si sono chiusi agli altri hanno anche rinunciato all’apporto economico e all’innovazione portata dalle altre culture. La decadenza della Spagna che cacciò moriscos ed ebrei fece la ricchezza degli olandesi che invece dissero: venite, c’è posto per tutti. E molti governanti lo capirono, tornando sui loro passi nel corso del 600. “Lo spirito dei nostri incontri”, ha affermato il presidente Vanni Sgaravatti, “è aiutare a capire il presente, guardando con più attenzione il passato e immaginando il futuro attraverso una migliore capacità di dialogo con l’altro. Le persone partecipano per il bisogno di trovare il punto di incontro tra necessità di riflessione, impegno, conoscenza, ma anche di relazione in un luogo piacevole, famigliare, umano, dove pensare non è disgiunto da gustare, ascoltare, sorridere”.

Per info: https://www.facebook.com/anticadimorasgaravatti

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