20 dicembre 2013
La moda in Africa: la bellezza come strategia di riscatto sociale
La moda africana è un fenomeno complesso che andrebbe analizzato attraverso una prospettiva antropologica in modo da cogliere il significato degli usi sociali del corpo e degli ornamenti. Il progetto Ethical Fashion Initiative (EFI) dell’International Trade Centre sembra muoversi proprio in quest’ottica portando case di moda o di distribuzione europee a produrre in Africa presso comunità svantaggiate per favorire l’empowerment femminile e dare maggiori opportunità all’artigianato africano. Per saperne di più vi presentiamo qui un estratto dell’articolo L’Ethical Fashion Initiative (EFI): conversazione con Simone Cipriani a cura di Giovanna Parodi da Passano pubblicato sul numero 78 di Africa e Mediterraneo.
Che il futuro della couture sia in Africa è opinione condivisibile senza esitazioni da chi, come me, ha una qualche esperienza di ricerca sul terreno in Africa occidentale. Vale a dire in società dove nel gioco delle apparenze – molto presente nelle culture locali come del resto, più in generale, nella maggior parte delle culture dell’Africa subsahariana – la performance del corpo vestito tradizionalmente assume forme di assoluta rilevanza e significatività. Con una tale enfasi sull’abito e sull’ornamento da far ritenere che il primato nel culto della bellezza e dell’eleganza appartenga già alle civiltà africane.
Se è vero infatti che le società mirano tutte alla gestione ottimale del corpo sul mercato dei segni, è in special modo nei mondi africani che vestiti, tessuti, monili, acconciature e marchi servono a mettere il corpo in posizione di centralità e a iscrivere l’individuo nel discorso sociale. In effetti risultano sorprendenti, perlomeno al nostro sguardo di occidentali, le tante e inventive modalità, dal forte radicamento sociale, di abitare il proprio corpo abitando i propri vestiti che animano i teatri della quotidianità africana.
Il fatto è che in Africa l’eleganza esibita è vissuta come esigenza e come forza: l’abito elegante reinstalla i corpi in se stessi, dona loro pienezza e coerenza, li reinveste del loro potere d’azione e d’emozione. In altre parole, il corpo potenziato in bellezza non solo è fonte di soddisfacimento estetico, e in qualche modo etico, ma si configura come un vero e proprio traguardo di vita, come strategia di rafforzamento e di sopravvivenza in contesti di competizione o ancora, specie in situazioni di marginalità, come riscatto esistenziale. […]
Nell’odierna ossessione per la moda che trionfa sul continente traspare senza dubbio un magmatico immaginario collettivo asservito a logiche di ostentazione. Il peso del fashion nell’arena sociale (e anche in quella politica) implica questo orientamento esasperato allo sfoggio vestimentario, senza tuttavia spiegare del tutto la dimensione del fenomeno. Non di rado infatti il bisogno di apparire eleganti, di vestirsi all’ultima moda, viene declinato in comportamenti talmente estremi da portare ancora una volta a chiedersi da quale concezione del potere attribuito alla spettacolare messa in scena di un corpo addobbato (per essenza quindi culturale) emerga il loro prodursi, indipendentemente dai modelli culturali di cui sono veicolo.
In conclusione, per dirla alla maniera antropologica, la moda in Africa si presenta quale “fatto sociale totale”, ossia è una materia da affrontare come qualcosa di estremamente complesso, imbrigliato nei processi storici locali, legato agli usi sociali del corpo e calato nella contemporaneità.
Per acquistare on line il N. 78 di Africa e Mediterraneo, conoscere o acquistare i numeri precedenti, sottoscrivere un abbonamento vai al sito di Lai-momo, l’editore.
Parole chiave : African fashion, artigianato africano, Ethical Fashion Initiative (EFI), Giovanna Parodi da Passano, International Trade Centre, moda africana, Simone Cipriani
Trackback url: https://www.africaemediterraneo.it/blog/index.php/la-moda-in-africa-la-bellezza-come-strategia-di-riscatto-sociale/trackback/
Nell’immaginario collettivo gli immigrati sono lavoratori subalterni che svolgono mansioni poco qualificate, i cosiddetti “lavori che gli italiani non vogliono più fare”. In realtà però, sono in aumento gli imprenditori stranieri nel nostro paese e nella nostra regione, l’Emilia Romagna. Un recente studio realizzato dal Dipartimento di economia e dal Centro universitario per la cooperazione internazionale dell’Università degli Studi di Parma ha analizzato il fenomeno. Qui vi proponiamo un estratto dell’articolo, pubblicato sul numero 78 di Africa e Mediterraneo, “Non solo etnico: un nuovo sguardo all’imprenditoria degli immigrati in Italia” in cui Alessandro Arrighetti, Daniela Bolzani e Andrea Lasagni sintetizzano i risultati dello studio svolto.
A fronte di un netto calo del tasso di natalità delle imprese fondate da italiani, il numero di nuove imprese gestite da immigrati in Italia è in costante crescita. Oggi le imprese cosiddette “etniche” sono in grado di fornire nuove tipologie di servizi e di estendere la varietà dei prodotti disponibili, anche sui mercati a cui accedono gli autoctoni.[…]
I dati contenuti nel nostro lavoro sull’imprenditoria immigrata in Emilia Romagna mostrano che, all’aumento della complessità organizzativa e alla varietà delle strategie adottate, cresce anche l’apertura dell’impresa a soggetti (clienti, fornitori, soci, dipendenti), provenienti da comunità diverse da quelle di origine dell’imprenditore. Si è scelto di utilizzare il concetto di “ibridismo culturale” per descrivere le imprese gestite da soci di diverse nazionalità o in cui lavorano dipendenti provenienti da paesi differenti. Il risultato è che le imprese connotate da ibridismo culturale non sembrano mostrare strategie e comportamenti riconducibili alla fragilità e alla marginalità.
Le imprese con connotazioni “ibride” risultano caratterizzate da un orientamento molto marcato verso il consumatore italiano e da una offerta di prodotti e servizi non-etnici ad una popolazione di clienti in prevalenza non co-etnica. Tali imprese, inoltre, dopo la fase di start up, hanno ricevuto un supporto esplicito da amici e conoscenti, da consulenti e professionisti italiani. Si tratta, quindi, di figure esterne alla comunità di origine e derivanti da legami sociali e contatti sviluppati in Italia nel corso del tempo. Infine, le interviste presso le imprese “ibride” hanno permesso di evidenziare una migliore conoscenza della lingua italiana rispetto alle altre imprese gestite da immigrati.[…]
In conclusione, possiamo affermare che l’impresa etnica sta diventando non soltanto un’importante realtà economica, ma anche un nuovo fulcro di scambio e di integrazione tra individui appartenenti a diverse comunità e depositari di relazioni e conoscenze molteplici e stratificate. In questo senso, l’impresa etnica deve essere considerata un fattore importante per la coesione sociale nel nostro paese.
Per acquistare on line il N. 78 di Africa e Mediterraneo, conoscere o acquistare i numeri precedenti, sottoscrivere un abbonamento vai al sito di Lai-momo, l’editore.
Parole chiave : Alessandro Arrighetti, Andrea Lasagni, Centro universitario per la cooperazione internazionale dell’Università degli Studi di Parma, Daniela Bolzani, Dipartimento di economia dell’Università degli Studi di Parma, imprese etniche, imprese ibride
Trackback url: https://www.africaemediterraneo.it/blog/index.php/meglio-ibride-che-etniche-le-imprese-degli-immigrati-in-emilia-romagna/trackback/
06 dicembre 2013
Per ricordare Nelson Mandela
Mandela is saying goodbye…
Per ricordare Nelson Mandela sono andata a ricuperare questo testo che avevo messo da parte tempo fa, nel 2011, quando Madiba era stato ricoverato di nuovo e i Sudafricani e il mondo intero avevano cominciato a prepararsi alla sua perdita. Si tratta del brano di una recensione, pubblicata su The Nation dallo scrittore cileno Ariel Dorfman, del libro di Mandela Conversations With Myself.
Perché si possono ricordare tante cose: la sua lotta, il fatto che abbia cambiato il mondo, la geniale scelta della riconciliazione, ma quello che abbiamo sentito tutti più forte in questo lungo addio – dall’ultima apparizione ufficiale durante i mondiali in Sudafrica nel 2010 – era l’importanza della sua figura morale, e il fatto che il mondo l’avrebbe persa, ed è proprio a questo che Dorfman si riferisce quando parla delle lettere scritte da Mandela dalla prigione di Robben Island.
“… Leggendole ci accorgiamo che Mandela tiene conto dei suoi censori. Lui sta anche scrivendo a loro, attraverso di loro, vuole entrargli dentro, si può percepire la loro presenza nella sua mente, la sua certezza che le sue parole sulla loro crudeltà e mancanza di decenza avrebbero fatto vergognare questi custodi. Si capisce come stia mettendo in scena una teoria della liberazione appositamente per questa audience di secondini; si coglie tra le righe come stia educando i suoi carcerieri malgrado i loro pregiudizi. E si vede, allo stesso modo, come sta educando se stesso, preparandosi al compito di ricomporre la divisione razziale e di classe che minacciava di distruggere il Sudafrica. Come stia diventando Nelson Mandela.
Forse per questo è così contrariato dalla sua trasformazione in un santo. Non è perché è stato lontano dagli altri, dal male, dalla debolezza di un’umanità fragile, che ha vinto. È stato perché è sprofondato dentro ciò che c’era di negativo in lui e nel doloroso mondo attorno a lui che è stato capace di sviluppare “tutto quanto ci fosse di buono”, come scrive nel suo libro. Come farlo? Una parola affiora continuamente: integrità. La sua integrità e la fiducia nel fatto che essa esiste in ogni persona del pianeta, non importa quanto duramente nascosta dalla paura e dall’intolleranza, e che se tu ti appelli a quanto di meglio c’è negli altri loro, alla fine, risponderanno. Ma lo faranno solo se sentiranno che tu sei fedele a te stesso e ai tuoi principi, al tuo desiderio di un mondo più giusto e umano, che tu sei pronto a tracciare una linea sulla polvere della storia.
È un messaggio che il suo paese deve ascoltare ancora una volta. Il suo meraviglioso Sudafrica, che è ancora in pericolo di smarrire la sua strada. La sua terra, che presto dovrà affrontare un lungo secolo di rinnovata lotta per la solidarietà e la verità e la pace senza la guida di Madiba. La necessità di affrontare questa imminente assenza ci fa arrivare al cuore non detto e nascosto di questo libro: Mandela sta dicendo addio.”
Il brano si trova sul bellissimo blog dell’intellettuale sudafricano Sean Jacobs Africa is a Country. Sul blog hanno pubblicato una compilation di canzoni sudafricane dedicate a Mandela.
Parole chiave : Ariel Dorfman, Nelson Mandela, Robben Island, Sean Jacobs, Sudafrica
Trackback url: https://www.africaemediterraneo.it/blog/index.php/per-ricordare-nelson-mandela/trackback/
05 dicembre 2013
Fundraising senza pietismo: Rusty Radiator Award
Il fondo Norwegian Students’ and Academics’ International Assistance ha istituito un concorso per sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo alle campagne di fundraising. Spesso infatti queste fanno un uso smodato di stereotipi che le rendono patetiche e offensive nei confronti delle stesse persone che intendono aiutare. “Stereotypes harm dignity” è il grido di battaglia di questa iniziativa che il 10 dicembre assegnerà due premi: il Rusty Radiator Award alla campagna più stereotipata e il Golden Radiator Award alla campagna più creativa. Potete esprimere il vostro parere votando gli otto video finalisti e contribuire così a dire no al pietismo delle celebrities coinvolte e alla retorica della povertà e della fame che nuoce più di quanto non ottenga.
Divertente il video di presentazione, dove un simpaticissimo ragazzino africano spiega di essere il tipico “protagonista di video con star impegnate nell’aiuto umanitario”, grazie alla sua faccia particolarmente triste, e si mostra con gag esilaranti nelle varie situazioni in cui deve sopportare con pazienza la commozione e i pietosi regali delle star.
Parole chiave : fundraising, Golden Radiator Award, Norwegian Students' and Academics' International Assistance, Rusty Radiator Award
Trackback url: https://www.africaemediterraneo.it/blog/index.php/rusty-radiator-award-per-un-fundraising-consapevole-e-creativo/trackback/
02 dicembre 2013
La zakāt: l’importanza del dono nella cultura islamica
E’ noto che l’elemosina, il dono ai poveri, è uno dei 5 pilastri dell’Islam, di conseguenza riguarda tanti cittadini di fede musulmana che abitano nelle nostre città e con cui conviviamo quotidianamente. Ma cosa ne sappiamo veramente? I fondamenti teologici e gli sviluppi sociali di questa pratica sono analizzati nell’articolo “La zakāt: una tradizionale forma di donazione islamica”, pubblicato sul numero 78 di Africa e Mediterraneo a firma di Omar Bortolazzi, ricercatore del Dipartimento di Storia, Culture e Civiltà dell’Università di Bologna e coordinatore del PHaSI – Philanthropy and Social Innovation Research Centre – dello stesso Dipartimento.
La zakāt è una delle varie forme di donazione riconducibile alla tradizione islamica. Le donazioni sono fortemente incoraggiate nell’Islām come forma di purificazione della propria ricchezza e con lo scopo di migliorare le condizioni dei sofferenti e dei poveri. Ci sono due categorie di istituzioni che si occupano della raccolta e distribuzione delle donazioni: la prima si occupa delle risorse donate da un singolo individuo o una famiglia, dette waqf, la seconda categoria invece racchiude istituzioni che raccolgono la zakāt con l’obiettivo di creare un fondo per motivi caritatevoli. La zakāt è una quantità di denaro che ogni musulmano/a deve pagare per aiutare alcune categorie svantaggiate, se la sua ricchezza supera una certa soglia (niṣāb); essa si fonda sull’idea che ogni cosa appartiene ad Allah e che quindi la ricchezza è data solo in prestito agli esseri umani.
La zakāt è uno dei cinque pilastri dell’Islām e consiste in una tassa annuale il cui scopo è da una parte purificare la ricchezza di chi la offre e dall’altra purificare dall’invidia chi la riceve. In paesi come l’Arabia Saudita, la Malesia o il Sudan, il governo, o le sue agenzie, sono responsabili della raccolta della zakāt, in altri come il Bahrein ci sono invece delle istituzioni specializzate, infine in paesi non islamici ogni buon musulmano deve pagare la sua zakāt attraverso organizzazioni caritatevoli, centri islamici o moschee.
Vi è una soglia minima, chiamata niṣāb, al di sotto della quale non vige più l’obbligatorietà della donazione, la šarī‘ah ne specifica i livelli per ogni categoria di ricchezza o possedimento. Nella letteratura islamica classica sono indicate otto tipologie di persone che possono ricevere la zakāt: i poveri, i bisognosi, gli amministratori della zakāt, i pellegrini, i debitori, coloro i cui cuori devono essere riconciliati, i musulmani che devono liberarsi da “schiavitù” e coloro i quali lavorano alla causa di Allah. I poveri e i bisognosi sono considerate due categorie distinte. Secondo le principali interpretazioni giuridiche, i poveri sono coloro che non hanno alcun bene o mezzo di sostentamento, mentre i bisognosi sono coloro i cui guadagni non sono sufficienti per soddisfare le necessità di base. Fino ad oggi i singoli individui, insieme alle organizzazioni religiose e di volontariato, sono stati i principali fruitori della filantropia islamica, ma il dibattito contemporaneo si sta orientando verso la possibilità di allargare queste categorie per affrontare nuovi bisogni: utilizzare quindi la zakāt per progetti di sviluppo e di infrastrutture finanziando istituzioni caritatevoli, organizzazioni ambientaliste od ONG.
Per acquistare on line il N. 78 di Africa e Mediterraneo, conoscere o acquistare i numeri precedenti, sottoscrivere un abbonamento vai al sito di Lai-momo, l’editore.