22 novembre 2024

Il numero 100 di Africa e Mediterraneo: Metodologie ed etica della restituzione

Se le relazioni culturali asimmetriche proprie del colonialismo hanno portato al saccheggio di oggetti culturali, come abbiamo costruito i dispositivi coloniali? In che modo essi agiscono ancora oggi? In che modo dobbiamo decostruire il nostro sguardo per denaturalizzarli e denaturalizzarne l’impatto sulle nostre società contemporanee? In che modo è possibile riparare? Queste sono alcune delle domande che pongono Lucrezia Cippitelli e Donatien Dibwe dia Mwembu, curatori del dossier numero 100 di Africa e Mediterraneo dedicato alla questione restituzioni.

Impugnato dai paesi africani fin dalle lotte di indipendenza degli anni 50 e 60, poi oggetto di convenzioni UNESCO e UNIDROIT ad hoc (rispettivamente del 1970 e 1995), questo tema è diventato di grande attualità perché le istituzioni occidentali, in possesso di oggetti che non hanno provenienza chiara e che testimoniano una storia oggi difficile da salvaguardare, hanno mostrato un disagio e un bisogno di liberarsi della pesante eredità coloniale e affrancarsi dalla definizione di “ultimi baluardi del colonialismo”.

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Il dibattito sulla restituzione, sulle ricostituzioni, sul riparare, attraverso la riappropriazione dei valori culturali, permette di ricollegare il passato precoloniale, consapevolmente sepolto e dimenticato, a un presente postcoloniale amputato. Cosa viene restituito? Qual è il valore degli oggetti culturali restituiti alle comunità di origine? Queste domande sono l’humus di un dibattito che dovrebbe essere speculare a quello delle società occidentali e interno al continente africano cosiddetto moderno, tra i membri delle comunità di origine, per creare uno spazio di dialogo e di sensibilizzazione sull’importanza dei valori culturali africani in generale e sul loro mantenimento e conservazione. Ripristinare tutti i valori tradizionali distrutti sembra essere la risposta alle domande: “Qual è il futuro delle nostre lingue madri, soprattutto all’interno delle famiglie intellettuali? Come manteniamo i nostri cimiteri? Come conserviamo i nostri documenti d’archivio?”

Il dossier raccoglie contributi in italiano, inglese e francese di studiosi, esperti e attivisti che trattano casi puntuali, come quelli dell’Etiopia, del Kenya e della Nigeria, e questioni più ampie. La sezione sull’Italia, che include due articoli sull’ex Museo Coloniale, oggi Museo delle Civiltà di Roma, evidenzia i limiti del dibattito e delle iniziative sulla restituzione nel nostro paese.

Al dossier è allegata come inserto la fanzine del progetto “Decolonizing the Gaze” di Caterina Pecchioli, realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council (2022). Una riflessione aperta sul legame tra identità, moda e colonialismo a partire dall’osservazione di oggetti di abbigliamento, tessuti e accessori del periodo coloniale custoditi presso archivi e istituzioni museali italiani e olandesi.

Tutte le info sul numero e per l’acquisto qui: https://www.africaemediterraneo.it/it/la-rivista/

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18 novembre 2024

PER UN MONDO PIÙ GIUSTO: IL REPORT L20 2024 UNA VISIONE DALLE PERIFERIE DEL MONDO

Roma, 18 novembre 2024.

Mentre i leader del G20 si riuniscono per firmare gli accordi contro la povertà e la fame, l’Associazione Last20 APS lancia un appello urgente non dimenticare gli “ultimi”, i 20 paesi più impoveriti del mondo, gli L20.  In occasione del summit, l’Associazione presenta il Report 2024 L20, un’analisi dettagliata delle crisi che affliggono questi paesi, dimenticate dai media.

I 20 paesi sono: Afghanistan, Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Gambia, Haiti, Liberia, Madagascar, Malawi, Mali, Mozambico, Niger, Sierra Leone, Somalia, Sud Sudan, Togo e Yemen.

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“Non possiamo parlare di sviluppo e di giustizia globale senza considerare la realtà di questi paesi,” afferma Tonino Perna, Presidente dell’Associazione Last20. “Il nostro Report offre una prospettiva unica, quella di chi vive quotidianamente le conseguenze della povertà, dei cambiamenti climatici, dei conflitti e delle disuguaglianze.” Il Report 2024 L20 si basa su dati forniti dalle Agenzie internazionali delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del FMI o raccolti sul campo, attraverso testimonianze dirette e analisi di esperti, o da membri delle diaspore, offrendo un quadro completo della situazione nei paesi L20.  Tra i temi chiave:

Crisi climatica:  La gran parte dei Paesi L20 sono i più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, nonostante siano i meno responsabili delle emissioni globali.  Molto rari sono gli interventi di mitigazione e prevenzione delle catastrofi ambientali (siccità, alluvioni, ecc.)

Conflitti e instabilità:  Quasi i due terzi dei Paesi L20 fanno registrare conflitti armati o instabilità politica, con conseguenze devastanti per le comunità locali. Il Report analizza le cause profonde di questi conflitti e il loro impatto sulla vita quotidiana delle persone,, sottolineando l’urgenza di interventi di pace e di ricostruzione. 

Povertà multidimensionale: Il Report va oltre gli indicatori economici tradizionali, analizzando la povertà nella sua complessità. Mancanza di accesso all’istruzione, alla sanità, a servizi essenziali, discriminazioni di genere, violazione dei diritti umani sono solo alcune delle dimensioni analizzate

Migrazioni forzate: Il Report analizza il fenomeno delle migrazioni forzate, spesso causate da conflitti, persecuzioni e disastri naturali. Inoltre, si sofferma sulle migrazioni all’interno degli stessi Paesi l20 o nei Paesi confinanti, ricordando che solo il 6% dei migranti dell’Africa sub-sahariana arriva in Europa.

“Il Report 2024 L20/Last20 è uno strumento fondamentale per tutte le ONG che operano nei paesi del Sud del mondo,” sottolinea Ugo Melchionda, segretario dell’Associazione.  “Offre dati, analisi e spunti di riflessione per orientare gli interventi umanitari e di sviluppo, promuovendo un approccio basato sui bisogni reali delle comunità locali.”

Il Report L20 2024 propone soluzioni in vari settori, offrendo alle ONG  un panorama di diverse opportunità di intervento per migliorare l’accesso e la qualità dell’istruzione, promuovere l’uguaglianza di genere, supportare lo sviluppo economico, fornire assistenza nelle crisi umanitarie, proteggere i diritti dei migranti e facilitarne l’integrazione o ridurre i costi di transazione delle rimesse.

L’Associazione Last20 APS invita le ONG a utilizzare liberamente i dati e le analisi dei Report 2022,  2023 e 2024,  per le proprie attività, partecipare agli eventi organizzati dall’Associazione e unirsi alla rete L20 per condividere esperienze, conoscenze e buone pratiche per un mondo più giusto e solidale.

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12 novembre 2024

La Terza Plenaria del Consultative Forum dell’Agenzia per l’Asilo dell’Unione Europea (EUAA)

I membri della società civile sollevano importanti criticità nella tutela dei diritti fondamentali dei soggetti migranti minori e vulnerabili

Di Eleonora Ghizzi Gola

Sullo sfondo di una fase cruciale nell’implementazione del Sistema Comune di Asilo (CEAS) a seguito dell’adozione nel giugno del 2024 da parte della Commissione Europea del nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo, si è svolta il 14 e 15 ottobre 2024 a Malta la Terza Plenaria del Consultative Forum dell’EUAA, l’Agenzia per l’Asilo dell’Unione Europea.

Foto EUAA CF 2024 Malta

L’EUAA assume un ruolo rilevante nell’implementazione del nuovo pacchetto di riforme legislative, avendo un mandato specifico di supporto della Commissione Europea nonché direttamente degli Stati Membri nell’elaborazione dei piani di attuazione nazionali. A cadenza annuale, EUAA è tenuta altresì ad elaborare il piano di attività del Consultative Forum, un organismo consultivo composto attualmente da 118 organizzazioni della società civile con comprovata esperienza nel settore del diritto d’asilo e dell’accoglienza, operanti a livello locale, regionale, nazionale o sovranazionale. Lai-momo è membro attivo del Consultative Forum e dello specifico Gruppo di Consultazione tematico sulle persone in una situazione di vulnerabilità, che conta ad oggi 62 membri.

I lavori della plenaria sono stati aperti dalla Dott.ssa Ana Ciuban dell’Associazione Multietnica dei Mediatori Interculturali – AMMI, attuale Presidente del Consultative Forum, che ha descritto le attività svolte nel corso dell’anno 2024, riportando un resoconto del proprio primo mandato di attività. Le organizzazioni della società civile sono state coinvolte in specifiche consultazioni in riferimento a documenti prodotti dall’agenzia, sono state invitate a partecipare a sessioni informative e incontri tematici previsti dal piano annuale di attività, nel rispetto del mandato di EUAA di mantenere un canale di stretto dialogo con gli enti maggiormente rappresentativi della società civile nell’ottica dello scambio di informazioni e condivisione delle specifiche competenze di cui sono portatori in materia di diritto d’asilo e accoglienza.

Nella prima sessione della plenaria sono intervenuti i referenti delle diverse unità che compongono l’Agenzia, fornendo un aggiornamento rispetto alla situazione dell’asilo in Unione Europea ed illustrando le attuali attività e azioni implementate dall’EUAA. L’Operational Support Centre dell’Agenzia ha lo scopo di supportare operativamente gli Stati Membri affinché il sistema nazionale di asilo e di accoglienza sia conforme alla normativa europea. Attualmente EUAA ha dislocato circa 1,300 unità di personale in 160 sedi all’interno di quegli 11 Stati Membri individuati come maggiormente bisognosi di supporto, tra cui rientra l’Italia. Sono state altresì presentate le più recenti pubblicazioni in materia di Country of Origin Information (COI) e l’Asylum Report 2024, prima di condividere le incrementate attività dell’agenzia nell’attuale e complessa fase preparatoria all’entrata in vigore del nuovo Sistema Comune Europeo per la gestione della migrazione e l’asilo, che avverrà nel giugno del 2026, a distanza di due anni dall’adozione del piano di attuazione comune varato dalla Commissione Europea.

Un affondo specifico è stato effettuato dal Fundamental Rights Officer (FRO), garante della conformità delle azioni dell’Agenzia con i diritti fondamentali delle persone. Figura istituita nel maggio del 2023 e che è tenuta ad operare in stretto raccordo con il Consultative Forum, i cui membri sono chiamati ad essere consultati nella preparazione, adozione e implementazione del piano strategico di EUAA in materia di diritti fondamentali, così come nella revisione del codice di condotta applicabile agli esperti EUAA facenti parte dei team di supporto del diritto d’asilo.

La seconda giornata, in cui si è svolto l’incontro che ha visto coinvolto un gruppo ristretto di membri del Consultative Forum in relazione alle persone in situazioni di vulnerabilità, è stata introdotta da una presentazione a cura della Commissione Europea focalizzata sull’impatto del Regolamento Screening, uno degli strumenti legislativi adottati nell’ambito del Patto Europeo sulla Migrazione e l’Asilo, sui soggetti vulnerabili. Nonostante sia stato sottolineato dalla Commissione Europea come siano previste garanzie procedurali e sostanziali in tutela dei soggetti vulnerabili, la discussione con i membri del Consultative Forum ha sollevato importanti criticità in termini di tutela dei diritti fondamentali dei soggetti migranti, in particolare dei minori stranieri non accompagnati e delle persone portatrici di quelle vulnerabilità più “nascoste”, quali le vittime della tratta degli esseri umani, a causa del ristretto termine previsto dalla normativa per l’individuazione delle condizioni di vulnerabilità. Inoltre, si teme una compressione dei diritti dei/lle cittadini/e dei Paesi Terzi nell’esercizio del diritto di presentare domanda di asilo e del rispetto del principio di non-refoulement.

I lavori si sono conclusi con la votazione del piano dei lavori del Consultative Forum per l’anno 2025, le cui specifiche tematiche saranno definite nel corso delle prossime consultazioni.

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29 ottobre 2024

Bologna, 29 ottobre 2024: Presentazione regionale per l’Emilia-Romagna all’Istituto Aldini Valeriani il Dossier statistico immigrazione Idos/Confronti

L’Emilia-Romagna si conferma la regione italiana con la più alta incidenza di residenti stranieri (12,9%)

“Fino a quando ci accaniremo sulle loro vite difficili, con i capestri normativi e le forche burocratiche di leggi bizantine, complicate da 26 anni di interventi restrittivi che hanno reso loro sempre più proibitivo mantenere (e recuperare) la condizione di regolarità? E che, a forza di stratificarsi, hanno sempre più inclinato il piano di scivolamento nel sommerso? E fino a quando, intenzionalmente tenuti in questo status giuridico incerto, proseguiremo a porgerli, senza diritti e senza tutele, su un piatto d’argento a sfruttatori senza scrupoli, nei campi e nei cantieri, nelle aziende e sui mezzi di trasporto, negli alberghi e perfino, sì, perfino nelle nostre case?”

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Queste le parole dell’introduzione del Dossier Statistico Immigrazione Idos/Confronti, la cui presentazione regionale per l’Emilia-Romagna si è tenuta questa mattina all’Istituto Aldini Valeriani di Bologna, in contemporanea con le presentazioni in tutte le regioni e provincie autonome d’Italia. Tra il pubblico, due classi di studenti del quinto anno di questa scuola storicamente inserita nel tessuto sociale e produttivo di Bologna. Dopo i saluti istituzionali del preside Pasquale Santucci e di Claudia Garbuglia della Diaconia Valdese, sono stati presentati i dati nazionali, i dati regionali e i dati del Sistema Accoglienza Integrazione del Comune di Bologna, a cura di ASP-Città di Bologna.

La referente intercultura della scuola Sara Pisani ha raccontato i progetti interculturali svolti all’IAV, ed è stato presentato da Michelle Rivera lo Sportello Antidiscriminazioni del Comune di Bologna.
Infine Isabella Pavolucci e Carmela Lavinia, rappresentanti dei sindacati CGIL e CISL per l’area bolognese, che supportano il dossier, hanno rivolto un saluto di chiusura al pubblico trattando del forte legame tra la presenza migrante e il mondo del lavoro territoriale.

PHOTO-2024-10-29-14-15-26Dati regionali
Come avviene per tutte le regioni d’Italia, anche per l’E.R. il Capitolo regionale del Dossier è redatto da una redazione regionale di ricercator* volontar*, di cui fanno parte Andrea Facchini (Regione E.R.), Valerio Vanelli (Unibo), Pietro Pinto (Comitato scientifico IDOS) e Sandra Federici (Africa e Mediterraneo), che hanno condotto la presentazione.

Al 1° gennaio 2024 i cittadini stranieri residenti in Emilia-Romagna sono 575.476 (12,9% della popolazione complessiva), in incremento di oltre 6.600 persone rispetto all’anno precedente dopo la leggera flessione del 2023 e la marcata crescita post-pandemia registrata nel 2022. Anche a livello nazionale c’è stato un leggero aumento di presenze, arrivando a oltre 5,3 milioni (9,0%).
L’Emilia-Romagna è da diversi anni la regione italiana con la più alta incidenza, seguita dalla Lombardia (12,1%). Se si considerano i soli cittadini di paesi non Ue, l’incidenza sul totale della popolazione residente in Emilia-Romagna risulta pari al 10,0%.
In regione, l’incidenza più alta si ha nelle province di Parma (15,4%), Piacenza (15,3%) e poi Modena (13,7%).
Si conferma la prevalenza di donne tra le persone straniere residenti in Emilia-Romagna sin dal 2009 (in Italia dal 2008). Al 1° gennaio 2024 sono il 52,1% del totale dei residenti stranieri in regione (in Italia 50,5%; nel comune di Bologna il 52,9%).
L’età anagrafica delle persone straniere è decisamente più giovane di quella delle italiane: se per gli Italiani è di oltre 48 anni; per gli stranieri è 36,7 anni. Tuttavia, anche tra i/le cittadini/e stranieri/e aumenta soprattutto la popolazione adulta e anziana: fra i/le stranieri/e residenti, quelli/e di almeno 50 anni nel 2008 erano l’11%, oggi sono quasi il 25%; quelli/e di meno di 35 anni erano il 57,6%, oggi sono il 44,9%.
I/le minori stranieri/e residenti in Emilia-Romagna sono circa 113.551, corrispondendo a quasi un quinto (19,7%) del totale degli stranieri, così come in Italia, e al 17,0% del totale dei minori residenti in Emilia-Romagna (i valori sono leggermente più bassi per Bologna).
I bambini e le bambine stranieri/e nati/e nel 2023 in Emilia-Romagna sono stati 6.089, pari al 21,3% del totale dei nati nell’anno (in Italia sono il 13,3%). In venti anni, in Emilia-Romagna il numero di bambini stranieri nati è aumentato del 58,8%, mentre i nati italiani sono diminuiti del 29% circa.
Fra i cittadini stranieri residenti in Emilia-Romagna il 17% circa è nato in Italia. Se si considerano i soli minorenni, circa tre quarti sono nati in Italia, e in particolare lo è la quasi totalità dei residenti con meno di 6 anni, circa l’80% di quelli con 6-10 anni, circa il 70% degli 11-13enni.
Le acquisizioni di cittadinanza italiana, dopo una flessione 2017-2019, hanno avuto un nuovo incremento fino al 2022.

PHOTO-2024-10-29-14-17-14I primi quattro Paesi di cittadinanza dei residenti stranieri in Emilia-Romagna sono: Romania (17,3%), Marocco (10,1%), Albania (10,0%), Ucraina (6,7%). In Italia sono Romania (21,0%), Albania (8,1%), Marocco (8,1%), Cina (6,0%). Per quanto riguarda l’area metropolitana di Bologna, i comuni con la maggiore presenza straniera sono: Galliera (18,6), Crevalcore e Vergato (16,6), Bologna (15,7), Baricella (15,4), San Pietro in Casale (14,9), Monterenzio (13,6), Castel del Rio (13,4), Casalfiumanese (13,3), Castiglione dei Pepoli (13,0).
Il fenomeno migratorio è oggetto di costanti approfondimenti da parte dell’Osservatorio regionale della Regione Emilia-Romagna, si segnala in particolare un recente Focus su Salute e servizi sanitari dal quale emerge un quadro importante di ricorso ai servizi sanitari ma con possibili ulteriori elementi di miglioramento in termini di equità e utilizzo appropriato dei servizi.

Nota di sintesi dei dati SAI-Bolognacares!
Il progetto SAI cura dal 2015 la raccolta di dati relativi al sistema di accoglienza dell’area metropolitana rendendo disponibili infografiche aggiornate e informazioni relative al progetto nel sito dedicato www.bolognacares.it. Alla sezione REPORT/DATI presenta infografiche mensili dettagliate per comuni, distretti e i quartieri di Bologna relative alla Dimensione territoriale dell’accoglienza e infografiche annuali in merito alle Caratteristiche delle persone accolte https://www.bolognacares.it/dati/.
I dati pubblicati nel sito, grazie alla collaborazione della Prefettura di Bologna, comprendono nella dimensione territoriale quantitativa anche i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) in capo alla Prefettura di Bologna.
Attualmente il sistema CAS e SAI conta complessivamente 3597 posti in 415 strutture, con una media rispettivamente di posti per struttura per i CAS di 25 posti e per i SAI di 6 posti.
Il progetto SAI (Sistema Accoglienza Integrazione) è realizzato nell’Area Metropolitana di Bologna dal comune di Bologna, titolare del progetto, con l’adesione di 41 comuni del territorio metropolitano e nel Circondario Imolese con un progetto specifico. Il progetto, a titolarità del Comune di Bologna è realizzato in co-progettazione e in convenzione con 9 enti del Terzo Settore capofila che coinvolgono complessivamente 15 enti attivi nel territorio con tre categorie specialistiche di accoglienza: Ordinari, Persone con disagio sanitario e/o mentale (DS/DM), minori stranieri non accompagnati (MSNA).
Si tratta di un sistema di accoglienza diffusa (distribuita nel territorio in abitazioni di piccole dimensioni) che nel 2015 contava 294 posti ed oggi 2076. È un sistema strutturato con servizi specialistici: accoglienza, accompagnamento legale, alla formazione (linguistica e professionale) e al lavoro, mediazione linguistico-culturale, attività di comunicazione rivolte alla cittadinanza, iniziative volte a promuovere le autonomie e le relazioni con le comunità. Ha come obiettivo principale la (ri)conquista dell’autonomia individuale delle persone accolte, intesa come una loro effettiva emancipazione dal bisogno di ricevere assistenza.

PHOTO-2024-10-29-14-17-14 2L’accoglienza SAI nell’Area Metropolitana di Bologna è realizzata in 340 strutture, che si sostanziano in appartamenti in condomini o in abitazioni multifamiliari.
La maggioranza delle strutture si trova a Bologna città con 1202 posti in 189 strutture. Seguono i dati degli altri distretti: 250 posti nel distretto Pianura Est, 229 nel distretto San Lazzaro di Savena, 224 nel distretto Reno Lavino Samoggia, 125 nel distretto Appennino Bolognese e 46 nel distretto Pianura Ovest. A queste si aggiungono 114 posti in 19 strutture del progetto del Circondario Imolese.
Il SAI a titolarità Comune di Bologna ha accolto nel 2023 per la categoria Ordinari 1690 persone, per la categoria DS/DM 136, e per la categoria MSNA 858 minori. Nel 2023, per gli adulti e le persone in nucleo famigliare, le nazionalità di provenienza sono 55: la maggiormente rappresentata è la Nigeria (344 persone), seguita dall’Ucraina (330), il Pakistan (140), l’Afghanistan (111), la Somalia (94) e la Tunisia (91).
Oltre il 57% delle persone accolte nelle categorie Ordinari e DS/DM è in nucleo famigliare o monoparentale, complessivamente il 67,5% delle persone accolte ha meno di 30 anni.
Per i MSNA, la nazionalità maggiormente rappresentata nel 2023 è la Tunisia (348 persone), seguita dall’Albania (151 persone) e dall’Egitto (127 persone).

Info: s.federici@africaemediterraneo.it
Tel. 349 2224101
www.africaemediterraneo.it

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09 ottobre 2024

Il 3 ottobre 2024 a Lampedusa: ricordare le vittime, raccontare il coraggio di chi non si è girato dall’altra parte

Lampedusa si è riempita anche quest’anno di studenti e studentesse provenienti da diverse regioni d’Italia, per ricordare il naufragio del 2013 in cui morirono 368 persone.

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Il programma messo in campo dall’associazione Comitato 3 ottobre è stato particolarmente ricco, con diversi incontri, concerti, un commovente spettacolo teatrale con Yong Di Wang, attore di origine cinese non vedente e Amadou Diouf un giovane senegalese sordo arrivato solo un anno prima a Lampedusa (a cura di Raizes teatro di Alessandro Ienzi) e un musical realizzato dagli studenti del Liceo coreutico-musicale di Pesaro, ispirato al libro di Enaiatollah Akbari e Fabio Geda, “Nel mare ci sono i coccodrilli”, che narra il drammatico percorso migratorio di un bambino afghano fuggito al regime dei Talebani.
Gli spettacoli e gli incontri si sono tenuti nella centrale via Roma, accanto al museo archeologico, e sono stati sempre molto partecipati.

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Quest’anno è stato organizzato dall’amministrazione comunale anche un cartellone parallelo che ha voluto colmare una certa frattura tra le celebrazioni ufficiali, che coinvolgono soprattutto personalità politiche e del mondo associativo nazionale e internazionale, e la cittadinanza di Lampedusa, che le percepisce a volte come un “festival arrivato dall’esterno”. Il 2 ottobre le realtà culturali e sociali dell’Isola coinvolte hanno aperto le loro porte in piccole iniziative di dialogo e racconto, e il 3 si è proseguito con alcuni momenti molto intensi. Innanzitutto, la veglia silenziosa con i sopravvissuti e i parenti alle 3:20 del mattino, ora in cui la grande barca colma di 500 persone si ribaltò 11 anni fa.

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Questo commovente incontro si svolge dal 2019 ogni anno attorno al memoriale con i nomi delle persone morte realizzato da Vito Fiorino, il “pescatore” che con 7 amici e amiche dette l’allarme e quella notte salvò sulla sua piccola barca 47 persone. Alle 18 si è svolta una cerimonia interreligiosa in chiesa e alle 19 l’inaugurazione del Giardino dei Giusti, realizzato dall’amministrazione grazie a un progetto FAMI, e patrocinato da Fondazione Gariwo.

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I primi Giusti di Lampedusa riconosciuti dai grandi ulivi, piantati in un’area riqualificata accanto al Museo Archeologico delle Pelagie affacciata sul Porto Nuovo, sono I pescatori di Lampedusa, rappresentanti di una comunità che nel corso degli anni ha salvato centinaia di vite in mare, e Alexander Langer, politico e attivista che ha dedicato la sua vita alla pace e al dialogo tra culture. “Questi pescatori, soccorrendo delle persone in mare, non hanno solo salvato delle vite umane, hanno scosso le coscienze dell’Europa. E questo Giardino dei Giusti a loro dedicato vuole insegnare che tutti siamo chiamati a prenderci delle responsabilità”, ha detto Gabriele Nissim, presidente della Fondazione Gariwo. Oltre a Vito Fiorino sono intervenuti i pescatori Pietro Riso (“È un istinto naturale che mettiamo in campo, perché, noi diciamo che in mare non ci sono taverne, bisogna far salire chiunque sia in difficoltà. Ma questo è un fenomeno che perdura dagli anni 90.”) ed Enzo Partinico (“un giorno del del 2021, erano le 5 di mattina e si è avvicinata una barchetta. In quel momento, la prima cosa a cui si pensa è solo di salvarle, e come fare a mettere queste persone sulla barca, ma è difficilissimo… li guardavo negli occhi e pensavo al loro padre e alla loro madre… c’era uno che contava le persone: erano 24”) e Alexander, un giovane eritreo salvato la notte del 2013 che ora vive in Olanda.

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La serata è proseguita con il musical “Sotto lo stesso cielo”, interpretato da studentesse e studenti della Compagnia del Kintsugi del Liceo di Pesaro, ispirato alla vicenda del naufragio come raccontata dai superstiti e dal gruppo di 8 persone che dettero l’allarme e quella notte salvarono sulla loro piccola barca 47 persone. Al termine si è svolta la proiezione del documentario “A Nord di Lampedusa”, diretto da Davide Demichelis e Alessandro Rocca, che sono andati a vedere come vivono alcune persone sopravvissute al naufragio del 3 ottobre nelle loro vite attuali in Olanda, Svezia e Norvegia, e come non si è mai interrotto il rapporto con i pescatori che li hanno salvati, tra questi Vito Fiorino.

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Queste iniziative hanno forse riallacciato un legame e coinvolto le persone che nell’isola vivono, e che hanno vissuto in ottobre 2013 un trauma terribile che non è ancora passato, e dato spazio alla voce di questo piccolo territorio che all’estremo sud dell’Italia continua a essere il luogo di approdo di centinaia di persone. In questi giorni, tra l’altro, non sono mancati approdi e salvataggi di barche di migranti, e il 3 ottobre nell’hotspot di contrada Imbriacola, nonostante i continui trasferimenti, erano accolte 732 persone.

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03 ottobre 2024

La migrazione forzata da un film a un fumetto

Il 3 ottobre si celebra l’anniversario del naufragio di Lampedusa del 2013, in cui persero la vita 368 persone, ma sono tante le persone che perdono la vita nelle rotte migratorie irregolari, mentre altre si salvano dopo viaggi rischiosissimi. Come quello raccontato nel film “Io Capitano”, di Matteo Garrone.

Le scene cruciali del film sono state rappresentate uno studente e una studentessa del Liceo Fermi di Bologna in un fumetto. Davide Colombo e Sara Sondo hanno realizzato la storia nell’ambito del progetto “Migrazioni”, curato dalla professoressa Barbara Conserva per la classe 3L del Liceo Scientifico “E. Fermi” di  Bologna nell’AS 2023/2024. 

La classe ha assistito alla proiezione del film “Io capitano” e incontrato alcuni testimoni: Mohamed Sacko, operatore sociale, e Thierno Mamadou Bah, operatore socio sanitario, entrambi originari della Guinea Conakry, con la moderazione di Daro Sacko, componente del Diversity Team e del Progetto SPAD del Comune di Bologna. 

La classe ha poi partecipato a un laboratorio sulle migrazioni “Niente da dichiarare. Geografia e storia di migrazioni”, coordinato dall’Istituto storico Parri Bologna Metropolitana, durante il quale ha realizzato alcuni prodotti multimediali di comunicazione, tra cui un video.

Leggi subito il fumetto qui

 

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23 agosto 2024

Samwel Japhet, dall’infanzia nelle strade della Tanzania alla danza

«A 6-7 anni ho lasciato la mia casa e ho vissuto come bambino di strada in Tanzania per 10 anni. Dico ‘in Tanzania’ perché non sono stato in un solo luogo, ho girato in varie città

Samwel Japhet è un giovane performer tanzano che sta velocemente costruendo una carriera a livello nazionale e internazionale, ma ha iniziato da una condizione estremamente svantaggiata. Un’infanzia e un’adolescenza durissime e pericolose, che lui ha saputo trasformare nell’esperienza fondamentale per il nutrimento della sua ispirazione. L’ho incontrato a Dar es Salaam.

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Samwel Japhet, 2024

S.F. Perché hai lasciato la tua famiglia?
S.J. Sono fuggito perché venivo picchiato molto. E così sono finito in strada, a vivere con altri bambini, era pericoloso e difficile ma mi sentivo comunque meglio lì che nella situazione di abuso che c’era a casa. Dopo essermi spostato in vari luoghi, nel 2009 sono arrivato a Dar es Salaam e nel 2010 ho incontrato Makini, un’organizzazione non profit che aiutava i bambini di strada: ci raccoglievano, ci facevano giocare, nuotare e ci offrivano anche una terapia per superare i traumi della vita in strada. Dopo un po’ hanno cominciato a portarci in vari spazi pubblici, tra cui centri culturali e artistici, così ci hanno introdotto all’arte, di cui noi non sapevamo niente. Hanno organizzato formazioni nell’arte performativa: workshop di teatro, musica, danza, e abbiamo fatto performances comunitarie.

 S.F. In quel periodo dove vivevi?
S.J. Sempre in strada. Loro ci insegnavano a vivere insieme e ad aiutarci a vicenda mentre vivevamo nelle strade. Makini era uno spazio per riflettere e metterci in una relazione migliore tra noi. Era una vita folle, quella in strada, ma è stata anche l’inizio della mia carriera artistica e continua a influenzare anche oggi il mio lavoro. Quel periodo ha formato le mie aspirazioni e prospettive, ho imparato che la vita, anche se fragile, è un viaggio in costante evoluzione in cui abbiamo il potere di formare nuove realità nonostante le difficoltà che affrontiamo, personalmente e nella società. E io ho deciso di farlo attraverso l’arte.

Nel 2013 ho fatto un’audizione per entrare nel programma triennale della MUDA Africa Dance School in Tanzania e sono stato ammesso. Sono stato formato professionalmente dal 2014 al 2016 e mi sono diplomato. In questo periodo ho avuto il privilegio di collaborare con artisti internazionali, tra cui Nora Chipaumire, una coreografa e performer nata in Zimbabwe e basata a Brooklyn, che ha sfidato gli stereotipi dell’Africa, del corpo nero danzante, e mi ha introdotto a un nuovo modo di pensare, a scoprire la mia voce artistica personale, a definire un mio primo manifesto artistico. È stato un momento fondamentale, che mi ha indicato una prospettiva e acceso una grande ambizione dentro di me a perseguire una carriera come danzatore e coreografo. E mentre entravo più profondamente nel mondo della danza, diventavo più curioso su quanto si poteva fare con la danza e le varie forme artistiche, allargando i miei interessi.
Intanto, nel 2015, con Tadhi Alawi ho co-fondato una compagnia di danza, Nantea, che ora è la mia compagnia.

S.F. Qual è la vostra attività come gruppo?
S.J. Facciamo progetti comunitari, collaborazioni interculturali, produzioni, tournée. Abbiamo prodotto lo spettacolo “YIN-YANG“, che stiamo portando in tour fuori dalla Tanzania.
Usiamo la danza come un’espressione artistica per raccontare storie, riflettere su temi sociali e sull’esperienza umana, sul nostro tempo e sulla politica. I temi che esploriamo sono gli squilibri sociali, la dignità, il conflitto, memoria e uguaglianza, creando spazi in cui il pubblico può riflettere e immaginare futuri alternativi. Vogliamo sviluppare la scena della danza tanzaniana e ispirare i giovani a diventare ambasciatori di crescita e cambiamento sociale, realizzare un lavoro di alta qualità e costruire una cultura in cui l’arte abbia un valore proprio.

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Samwel Japhet (secondo da destra) con altri bambini di strada

S.F. Quanti anni hai?
S.J. Non lo so! (sorride) Penso di avere 25-26-27 anni.

S.F. Hai ripreso i contatti con la tua famiglia? Sanno del tuo percorso?
S.J. Non vedo ragioni per ricreare una relazione. Loro non hanno nessuna idea della mia vita di adesso. Quando stavo in strada, cambiavo sempre nome per non essere ritrovato, anche se non credo che mi cercassero. Comunque non avevo documenti, e mi sono creato un nome e un cognome scelti da me. Poi ho avuto i documenti.

S.F. Hai fratelli, sorelle?
S.J. Ricordo che avevo una sorella, ma lei stava spesso via con mia madre. Mia madre era spesso in viaggio, credo per lavoro, e se la portava con sé. Comunque ricordo bene di non avere avuto una stretta relazione con mia madre.

Samwel Japhet in the streets. 2

Samwel Japhet con altri bambini di strada

S.F. Riesci a vivere autonomamente?

S.J. Sì, vivo con l’arte, la danza, l’organizzazione di performance. Con la compagnia Nantea, io e Tadhi facciamo progetti, ed è il nostro lavoro. Siamo stati in vari festival e teatri nei Paesi Bassi, Corea del Sud, Israele, Sudafrica, Germania, Mozambico, Portogallo, Etiopia. Ad esempio nel 2022 abbiamo voluto invitare artisti da altri paesi africani e dall’Europa per lavorare insieme, e abbiamo fatto un progetto finanziato dall’Unione europea, per due anni. Si intitolava UMOJA Residency e abbiamo riunito nove artisti e artiste di varie discipline da Francia, Kenya, Lettonia, Repubblica Democratica del Congo, Estonia, Spagna e Tanzania per una residenza di cinque settimane a Dar es Salaam. Io ero co-manager del progetto.

S.F. È stato complicato con la burocrazia europea?
S.J. Un po’ difficile, sì, soprattutto perché non ho una educazione.

S.F. Sei andato a scuola? Come hai fatto a imparare a leggere e a scrivere? E l’inglese?
S.J. Quando ho lasciato la mia casa avevo già un’idea di come scrivere in swahili, ho ricordi di essere andato a scuola. Partendo da questa base, e stando in strada, leggevo qua e là e insomma in qualche modo ho imparato. Così per l’inglese. Anzi, mi piace scrivere, preferisco scrivere che parlare.

S.F. Parlami del lavoro con la tua compagnia di danza.
S.J. Con Nantea abbiamo iniziato a fare spettacoli nel 2016, la prima performance è stata in Rwanda. Organizziamo una serata biennale di danza contemporanea, con spettacoli di danza tanzaniani e dell’Africa orientale. La compagnia gestisce anche “Nje Ndani”, un progetto di sensibilizzazione attraverso la danza strutturato per accrescere conoscenze e competenze di danzatori emergenti tanzani attraverso workshops, seminari, e dialoghi aperti sull’espressione artistica e l’impresa creativa. Ora l’abbiamo estesa invitando produttori da Uganda, Congo, Zimbabwe, e poi dalla Germania.

S.F. Hai detto che attraverso la danza vuoi narrare storie. Come lo fai?
S.J. La nostra danza non è solo espressione artistica, ma anche riflessione su questioni sociali, sull’esperienza umana e lo facciamo usando testo, musica, movimento, linguaggio verbale, costumi… Combiniamo tutte queste cose, e così narriamo la storia. Di solito collaboriamo con altre persone, con designer dei costumi e musicisti che registrano musiche apposta per gli spettacoli.
Normalmente dopo ogni performance dialogo con il pubblico, non con domande e risposte, ma in una sessione di riflessione, per far loro esprimere come hanno vissuto la performance, come si sono sentiti.

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Nantea Dance Company, 2021, ph Jimmy Mathias

S.F. Avete avuto problemi con la censura?
S.J. Sì, perché in Tanzania non è permesso stare sul palcoscenico con il corpo praticamente nudo. Ci hanno detto che andavamo contro la cultura tanzaniana. Bisogna essere molto attenti.

S.F. Dovete praticare un’auto-censura.
S.J. Sì, è proprio così, ci auto censuriamo!

S.F. Quindi come artista devi affrontare molte sfide?
S.J. Sì, certo, la precarietà del mondo dell’arte, le limitazioni alla libertà di espressione, i sistemi discriminatori, il problema dei visti e l’instabilità finanziaria hanno avuto un impatto sul mio percorso. In Tanzania, ad esempio, impegnarsi in attività artistiche richiede la registrazione presso il National Arts Council (BASATA), che comporta quote iniziali e annuali, oltre ai costi per i viaggi internazionali correlati all’arte. Questo ostacolo burocratico aggiunge complessità al già difficile processo di espressione artistica in Tanzania. Quando noi artisti usciamo dalla Tanzania dobbiamo avere un permesso di viaggio che costa 15 euro. Può sembrare niente, ma so di molti che non hanno potuto viaggiare perché non avevano il denaro. E poi, perché questa tassa solo per gli artisti? E a volte ci sono stati gruppi che hanno perso il lavoro per questioni burocratiche.

S.F. E ovviamente la mancanza di libertà espressiva.
S.J. Sì, ma noi crediamo comunque di poter fare attivismo attraverso l’arte: denunciare, fare riflettere su problemi come le limitazioni nella società, o il razzismo. Ad esempio, il mio collega Tadhi ha avuto l’esperienza a Zanzibar di essere fermato al suo arrivo dalla polizia, perché era con la moglie tedesca, bianca. La nostra performance “YIN-YANG” parla anche di questo, è nata dalla sua esperienza personale di aver subito razzismo interno (cioè discriminazione tra persone che condividono la stessa cultura), di cui nessuno parla. A lui è successo tante volte a Zanzibar, un luogo rinomato per la sua bellezza ma dove lui non si è mai sentito a casa perché, ogni volta che ha visitato l’isola con amici bianchi, ha sempre assistito a privilegi razziali. È stato fermato tante volte dalla polizia e interrogato su perché “andava in giro con persone bianche senza permesso”, mentre la polizia non ha mai chiesto ai suoi amici bianchi perché andavano in giro con lui. Questa esperienza mostra che il doppio standard basato sulla razza è ancora profondamente radicato nelle strutture della società, anche tra persone che condividono lo stesso background. Questo fastidioso doppio standard ha fatto riflettere Tadhi sul suo senso di appartenenza e sulla libertà nel suo stesso paese e ha cominciato a discuterne, e sono uscite diverse testimonianze di persone che avevano avuto la stessa esperienza. Queste conversazioni e questa esperienza sono state le basi per la creazione della performance “YIN-YANG”.

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Nantea Dance Company, 2021, ph Jimmy Mathias

S.F. Un argomento di chi è favorevole alla censura è che serve a proteggere la cultura originaria del paese da influenze che vengono dall’esterno.
S.J. Io penso che anche prima che le persone facessero campagne per i diritti esistevano in Tanzania determinati orientamenti. Però bisogna seguire delle regole: il National Council ha prodotto un vademecum con una check list sulle cose da controllare prima di proporre un’opera. Io comunque voglio continuare a raccontare storie: sono consapevole di avere avuto una grande fortuna, mentre ci sono tante persone come me che non possono raccontare le loro storie.

Samwel Japhet ha vinto nel 2021 il Seed Award del Prince Claus Fund for Culture and Development in Olanda. Ha ottenuto una borsa di studio per essere formato, nel 2024-2026, nel Laboratory for Global Performance and Politics della Georgetown University, Washington D.C. Comincerà in settembre le lezioni online e in giugno 2025 sarà in Umbria per la prima sessione in presenza presso laMaMa Umbria International.

Mentre mi racconta di come ha vissuto da bambino, di come ha imparato l’inglese in strada, di come si è costruito una carriera artistica, mi colpisce la sua pacatezza, la concretezza e persino auto-ironia del suo discorso e, devo dirlo, un’impressione di totale equilibrio psicologico. Non dà l’idea di essere una persona che nasconde una sofferenza interiore, ma piuttosto di essere molto capace e attivo nel perseguire il suo lavoro culturale e nel tessere relazioni. Poche ore dopo il nostro incontro mi aveva già mandato una e-mail con il curriculum, un suo statement e alcune foto. Insomma, è sicuramente un giovane artista con risorse umane e caratteriali fuori dal comune, che ha saputo permettere alle relazioni, alle occasioni fortunate e all’arte di curare i suoi traumi.

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08 agosto 2024

Zanzibar International Film Festival: un punto d’incontro per il cinema africano

Lo staff del cortometraggio Mirah (Egitto) sul red carpet

Lo staff del cortometraggio Mirah (Egitto) sul red carpet

Organizzare la 27a edizione dello Zanzibar International Film Festival è stata una sfida. Una delle più importanti manifestazioni culturali del continente africano, che si svolge nell’affascinante Stone Town, l’antica città dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, non ha alla base un’organizzazione strutturata e finanziamenti stabili da parte delle istituzioni locali e internazionali, e il recente cambio nella direzione ha rischiato di metterla in crisi.

Nel 2023 il fondatore, direttore e punto di riferimento del festival, il regista zanzibarino Martin Mhando, ha insistito per lasciare l’incarico che aveva ricoperto per 25 anni, portando lo ZIFF a diventare un punto di riferimento per chi è interessato/a a seguire la produzione cinematografica, in particolare dell’Africa orientale. Per succedergli era stato nominato Amil Shivji, un giovane regista tanzaniano vincitore di una precedente edizione con il film Vuta N’Kuvute, incentrato sulla colonizzazione a Zanzibar. Dopo aver preso in mano l’attività di programmazione con grande energia, a dicembre 2023 Shivji ha declinato l’incarico, senza dare spiegazioni. I rumors ipotizzano (e non è difficile crederlo) un contrasto con il board del Festival, composto da anziane personalità di Zanzibar, la cui influenza continua ad avere molto ascolto. Sono stati quindi nominati in tutta fretta due operatori con una lunga esperienza nello staff del festival: Joseph Mwale, già promotore marketing da 15 anni, come CEO, e Hatibu Madudu come direttore artistico. Era febbraio, il tempo per organizzare era pochissimo e così il festival è stato spostato dall’usuale mese di giugno a inizio agosto, e ridotto a quattro giorni.

Grazie al più grande numero di candidature (3.000) mai ricevute, il festival ha presentato 25 film, 23 corti e 12 documentari da diversi paesi: Tanzania, Kenya, Zambia, Nigeria, Pakistan, India, Francia, Ghana, Senegal, Uganda, Egitto, Sud Sudan, Canada, Iran, Russia, USA, Cina, Sudan, Palestina, Brasile, Marocco, Stati Uniti, Tunisia.

Allo ZIFF la visione dei film è aperta al pubblico e gratuita, la sede principale delle proiezioni è l’Old Fort, costruito dagli Arabi nel XVIII secolo. Non sempre l’organizzazione è adeguata e, a parte il sito web fermo al 2023, ci si può ritrovare con un film in arabo senza i sottotitoli o una proiezione che si interrompe improvvisamente. Ma poi succede che il pubblico resta seduto e aspetta che lo staff faccia ripartire il film, mentre il produttore del film invece di arrabbiarsi si alza e dice: “Avete pazienza di aspettare? Vi racconto il pezzo che è saltato e riprendiamo, va bene per voi?” E la gente resta…

ZIFF: Proiezione nello spazio tenda dell'Old Fort a cui ha assistito anche una classe di scuola primaria

ZIFF: Proiezione nello spazio tenda dell’Old Fort a cui ha assistito anche una classe di scuola primaria

Così è successo con Mungai Kiroga, produttore del documentario Searching for Amani di Nicole Gormley e Debra Aroko, dove Simon Ali, un ragazzo keniano di 13 anni aspirante giornalista, indaga sull’uccisione, avvenuta nel 2019, di suo padre, guardia forestale nell’area protetta privata di Laikipia in Kenya. Sullo sfondo i contrasti tra gli allevatori nomadi, sempre più in cerca di terra per le loro mandrie decimate dalla siccità, e gli agricoltori, che vogliono proteggere le terre che coltivano stanzialmente. Lo sguardo di Simon, e del suo migliore amico appartenente a una famiglia di allevatori messa in grave crisi dalla siccità, offre una rappresentazione estremamente poetica oltre che critica su chi sono le vittime della crisi climatica, sulla conservazione della natura e sulla giustizia per le comunità. Kiroga ha spiegato che il progetto originario prevedeva di dare la telecamera a tre giovani di tre aree del mondo colpite dal cambiamento climatico, ma il Covid ha fatto sì che solo con Simon sia stato possibile. In più, i produttori hanno capito che il suo carattere sensibile e forte allo stesso tempo e il suo entusiasmo per la professione giornalistica sarebbero stati sufficienti a nutrire l’intero film, che infatti ha già vinto vari premi, tra cui il Best New Documentary Director al Tribeca film festival. ZIFF_Old_Fort

Venendo ai premi dello ZIFF 2024, annunciati la sera del 4 agosto, Nisha Khalema, regista esordiente ugandese, ha vinto il premio del Migliore Film dell’Africa Orientale con Makula (Certainly not a Mrs), storia drammatica di una ragazza che dopo il suo matrimonio “da sogno” si trova imprigionata in una drammatica situazione di violenza e sfruttamento, da cui deve fuggire. Khalema, che ha vinto anche il premio come Migliore Attrice dell’Africa Orientale, la sera della premiazione ha affascinato il pubblico con una mise scintillante e discorsi frizzanti e ironici sul fatto che essere premiata come giovane donna ha un valore in più.

Khalema era tra le partecipanti alla masterclass tenuta da Rama Thiaw, regista, produttrice e scrittrice mauritano-senegalese, autrice dei film documentari ambientati in Senegal Boul Fallé. La voie de la lutte (2009) e The Revolution won’t be Televised. Thiaw ha introdotto la sessione formativa – partecipata da una trentina di filmaker provenienti da paesi dell’Africa orientale e finanziata dalla Unione Europea Thiaw si è concentrata sugli aspetti legali della produzione dei film, a partire dal momento dell’ideazione: come registrare l’idea, come negoziare per proteggere la propria parte del diritto d’autore, importante soprattutto per chi agisce in paesi in cui la debolezza dell’industria cinematografica obbliga alla co-produzione con enti del Nord. Con i/le partecipanti ha analizzato un vero e proprio contratto di co-produzione, articolo per articolo, suscitando molto interesse.

La regista Rama Thiaw (con l’abito arancione) con il gruppo che ha seguito la sua masterclass. Alla sua destra, Nisha Khalema, regista e attrice ugandese, che la sera dopo ha avuto il premio del Migliore Film dell’Africa Orientale e come Migliore Attrice con il suo film d’esordio "Makula (Certainly not a Mrs)"

La regista Rama Thiaw (con l’abito arancione) con il gruppo che ha seguito la sua masterclass. Alla sua destra, Nisha Khalema, regista e attrice ugandese, che la sera dopo ha avuto il premio del Migliore Film dell’Africa Orientale e come Migliore Attrice con il suo film d’esordio “Makula (Certainly not a Mrs)”

Il film vincitore come Best Feature Film è stato Goodbye Giulia, di Mohamed Kordofani, film di apertura del programma. Ambientato in Sudan nel periodo precedente alla secessione del Sud Sudan con il referendum (2011), caratterizzato da violenze tra musulmani del nord e cristiani originari del sud, narra la storia del rapporto tra una ex cantante (del nord) e la giovane vedova di un uomo del sud di cui lei ha causato la morte. Per rimediare al senso di colpa la donna assume la ragazza come domestica, facendo vivere lei e il figlio nella sua casa. Sullo sfondo delle tensioni tra le due popolazioni e della propaganda politica che hanno preceduto il referendum, si evolve il rapporto tra le due donne, mettendo in discussione i punti di vista dell’una e dell’altra: la complessità dei due caratteri si rivela poco a poco e coinvolge grazie a una sceneggiatura perfetta.

La scelta di premiare questo film, annunciata per ultima, ha reso felici le poche persone che avevano resistito fino alla fine della cerimonia di premiazione, iniziata con un ritardo di un’ora e mezza per aspettare il Guest of Honor, l’ex presidente di Zanzibar, e sviluppatasi con discorsi “delle autorità” in swahili abbastanza noiosi (fortunatamente alternati a musica e premiazioni con gli artisti e le artiste protagoniste). Nella cerimonia di apertura il CEO Joseph Mwale aveva ammesso che “la crisi dello ZIFF serve come allarme per tutti noi. Di questo passo, rischiamo di perdere ciò che ci è caro”, e aveva esortato tutti a sentire il festival come proprio, a collaborare per assicurare che esso non solo sopravviva, ma prosperi, continuando a ispirare le generazioni future.Arena_Ziff

Perché questo avvenga, sarà necessario che, oltre alla messa in campo di un sistema organizzativo stabile, efficiente e attento agli impatti, si realizzi davvero il tema che era stato scelto per questa edizione: la “rejuvenation”. Un ringiovanimento che la componente anziana dell’organizzazione dovrà accettare.

Altri riconoscimenti sono andati a Our land, our freedom (Kenya, diretto da Zippy Kimundu e Meena Nanji) come Miglior Documentario, Oceanmania/Baharimania (Tanzania, diretto da Alphonce Haule e Gwamaka Mwabuka) come Migliore Cortometraggio, Otis Janam in Nick Kwach (Kenya) come Migliore Attore dell’Africa Orientale, Uhuru Wangu (Zanzibar, diretto da Mohammed Sule) Premio Fondazione Emerson, Unabankable (Canada, diretto da Luke Willms) come Migliore Documentario selezionato dal Board del festival. È stata premiata anche, come Migliore Serie TV dell’Est Africa, Arday Somalia di Shukri Abdukadir.

Segnaliamo anche il cortometraggio Mirah, di Ahmed Samir (Egitto), storia di una giovane biologa egiziana che in Germania fatica a farsi accettare. Su richiesta della censura, ben presente in Tanzania, per la proiezione ufficiale il regista ha dovuto tagliare alcune scene che potevano alludere a tematiche “sensibili”, ma in seguito è stato possibile ri-proiettarlo nella versione completa. Anche la proiezione del video WonDarLand, non nel programma ufficiale, non era scontata, essendo il frutto di workshop tenuti a Dar es Salaam dal danzatore francese Matthieu Nieto sul tema della sofferenza psicologica dovuta all’esclusione e dell’accettazione di sé da parte degli adolescenti.

“A festival it about a place, about audience, but it is also more about context”, ha scritto l’ex direttore Martin Mhando nell’introduzione al catalogo dell’edizione del 2022. Niente di più adatto allo Zanzibar International Film Festival.

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05 agosto 2024

Industrie creative in Tanzania: Intervista ad Ayeta Wangusa, e al gruppo di lavoro del Center for the Development of Eastern Africa (CDEA)

di Sandra Federici

In un quartiere periferico di Dar es Salaam ha sede il CDEA, organizzazione dedicata allo sviluppo di attività culturali in Tanzania. È uno spazio di co-working denominato Eco Sanaa Terrace, costituito da piccole strutture adibiti a uffici, sale riunioni e laboratori e una grande tettoia centrale in legno arredata con tavoli. Qui ci sono diversi ragazzi e ragazze, soli o in piccoli gruppi che stanno lavorando. La direttrice Ayeta Anne Wangusa ha organizzato in occasione della mia visita un incontro con lo staff direttivo: Ismael Mutanda, manager amministrativo, Angela Kilusungo, responsabile del settore creative economy, Sarah Balozi, responsabile dei progetti artistici, Magreth Bavumo, comunicatrice, e Johnny Mudolo responsabile della logistica. Prima di iniziare, mi propone di fare una foto con Aichi Masauri, appena nominata “Midundo Radio Face of the People” con un concorso su Instagram. Aichi è laureata in economia e statistica.

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S.F.: Come nasce il Center for the Development of Eastern Africa?
Ayeta Wangusa: Siamo nati come think tank creativo e poi nel 2012 abbiamo istituito formalmente una ONG, per cercare di mobilitare la società civile nel dialogare e fare pressione sulla politica affinché la cultura sia posta al centro dello sviluppo umano. Nella nostra visione, la cultura può servire a risolvere molti problemi nella regione dell’Africa orientale, per questo facciamo ricerca e advocacy sulle politiche. Alla base di questo noi poniamo la documentazione della cultura tanzaniana, affinché ci sia un legame tra passato e il presente. Per noi è molto importante documentare il passato, per dare consapevolezza di quale è la nostra origine culturale, la nostra storia, e collegarlo al presente, alle nuove tecnologie e forme espressive che oggi abbiamo a disposizione.

S.F.: Quali sono le vostre attività principali?
Ayeta Wangusa: Abbiamo quattro principali settori di intervento:
Innanzitutto, il Culture and Governance Programme, sviluppato tramite diverse ricerche sull’economia creativa e la governance della cultura [i rapporti di diverse ricerche sono disponibili in accesso libero sul sito https://www.cdea.or.tz, ndr]. In secondo luogo c’è tutta l’attività volta a favorire l’espressione culturale da parte dei giovani: incontri, laboratori di scrittura, presentazioni. Importante il “film critic lab”: proiettiamo film e poi li analizziamo, ne discutiamo, perché manca spesso nei film tanzaniani una profondità dei temi presentati.
Abbiamo poi una Web radio [Midundo] per musicisti emergenti, dove cerchiamo di promuovere i/le “conscious artists”, coloro che esprimono contenuti di riflessione, di cambiamento. Abbiamo anche organizzato nel 2016 e nel 2017 l’East African Vibes Concert, invitando artisti di altri paesi.
Infine, dal 2022 abbiamo avviato la Creative Economy Incubator & Accelerator Initiative, una piattaforma per promuovere artisti, artigiani e imprenditori creativi, selezionati tramite bando, e offrire loro un processo di “accelerazione”, affinché implementino la loro idea di business grazie a una formazione tecnica. I settori sono design di moda e accessori, industria del cinema e della musica.

S.F.: Immagino non sia facile rendere sostenibili questo tipo di attività.
Angela Kilusungo: Io sono responsabile dell’incubatore, e in effetti il lavoro difficile è l’accesso al mercato di queste produzioni. Innanzitutto, i formatori sono degli imprenditori già affermati, ad esempio stilisti del settore moda. Prima però facciamo una valutazione dei bisogni, per dare concretezza alla formazione. Abbiamo una piattaforma formativa online, in modo che possano accedere più persone.

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S.F.: Sono persone con una formazione nel campo della moda?
Angela Kilusungo: Sono quasi tutti autodidatti, solo all’Università di Dodoma c’è un corso di fashion design. Noi accettiamo volentieri persone che si sono auto-formate sul campo, e che nel nostro incubatore possono acquisire competenze tecniche e di gestione. L’accompagnamento verso il mercato lo facciamo tramite partecipazione a fiere, attività di marketing e networking. Organizziamo eventi in cui possano mostrare il loro lavoro, abbiamo una collaborazione con la Swahili Fashion Week, che si svolge ogni anno in dicembre. Poi abbiamo anche una boutique in cui possono vendere, aperta all’esportazione.

S.F.: Ho visto che avete pubblicato una ricerca sulle condizioni degli artisti in Tanzania, come avete affrontato questo tema?
Sarah Balozi: Abbiamo studiato le condizioni di lavoro ed espressione degli artisti, e il loro status, come funziona l’Art & Culture Fund della Tanzania e come può essere migliorato, perché è fondamentale il finanziamento pubblico della cultura. Il rapporto tratta i problemi relativi alla tassazione, ai contratti, alla formazione, alla parità di genere. Poi c’è il tema dei diritti. La nostra idea è creare una “Legal Rights Clinic” per gli artisti, dando innanzitutto consulenza sui contratti di ingaggio.

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S.F.: Il tema della censura è abbastanza problematico in Tanzania.
Sarah Balozi: La censura c’è ed agisce sulla libertà degli artisti, che è legata alla libertà di espressione. C’è una Commissione che controlla e vieta la pubblicazione di prodotti che contengano questioni legate alla morale, in particolare è proibito ogni accenno all’omosessualità. E ovviamente sono un problema anche le critiche al governo. Anche su questo abbiamo pubblicato sul nostro sito una ricerca: Artistic freedom in Tanzania (2024), finanziata dall’ambasciata Norvegese in Tanzania.

S.F.: Fate un lavoro di promozione della cultura a tutto tondo.
Ayeta Wangusa: Noi crediamo che la cultura, se si fanno investimenti, sia una fonte di sviluppo economico, che possa offrire posti di lavoro in modo che le persone non debbano più emigrare, anzi, chi è uscito possa ritornare. Tante donne potrebbero vivere del loro lavoro, ad esempio nell’artigianato e nella sartoria per l’industria cinematografica. Cerchiamo di creare un ecosistema che favorisca il lavoro regolare. A mio parere il mercato per la creatività dell’Africa c’è, basti pensare alla fame di contenuti delle piattaforme come Netflix.

S.F.: Come gestite gli aspetti di comunicazione?
Magreth Bavumo: Io mi occupo di comunicare internamente ed esternamente. Facciamo eventi mensili, legati a progetti, ma anche eventi di networking, per fare incontrare gli artisti e le artiste. Io creo i contenuti per Instagram, TikTok e per Facebook, che però ha un pubblico più “adulto”. C’è anche la radio comunitaria Musoma, a Butiama, villaggio natale del primo presidente della Tanzania, Julius Nyerere. Abbiamo creato uno studio radiofonico e tra poco partiranno le trasmissioni in FM, anche se i fondi sono scarsi. Speriamo di creare un pubblico numeroso e che questo faciliti il reperimento di finanziamenti. Parleremo di salute, notizie, aspetti culturali che possono influire sulla vita delle persone.

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S.F.: In che modo per voi la cultura agisce sulla vita concreta?
Ayeta Wangusa: La nostra è una visione olistica, ad esempio è importantissimo il tema ambientale, l’approccio circolare. I nostri principi di base sono Environment, Social, Governance: anche i mobili della Eco Sanaa Terrace sono in materiale riciclato. Crediamo molto nella prospettiva del turismo culturale. La Tanzania è conosciuta per la natura, i parchi, gli animali selvatici, ma c’è tanto valore culturale che può essere attrattivo per una forma alternativa e sostenibile di turismo: la nostra storia, le tradizioni, la musica.

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13 giugno 2024

Call for papers di AeM n. 101. Oggetti e memorie femminili della migrazione

Africa e Mediterraneo lancia il nuovo invito per la presentazione di articoli scientifici e divulgativi per il numero 101. Il dossier sarà dedicato al tema delle memorie femminili migranti con focus specifico sul ruolo degli oggetti materiali nel custodire e creare la narrazione dello spaesamento e della mobilità.

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È questo già caro ad artiste e autrici letterarie e oggetto di numerosi studi scientifici; la rivista intende dare spazio soprattutto alle storie africane e della diaspora che ancora non hanno trovato eco e che tuttavia esistono e resistono ai margini e nelle pieghe delle storie ufficiali di nazioni, paesi e comunità nazionali e transnazionali.

L’obiettivo è raccogliere testimonianze che invitino a pensare gli oggetti (beni personali, souvenir, cimeli di famiglia, ma anche vestiti e oggetti funzionali più comuni) come vettori – spesso unici – di esperienze inespresse e archivi imperfetti di narrazioni polisemiche, ma anche come catalizzatori di nuove forme narrative che ragionano creativamente sull’intersezione tra mobilità, razzializzazione e identità di genere.

È per questo che Africa e Mediterraneo invita caldamente anche artiste e artisti a sottoporre il proprio punto di vista sui temi della memoria materiale e delle biografie migranti. La scadenza per l’invio delle proposte è il 15 settembre 2024.

Scopri la call for papers:

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