20 dicembre 2023
La Somalia negli scritti di Kaha Mohamed Aden
di Roberta Sireno
«Vorrei tanto consegnare a qualcuno questo sogno. Qualcuno degno di aprire questo sogno. Aprire il sogno, si dice letteralmente così in somalo. […] Il sogno non è aperto se non ne discutono due soggetti: il sognatore e una persona X scelta da lui. La persona scelta dovrebbe trovare e dare un senso al sogno. […] Io ho scelto di consegnare a voi l’incubo. Non è possibile discuterne con voi, né voi potete discuterne con me.»
(Kaha Mohamed Aden, da Fra-intendimenti, Ed. nottetempo, Roma, 2010)
Condividiamo il dolore e ricordiamo con affetto Kaha Mohamed Aden, che da alcuni giorni è venuta a mancare. La rivista Africa e Mediterraneo aveva avuto la sua preziosa e qualificata collaborazione con diversi articoli e racconti, ma anche in incontri pubblici sui temi dell’intercultura e del dialogo. Kaha è una voce ineguagliabile nel panorama letterario attuale; aveva raccontato attraverso i suoi ironici e pungenti racconti e le sue intelligenti narrazioni la storia coloniale italiana e la sua personale esperienza di migrazione dalla Somalia all’Italia, la sua fuga dalla guerra civile con il padre, noto esponente politico imprigionato dalla dittatura di Siad Barre. Negli anni Novanta si era stabilita a Pavia, laureandosi in Economia e conseguendo un Master in Cooperazione allo Sviluppo nella Scuola Universitaria Superiore di Pavia (IUSS). Da allora aveva svolto varie attività nel settore della mediazione culturale occupandosi di temi quali l’immigrazione e l’intercultura.
ph. 2017, Mariarosa Delleani
Il padre e la figlia sono stati accomunati da un’attiva partecipazione sia alla vita politica transnazionale che a quella letteraria di scrittori: Aden Sheikh è stato ministro del primo governo Barre e poi consigliere municipale della giunta comunale di Torino, e nel suo libro uscito nel 2010 La Somalia non è un’isola dei Caraibi. Memorie di un pastore somalo in Italia scrive:
«I miei figli hanno affrontato il loro trasferimento in Italia armati della capacità di pensare con la propria testa e della libertà di esprimere il proprio pensiero.» (cit., p. 225)
Inseguendo la scia del padre, Kaha Mohamed Aden nel 2010 aveva pubblicato il romanzo Fra-intendimenti, nel quale descriveva l’inizio del conflitto somalo, ma anche le difficoltà nell’adattarsi alla nuova vita in Italia. Nel 2019 era uscita Dalmar. La disfavola degli elefanti, una favola distopica che diventa lo sfondo per una narrazione a più livelli che cerca di affrontare il trauma della guerra (recensita su AeM n. 91/2019 da Francesca Romana Paci). La sua scrittura e il suo attivismo l’aveva portata a scrivere anche riflessioni critiche e articoli per diverse riviste come “Nuovi Argomenti” n° 27 (2004), “Geografie della psicoanalisi”, Psiche, 1, 2008, “Incontri – Rivista Europea di Studi Italiani”, Volume 32 (2) 2017, e per la nostra rivista “Africa e Mediterraneo” aveva pubblicato Nabad iyo Caano. Pace e Latte, n. 2/14, Cambio d’abito – n. 1/17, Un felice goffo volo dallo Yaya Centre – n. 1-2/20. Africa e Mediterraneo aveva inoltre promosso la sua presenza all’incontro per la Pace delle scuole di Lampedusa in aprile 2022. Anche se la sua partecipazione si è potuta realizzare solo solo online, Kaha è riuscita a incantare insegnanti, studenti e studentesse con intelligenti parole di dialogo e pace.
La ricostruzione storica delle vicende familiari e la prospettiva postcoloniale sono sempre stati elementi fondanti nelle riflessioni e nelle opere della scrittrice italo-somala, che, appunto, ci ha consegnato «l’incubo» della migrazione personale e collettiva, il racconto di un esilio. Tuttavia, non manca mai nelle sue scritture la manifestazione, spesso umoristica e ironica, di un desiderio incoraggiante, in cui il presente della società di arrivo e il passato vissuto nella società di origine si incrociano e si mescolano, in direzione del dialogo, dell’integrazione e dell’arricchimento interculturale.
Parole chiave : Dalmar. La disfavola degli elefanti, Fra-intendimenti, guerra civile, Kaha Mohamed Aden, Postcolonial Studies, scrittura, Siad Barre, Somalia
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30 agosto 2019
Geografia delle terre africane nelle narrazioni letterarie
Di Francesca Romana Paci
Riflessioni in margine al volume di Luigi Gaffuri, Racconto del territorio africano. Letterature per una geografia (Prefazione di Massimo Fusillo; Postfazione di Eleonora Fiorani, Lupetti Editore, Milano 2018, pp. 318)
La geografia è una scienza antichissima e molto complessa. Da un lato è resa unitaria dal suo essere di base legata alla realtà naturale terrestre, dall’altro, simultaneamente, è resa plurale dalla vita dell’uomo sulla terra: l’uomo che costruisce geografie, e, insieme, l’uomo che le indaga, studiando e cercando di capire le loro sfaccettature diacroniche e sincroniche. Nel suo Racconto del territorio africano Luigi Gaffuri, geografo, epistemologo e studioso del pensiero geografico, si propone una completezza di discussione che lo porta a strutturare il suo lavoro in due parti. La prima parte, un discorso sul metodo, è propedeutica alla seconda, e necessaria per capire i quattro saggi che costituiscono la seconda parte. I primi tre sono letture geografiche di famose narrazioni letterarie di argomento africano: i romanzi Tempo di uccidere di Ennio Flaiano; La mia Africa di Karen Blixen; Cuore di tenebra di Joseph Conrad – tre opere di scrittori europei che guardano l’Africa. Il quarto saggio prende in considerazione l’estremo africano dell’asse di indagine, ovvero come alcuni intellettuali e artisti africani guardano l’Africa; inserita in molto altro, Gaffuri analizza la pièce teatrale Che ne è di Ignoumba il cacciatore? del congolese Sylvain Bemba. I quattro saggi, che potrebbero essere del tutto autonomi, come l’autore subito informa i lettori, sono stati scritti e pubblicati singolarmente nell’arco di anni; il che spiega perché il discorso metodologico ritorni come parte integrante anche di ciascuno di essi.
Uno dei due motti collocati exergo nella prefazione di Massimo Fusillo a questo libro è tratto da un articolo del famoso geografo, sociologo e antropologo David Harvey: «L’immaginazione geografica è un fatto troppo pervasivo e importante nella vita intellettuale per essere lasciata soltanto ai geografi» (Knowledge in the Eye of Power: Reflections on Derek Gregory’s Geographical Imagination, in «Annals of the Association of American Geographers», 85, 1, 1995, p. 161). Harvey, di libera formazione marxista, in realtà non vuole affidare la geografia a diverse aree di indagine, quanto introdurre nella ricerca geografica procedimenti che coinvolgano la pluralità delle scienze, della cultura, del sapere e soprattutto del potere nelle sue manifestazioni politiche e sociali. La parola «immaginazione», inoltre, apre molte strade agli studiosi (non solo strade africane!), tante da rischiare una lusinghiera ebrezza di possibilità, ma anche, senza contraddizione, da dichiarare un caveat molto serio su quanto possa fare la «immaginazione» al servizio del «potere». Per inciso, Derek Gregory (nato nel 1951) ha largamente scritto sul Colonialismo, quello di ieri e soprattutto quello contemporaneo in qualunque modo travestito. Il suo Geographical Imaginations (1994) sussiste nel retroterra del libro di Gafffuri, e l’affermazione di David Harvey può, in effetti, essere un buon motto per tutto il libro, che si apre con le pagine di Fusillo e si chiude con uno scritto dell’epistemologa e storica dell’arte Eleonora Fiorani, intitolato Dalla letteratura all’arte africana contemporanea. Il saggio di Fiorani è un regesto, necessariamente succinto, ma efficacemente commentato, di eventi relativamente recenti legati all’arte africana e alle attività di artisti e di studiosi (particolarmente enfatizzata la figura di Sarenco, Isaia Mabellini, purtroppo ormai scomparso) che se ne sono occupati. Una lista degli artisti coinvolti è impossibile, ma si deve almeno notare come Fiorani si adoperi per rendere giustizia a tutte le arti visive, dalla scultura alla fotografia, includendo anche il design, le installazioni e qualche incursione nel cinema, riconducendo infine il tutto a fondamentali rapporti con le vicende coloniali e post coloniali.
Racconto del territorio africano non è un libro facile: richiede al lettore attenzione e una base di passione culturale. È strutturato, come sopra accennato, in due parti. La prima è di per sé una vasta introduzione, che occupa centotrenta delle duecento sessantotto pagine di Gaffuri (escludendo, quindi, il contributo di Eleonora Fiorani e la ricca bibliografia), e, a sua volta, è composta da un primo esteso capitolo, intitolato “Introduzione – Quali Afriche? Voci europee e sguardi da dentro”, e da altri due capitoli, altrettanto estesi, “Raccontare il territorio” e “Immaginari geografici e riflessività”. La precisazione circa il numero di pagine non è pedanteria, ma una sottolineatura dell’importanza che Gaffuri attribuisce al suo humus intellettuale e al lavoro di altri studiosi, geografi e non solo, e soprattutto al metodo di indagine adottato.
All’inizio dell’Introduzione, Gaffuri afferma con chiarezza: «Questo libro si occupa di letteratura dal punto di vista della geografia. In particolare, l’attenzione è focalizzata su alcune narrazioni d’ambientazione africana, emblematiche della letteratura europea d’epoca coloniale e della letteratura africana subsahariana del Novecento» (p. 15). Individuata l’estensione del campo d’indagine in oggetto, gli si impone un pre-discorso sul metodo, che si deve necessariamente estendere diacronicamente e sincronicamente, dalle pratiche storiche e geografiche del passato alla nascita, indubbiamente rivoluzionaria, dei Postcolonial Studies e dei Cultural Studies.
È impossibile seguire il testo di Gaffuri segmento per segmento per l’ampiezza dei suoi riferimenti e anche per la sua tecnica di scrittura, che procede per “aggancio” di dati e fattori culturali, cosicché omettendone qualcuno si compromette il percorso: l’unica via efficace è leggerlo nella sua interezza. Si possono, però, estrarre alcuni elementi particolarmente importanti, partendo dal riconoscere la posizione permanentemente liminale, «lo spazio del tra», dello scrittore europeo che affronta l’Africa. Un primo elemento è costituito dalla domanda che Gaffuri costringe il lettore a farsi: per chi scrive lo scrittore europeo (ma anche il filosofo) tra Ottocento e prima metà del Novecento? Per chi scrivono Hegel, Conrad, Blixen, Flaiano? Gaffuri non si addentra, ma sottolinea come ci sia una «asimmetria» geografica che perdura in asimmetria del pensiero, necessariamente legata al Colonialismo e al pensiero coloniale (p. 30). Le narrazioni dei romanzieri europei dicono, alla fine, più sull’Europa che sull’Africa. Da tutto questo nascono spontaneamente altre domande: per chi scrivono Said, Bhabha, Ngugi wa Thiong’o, Spivak, e Achebe? Nel libro di Gaffuri questi interrogativi sono costantemente sottesi e in movimento, inducendo il lettore a ripercorrere la storia e a rendersi conto di come ogni nuovo evento storico, anche contemporaneo, modifichi non solo il presente, ma anche la comprensione e valutazione del passato.
In un punto chiave della Introduzione, per esempio, Gaffuri ricorda che in un suo discorso del 1973 Achebe, richiamando la leggendaria frase di Metternich sull’Italia, dice che l’Africa non è «solo un’espressione geografica»; la frase di Metternich (comunque interpretata) lo porta, perseguendo la sua tecnica di “aggancio”, a interrogarsi sul tema della lingua: quale lingua per l’Africa? Il colonialismo linguistico oggi è una realtà che si potrebbe discutere per migliaia di pagine. Gaffuri non se ne serve direttamente, ma è impossibile leggere questa parte del suo libro e non pensare a Cheikh Anta Diop, che nel breve, spinosissimo e visionario capitolo sulla lingua del suo Les fondaments économiques et culturels d’un état fédéral d’Afrique Noire, (Présence Africaine, 1960 e 1974) auspica come necessaria alla decolonizzazione una «unité linguistique» africana (pp. 20; 29). I tempi di Cheikh Anta Diop (come quelli di un altro grande storico africano, Joseph Ki Zerbo) sembrano lontani, ma sono una delle cerniere fondamentali per tentare di capire non solo la mise en roman dell’Africa e l’imperialismo linguistico (non solo in Africa!), ma anche lo spazio geo-politico contemporaneo. Gaffuri si spinge oltre nel passato, ricordando più volte nel libro la seconda Conferenza di Berlino, 1884-1885, dove si è divisa e spartita l’Africa tra i poteri europei, istituendo il diritto di depredare le sue risorse. Una Conferenza quasi ignorata da molti manuali europei di storia, ma largamente presente nei programmi e nei testi scolastici africani (un solo esempio: i manuali senegalesi per le scuole sia inferiori sia superiori). Si deve aggiungere che se il tema della lingua era spinoso in Cheikh Anta Diop e in Ki Zerbo, ora lo è altrettanto: alle Nazioni Unite non è contemplata alcuna lingua africana, e del resto se uno scrittore africano vuole essere letto non può scrivere solo in una lingua africana – Soyinka e Ngugi wa Thiong’o possono permettersi di scrivere nella loro madrelingua, ma solo dopo aver raggiunto un successo planetario, e comunque pubblicando i loro lavori anche in inglese.
Nelle pagine seguenti compaiono, necessariamente, Gaston Bachelard (la poetica dello spazio e altro), Édouard Glissant (il rizoma), Pierre Bourdieu (forse la teoria dei campi potrebbe entrare maggiormente nel discorso), Gregory Bateson, marito di Margaret Mead (i metaloghi). Infine, Gaffuri afferma e difende il suo procedimento di soggetto-ricercatore, il «modellizzare scientificamente la ricerca sul campo», non scartare «dissonanze» ed «emozioni», accettare la «imprevedibilità» del reale materiale – la materia del mondo, direbbe il filosofo Giovanni Piana – e dell’inconscio. E, completando la sua affermazione in nota con riferimenti all’io cartesiano e a Lacan, aggiunge:
A questo proposito, il discorso può essere articolato su tre nuclei epistemici: il soggetto della scienza in geografia (che gioca tra autoriferimento dell’enunciazione e eteroriferimento dell’enunciato; l’inconscio del ricercatore geografo sul terreno (che mette in causa la questione dell’infinito e delle sue possibili rappresentazioni; l’etica (che ha a che fare con l’incertezza e l’azione). […] è solo all’interno di questo sistema tripolare che può essere affrontato un discorso sul geografo-osservatore come soggetto di una modernità plurale. (p. 53).
Dopo questa lunga indispensabile “Introduzione”, Gaffuri procede con i due capitoli a loro modo ancora introduttivi, “Raccontare il territorio” e “Immaginari geografici e riflessività”. Nel primo dei due, il percorso inizia con Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappresentazione) e prende subito una strada semiotica: «La produzione e il consumo di segni e simboli sono dunque i tratti caratterizzanti della condizione umana» (p. 59). Il sistema di produzione e consumo crea, dunque, una cultura, ovvero le culture. Quello che Gaffuri desidera qui dimostrare, è la necessità di «aprire il terreno alle relazioni tra geografia e semiotica», creare una geografia che consideri i luoghi anche per i loro valori culturali – e, si deve aggiungere, disvalori. Dopo avere, in parte con Hilary Putnam, «destituita di fondamento» la «contrapposizione […] tra scienza e arte», il contributo del Racconto del territorio africano a questo, quasi nuovo, «campo di frontiera» è proprio, dice Gaffuri, il prendere in considerazione narrazioni letterarie in quanto nello stesso tempo interpretative e tributarie del sapere geografico:
Il racconto del territorio è portatore di un’istanza scientifica che, nel concepire la geografia come forma territoriale dell’azione sociale, si confronta con alcune espressioni letterarie analizzate in questo volume. Le forme narrative, e in primis la letteratura, sono qui considerate come dispositivi di rappresentazione nei quali cercare la geografia, connaturata alle esperienze e alle condizioni esistenziali delle persone, a loro volta organizzate in società che intrattengono relazioni con lo spazio terrestre. (p. 63).
Quello che segue è un vero discorso sul metodo, che propone usi più precisi e differenziati di tre termini geografici, spesso utilizzati come sinonimi, e qui identificati in aspetti e funzioni proprie: «ambiente, territorio e paesaggio». La geografia che operi sulla base e di questa triade è evidentemente una geografia complessa, che deve fare tesoro di dati dovunque li possa trovare, incluse le letterature e le arti. Gaffuri si sofferma su concetti e dati di realtà, enfatizzando appunto la complessità, soprattutto per quanto riguarda la territorializzazione dell’ambiente, e anche del paesaggio: «Il territorio è l’ambito sociale che nasce dall’azione trasformativa dell’uomo sulla natura, sullo spazio fisico, piegando cognitivamente e concretamente l’ambiente ai propri fini […]» (p. 66). Il passaggio da territorio naturale a territorio «sociale» è un tema inesauribile in tutti i sensi. Dalla storia alla politica, dalla letteratura alle arti visive la territorializzazione rappresenta una linea guida che non si interrompe mai, intrecciandosi alla storia stessa della civilizzazione. Per quanto riguarda la letteratura, e in particolare la letteratura ispirata dal Colonialismo, il lettore di queste pagine, o almeno il lettore che qui scrive, non può non pensare a numerosi romanzi, come Robinson Crusoe di Daniel Defoe, Tocaja grande di Jorge Amado, The Grass Is Singing di Doris Lessing, per non fare che tre esempi, ma anche alla ricca produzione di romanzi di fantascienza sulla colonizzazione di nuovi mondi.
Dal canto suo, Gaffuri in queste pagine insiste sul potere di controllo della territorializzazione sulla vita umana, un potere dal quale non sembra possibile fuggire nemmeno per l’arte – soprattutto per l’architettura, ovviamente, ma anche per le arti figurative, e con debita differenza, per la letteratura. Sono qui particolarmente illuminanti le citazioni del pensiero di Denis Cosgrove, geografo americano scomparso ormai da più di dieci anni, ma tuttora attualissimo e ispiratore di grandi aperture. Ancora una volta le possibilità di indagine che Gaffuri spalanca davanti allo studioso di letteratura provocano una specie di ebrezza, perché suggeriscono implicitamente riletture di un grande numero di testi letterari, soprattutto romanzi ottocenteschi e novecenteschi, ma non solo. Ovviamente Gaffuri suggerisce un metodo non un elenco di romanzi. Se un elenco è impensabile, lo sprone è irresistibile: quasi a caso, si può pensare a romanzi come Fame e Il risveglio della terra di Knut Hamsun, a North and South di Elizabeth Gaskell, a Waiting for the Barbarians di J. M. Coetzee , e persino a Paul et Virginie di Bernardin de Saint Pierre e, con un salto di tempo e di luogo, al lavoro teatrale Translations dell’irlandese Brian Friel.
Nel secondo dei due capitoli deutero-introduttivi, “Immaginari geografici e riflessività”, Gaffuri, che chiama il capitolo «interludio filosofico», prende le mosse da un basilare, ma non semplice, «essere significa […] essere da qualche parte» (p. 89), e si lancia in una cavalcata esperta attraverso un campo ricchissimo, da Platone a Cartesio a Vico; e poi a Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty, Bachelard, Foucault, Derrida per discutere l’essere nel tempo affiancato all’essere nello spazio e arrivare al «luogo», allo «spatial turn» e a una heideggeriana «topologia dell’essere». Seguono, necessariamente, riferimenti ai più noti studiosi di Colonialismo, Postcolonialismo, diversità e incroci, da Bhabha (terzo spazio), a Spivak, Said, Appadurai, e altri. Per arrivare alla pratica della riflessività (non solo sociologica, ma anzi allargata anche alla auto-analisi) e al suo scavo teso a mettere in luce i rapporti fra letteratura e geografia, Gaffuri passa anche attraverso riferimenti a scrittori universalmente noti e approda, alla fine del capitolo, all’affermazione centrale, fulcro del suo lavoro: «I romanzi, mettendo in scena uomini e società nei loro spazi e nei loro luoghi, funzionano come giacimenti di sapere” (p. 122). Forse non tutti i romanzi, ma quasi tutti, e certo lo fanno i tre romanzi che ha scelto di studiare, tutti e tre opere di scrittori per i quali l’Africa è un luogo “altro”.
A questo punto, mantenendo vivace la tecnica dell’aggancio, Gaffuri si dedica al primo e unico romanzo di Ennio Flaiano, Tempo di uccidere – Il Fascismo italiano in Etiopia, pubblicato nel 1947, liberamente basato sul diario che Flaiano teneva quando era tenente di complemento del Genio durante la Guerra d’Etiopia dal novembre 1935 al maggio 1936. Per inciso, il periodo coloniale italiano, dopo la sventurata Guerra d’Abissinia (1895-1896), si situa tra il 1936 e il 1941. Proporre oggi una rilettura di Tempo di uccidere è uno dei meriti di Gaffuri, che pur mantenendo fisso lo scandaglio geografico, porta a riflettere su numerosi altri aspetti e sullo stesso genere romanzo (questo, dunque, e qualunque romanzo) concepito come “insieme”. Le citazioni dal testo di Flaiano sono numerose, eppure spesso si è portati a desiderarne di più. Particolarmente denso di elementi il brano in cui Flaiano, autore implicito, “guarda” dentro il suo romanzo, dove il protagonista e narratore “guarda” l’àscaro Johannes che “guarda” una vallata e la valuta in toto, come ambiente naturale, territorio e paesaggio (p. 134; con tacito richiamo a p. 63; e, in nota, una illuminante citazione dal Poema africano della Divisione ’28 ottobre’ di Marinetti). Per inciso, ma non troppo, per Johannes, qui e altrove, i luoghi importanti sono quelli dove c’è acqua.
Gaffuri raggruppa e ordina passi del testo di Flaiano in citazioni multiple, collegando per senso e immagini brani che nel romanzo compaiono in pagine diverse, anche lontane fra loro. Caldo, aridità, fiume apparentemente inefficiente al benessere, fatica, colori estenuanti, persino un aggettivo isolato, «morbida», usato etimologicamente nel senso di “malsana”, “malata” in unione a «atmosfera» (p. 137), concorrono tanto alla rappresentazione di Flaiano, quanto a quella di Gaffuri. Il romanzo non include dati e riflessioni storiche (Gaffuri, invece, abbonda), ma indugia numerose volte sulle carte geografiche: immagini, indicazioni, denominazioni – le citazioni di molti di questi passi sono utilmente raggruppate con il metodo multiplo adottato da Gaffuri (pp. 141 e 143, e nota sulla Guida dell’Africa Orientale Italiana della Consociazione Turistica Italiana). L’illusione coloniale italiana, l’esotismo, gli errori sociali, economici, umani sono esposti spietatamente sia da Flaiano sia da Gaffuri; Gaffuri lo fa sia tramite Flaiano sia facendo ricorso a filosofi e studiosi contemporanei – o quasi. Particolarmente forte – fra geografia e letteratura – il tema della terra coltivabile, collegato a quello della fame.
A Flaiano segue Karen Blixen con il memoir-romanzo La mia Africa (Out of Africa). Il capitolo, o meglio il saggio, intitolato “Cartografia, paesaggio e letteratura nel Kenya coloniale”, è preceduto da un motto, liberamente tratto da una fiaba Ekoi del Camerun, dove un’antropomorfizzata topolina intesse bambini-racconto di tutto quello che vede, e «a ciascuno di loro diede una veste di un colore diverso […] I racconti diventarono i suoi figli e vissero in casa sua e la servirono perché lei non aveva figli suoi» (p. 163). Se non sulla geografia dei luoghi, il motto dice moltissimo sulla narratività africana e introduce in modo affascinante La mia Africa, che è di per sé un’opera passionale, consapevole, intrecciata alla storia, determinata da luogo e spazio. Pubblicato nel 1937, scritto direttamente in inglese (il titolo inglese, Out of Africa, forse comunica meglio la passionalità e la privazione), il romanzo è una miniera di conoscenza per lo studio del Colonialismo.
Gaffuri tocca momenti e aspetti fondamentali, come la Conferenza di Berlino del 1884-1885 e il sanzionamento europeo dei confini africani; la cartografia coloniale; la cartografia moderna e l’isotropia; la scala lineare nelle carte geografiche – l’universo è isotropo, ma noi lo facciamo diventare anisotropo cercando fonti/fonte di percezione; anche in poesia, nei romanzi, nelle arti figurative. Stupefacente l’estensione dei possedimenti europei in Africa, che potevano essere persino maggiori dei «tremila ettari» di Karen Blixen (p. 171).
Anche per leggere geograficamente La mia Africa, Gaffuri fa largo uso di citazioni che raggruppa in frammenti, susseguenti nel libro, ma in pagine anche lontane fra loro. La tecnica fa diventare le citazioni un deutero-testo quasi simultaneo, rendendo, però, necessaria molta attenzione ai numeri di pagina. Molto belle e utili le citazioni che rappresentano numerose “visioni dall’alto” (pp. 174-176; 177; 179-180; 181-182-183; 184). È in questo saggio su Karen Blixen che Gaffuri propone con ancora più chiarezza le tre categorie analitiche di «ambiente naturale», «territorio» e «paesaggio» (p. 186), e i loro collegamenti concomitanti, approfonditi nei commenti alle citazioni. Sono particolarmente interessanti i passi, sia di Blixen sia di Gaffuri, che ci portano a riflettere sulla territorializzazione, dalla centralità urbana di Nairobi, imitazione europea, dove però si doveva andare a cavallo o con un carro (p. 193), alla tassazione degli squatters, che avrebbero fatto a meno di strade, treni, illuminazione e anche polizia (pp. 196-197). Impossibile a questo punto per il lettore non pensare agli investimenti cinesi in Africa, e, ampliando il tema, a quali categorie sociali interessano strade e collegamenti.
Il saggio si conclude con ulteriori riflessioni sulla cartografia, dalle mappazioni coloniali come «inventari delle risorse umane e naturali», che alla fine diventano un «progetto politico» (p. 197), al riconoscere che le carte geografiche vogliono porsi come neutre, ma non lo sono: dalla rappresentazione dell’ambiente naturale ai nomi sono, appunto, anche progetti di politica economica. Pure, la cartografia è necessaria, guardandosi dal pericolo di farla diventare sussidiaria di un grave impoverimento culturale. Molto belle a questo proposito, principalmente per natura, cultura e visione unidirezionale, le citazioni di Blixen, da Ombre sull’erba e da Out of Africa (p. 201) – quasi-conclusive del saggio.
Il terzo romanzo esaminato è Heart of Darkness di Joseph Conrad. Un’opera breve, spesso definita dagli studiosi anglofoni novella, ma traboccante di temi e irta di problemi interpretativi: nulla è univoco, neppure l’aspirazione, mai esplicita e pure sepolta nel profondo inquieto della narrazione, a un ideale bilateralismo tra “noi” e “l’altro”. Il titolo del saggio e capitolo, “Squarciare le tenebre: il Congo coloniale tra Conrad e Schmitt”, rispecchia in qualche modo la complessità che il lettore è invitato ad affrontare.
Primo preludio alla lettura di Heart of Darkness è ancora una volta per Gaffuri la Conferenza di Berlino del 1884-1885 (il viaggio di Conrad in Congo è del 1890), dandone per noti gli elementi salienti. Vale la pena, comunque, ricordare che Bismarck volle la partecipazione di quattordici stati, alcuni con poteri maggiori e acquisiti come Inghilterra, Francia e Portogallo, altri, come l’Italia, con molto meno peso. Parteciparono, con differenze di posizione, anche gli Stati Uniti e l’Impero Ottomano. In funzione delle posizioni di Conrad è importante ricordare anche che la Conferenza di Berlino è stata spesso chiamata Kongokonferenz, principalmente perché confermava i possessi privati del Re Leopoldo del Belgio in Congo. Berlino è il primo preludio, comunque, perché c’è un secondo preludio, che collega il “diritto coloniale” alla teorizzazione del “nomos” come “Rechtskraft”, “forza di legge”, “forza di diritto” nel pensiero di Carl Schmitt (1888-1985). Sono pagine (pp. 207-215) da leggere con attenzione, che richiederebbero approfondimenti quasi a ogni paragrafo, perché Schmitt, importante teorico della destra, cattolico, prolifico, attivo ben oltre la Seconda Guerra Mondiale, è un pensatore inquietante e il suo lungo percorso presenta variazioni fino alla fine.
«Agli esordi il diritto poggia sull’occupazione territoriale e sulle delimitazioni […]» (p. 208); in seguito il potere diretto e arbitrario di dichiarare un possesso terriero evolve fino alle complessità coloniali e a oggi. Leggendo Schmitt, Gaffuri procede succintamente all’esame dei processi di territorializzazione coloniale, aggiungendo in nota (p. 211) una fondamentale citazione di Schmitt da Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum auropaeum” (ed. or. 1950; Adelphi 1991). È particolarmente importante (anche per la nostra contemporaneità) che il nomos della terra non trascuri il mare e il suo ordinamento spaziale. Qui si potrebbe aggiungere, in altra sede, una rassegna, o un racconto, della funzione emotiva del mare e delle distanze che il mare materialmente rappresenta nella creazione del concetto di “scoperta” e della liceità di occupazione (e quindi di possesso) di territori non europei: un immaginario potente e indistruttibile, che agisce in gradi, ambiti e piani molto diversi.
Nella sua lettura di Heart of Darkness, Gaffuri, come gli è consueto, fa largo uso di citazioni dal testo con il metodo adoperato in Tempo di uccidere e Out of Africa, creando gruppi collegati dal significato e non dalla contiguità diretta. Se da un lato questo obbliga il lettore a prestare attenzione ai numeri delle pagine indicate tra parentesi dopo ogni gruppo, questi testi “estratti” dal testo sono uno strumento di comprensione maggiore, e spesso qualcosa come una rivelazione. Particolarmente interessanti quei passi, citati e commentati, dove l’ambiente naturale africano grava immane, minaccioso perché impenetrabile e, molto più che ostile, indifferente all’uomo (pp. 217 e 218); qui si aprirebbero altre strade – pensando, per esempio, al Canada e alla letteratura canadese, e non solo. Le citazioni sono numerose e ben scelte, eppure qualche volta se ne desidererebbero ancora di più; per esempio, il passo in cui Marlow dice «The woods were unmoved […] heavy, like the closed door of a prison» (Heart of Darknes, Penguin, p.81).
Gaffuri, comunque, mantiene salda la rotta geografica, dal famoso passo di Heart of Darkness, «Now when I was a little chap I had a passion for maps», al Congo Diary (pubblicato solo nel 1978). Dedica spazio, inoltre, all’incontro e all’amicizia di Conrad con Roger Casement, il cui famosissimo Report circa la situazione del Congo è molto più tardo dell’incontro con Conrad, ma che certamente aiuta la lettura sia di Heart of Darkness sia del racconto An Outpost of Progress, che Gaffuri non può fare a meno di citare e commentare in funzione della territorializzazione coloniale – prima fra tutte, allora, la costruzione della ferrovia Matadi-Léopoldville. Il saggio è veramente ricchissimo e apre molte possibili vie di indagine, non vie alternative e non deviazioni, quanto collegamenti tra discipline e conoscenze, e, soprattutto dimostra quanto profondamente il passato coloniale sia radicato nella nostra contemporaneità e quanto complesso si presenti il futuro.
Il quarto saggio, “Lo spazio geografico nelle narrazioni africane”, modifica l’asse ottico e prende in esame l’Africa vista e interpretata da scrittori e artisti africani. Non tratta, per ora, di una visione africana dell’Europa, ma tra le righe affiora la possibilità che i futuri lavori di Gaffuri possano includere anche quell’ambito. Il saggio, che affronta un argomento evidentemente molto ampio, è introdotto da pagine che ripercorrono i primi anni dell’arrivo editoriale di produzioni letterarie africane in Italia – arrivo tardivo, collocabile negli anni ’50 – e del conseguente se pur limitato fiorire di studi africani. Notevole spazio è dedicato a commentare molto favorevolmente il volume Letterature dell’Africa, curato da Cristina Brambilla (pubblicato da Jaca Book nel 1994), che offre interventi di importanti studiosi, e consente a Gaffuri di offrire a sua volta un panorama generale importante, inclusivo di temi come la négritude, l’ideologia panafricana, le nuove territorializzazioni, le élite nere, i nuovi caratteri regionali, la risposta all’Europa.
L’interesse precipuo è, comunque, l’arte e in particolare la produzione letteraria. Riferendosi al Sudafrica, ma in realtà anche alle altre letterature africane, Gaffuri scrive: «In effetti, per ciò che qui importa, molta letteratura sudafricana è geografia, e lo è precisamente nel senso che rappresenta lucidamente le forme territoriali dell’azione sociale che, sul filo del tempo, si sono succedute su quel territorio» (p. 252). E sorge ancora il tema di chi sia l’interlocutore dei «messaggi letterari» africani.
Una intensa lettura della pièce di Sylvain Bemba, Qu’est devenu Ignoumba le chasseur? (messo in scena nel 1986), conclude il saggio. Ancora una volta il villaggio di Ignoumba non è solo la «cornice in cui si svolge una storia ma un luogo, una collocazione geografica […]» con la sua cultura, i suoi valori, la sua storia (p. 262); e il cacciatore Ignoumba «si fa homo geographicus», con taciuto eppure palese riferimento al pensiero del geografo statunitense Robert David Sack (p. 259). Ma c’è anche una seconda conclusione, o meglio una dichiarazione d’intenti: « il circoscritto compito che qui ci siamo assegnati è quello di sottrarre il territorio a una percezione diffusa, di origine culturale, che lo relega alla banale dimensione di sfondo», quello che Gaffuri vuole è «rendere palese il fatto che la geografia intesa come forma territoriale dell’azione sociale non solo è presente [nella maggior parte delle opere letterarie] ma diventa protagonista» (p. 265).