03 luglio 2023

Identità africane a confronto: il Canto di Lawino e il Canto di Ocol al Teatro No’hma di Milano

di Francesca Romana Paci

Il 10 e 11 maggio 2023 a Milano è andato in scena al Teatro No’hma – Spazio Teatro Teresa Pomodoro – lo spettacolo Land of Poetry, una produzione dello Twangale Cultural Centre della città di Ndola in Zambia. La regia, il copione, la selezione di brani musicali che accompagnano la pièce sono di Martin Ilunga Chishimba, nato nel 1988, attore, cantautore, scenografo, coreografo, studioso e fondatore dello stesso Twangale Cultural Centre. Chishimba è conosciuto in ambienti italiani per aver studiato alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano. Livia Pomodoro, presidente e direttrice operativa del No’hma, che lo aveva già ospitato nel 2019 con la pièce Broods of Any, dedicata alla grande piaga dei bambini strada, lo ha nuovamente invitato per la stagione 2022-2023.

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La pièce Land of Poetry ha due ipotesti: Song of Lawino e Song of Ocol, due poemetti narrativi, collegati fra loro, dello scrittore ugandese Okot p’Bitek (1931-1982), romanziere, poeta, musicista, studioso, accademico, e, non meno significativamente, atleta, danzatore, suonatore di tamburo e cantore narrativo tradizionale. I poemetti sono stati originariamente scritti in lingua acholi – una lingua Iwo dell’Uganda, per alcuni un dialetto – e poi tradotti in inglese dal loro stesso autore e pubblicati, in inglese, in Kenya, Song of Lawino nel 1966 e Song of Ocol nel 1970, dalla East Africa Publishing House di Nairobi. Ora se ne trovano edizioni congiunte con il titolo Song of Lawino & Song of Ocol. Si ricordano l’edizione di Heinemann del 1986, e quella del East African Educational Publisher del 2013, in Kenya. Entrambe le Song sono state pubblicate anche in acholi.

Okot p’Bitek, nato nel 1931, vive in pieno le prime indipendenze africane e i decenni posteriori, con le difficoltà, gli entusiasmi, le contraddizioni legate alla grande Africa, e, in realtà, già allora, inerenti a una pre-globalizzazione del mondo – non solo economica, anche se condizionata da rapporti economici, ma anche pesantemente culturale, innescata dal Colonialismo stesso e accresciuta dalle due Guerre Mondiali. Okot p’Bitek nasce a Gulu in Uganda, figlio di un padre insegnante scolastico e di una madre nota come storyteller, danzatrice e cantante tradizionale. Completa le scuole superiori in Uganda, facendosi già notare per l’ampia gamma della sua creatività artistica, e poi persegue studi universitari in UK, nelle università di Bristol, Aberystwyth-Wales, e Oxford. Nelle sue opere si legge quanto i suoi incontri con la cultura europea siano stati profondi e nello stesso tempo critici, soprattutto per tutto quello che riguarda il punto di osservazione degli studiosi occidentali dell’Africa, ma anche, in posizione speculare, il punto di vista dei personaggi creati dagli scrittori africani stessi.

Song of Lawino e Song of Ocol sono poemetti relativamente lunghi, raccontati ciascuno integralmente in prima persona; da una giovane donna, Lawino, il primo, da un giovane uomo, Ocol, il secondo. Di fatto sono due monologhi drammatici con qualità intensamente teatrali. Lawino e Ocol sono moglie e marito in un contesto dove la poligamia è consueta. Lawino è una prima moglie. Ocol ha da poco preso una seconda moglie, Clementine, ma è bene dire subito che Lawino non lamenta la presenza di un’altra donna nella vita di suo marito, quanto il confronto con l’altra, colta e occidentalizzata – «Clementine […] aspires / To look like a white woman»; un confronto che Ocol le fa pesare e le fa vivere come sfavorevole a lei stessa. Lawino non accetta senza reagire quello che considera una ingiustizia culturale prima ancora che amorosa e da voce al suo lamento. Le vicende sono ambientate in un luogo preciso dell’Uganda e in un tempo dato, ovvero negli anni di poco posteriori alle prime indipendenze di paesi africani. Lawino accusa: «He [Ocol] abuses me in English / And he is so arrogant […] My husband abuses me together / With my parents / He says terrible things about my mother /And I am ashamed. […] He says we are all Kaffirs / We do not know the ways of God / We sit in deep darkness / […] He says Black People are Primitive […]».

Okot p’Bitek crea con Lawino un modello femminile intensamente locale e immerso in una situazione di rifiuto di ogni cultura esterna. Con Ocol, di contro e simmetricamente, crea un giovane uomo affascinato dalle culture esterne. Entrambi i personaggi sono strumentali alla ricca, stratificata, contrastiva poetica culturale di Okot p’Bitek (contrastiva non contraddittoria), e, come tali, presentano aspetti finzionalmente caricati a scopo di ricerca.

Song of Lawino è composto di tredici sezioni, che sono un vero e proprio catalogo di elementi culturali del paese africano dove è nata – a suo modo Lawino è una accurata antropologa. Song of Ocol è più breve, ma è similmente un catalogo, nel quale Ocol risponde a Lawino, sezione per sezione. Ocol evoca Senghor, Marx, Mozart, la dea Athena con diretto ardore giovanile. Ma non ci si deve far ingannare: non c’è nulla di facile e nulla di ingenuo nei poemetti, anzi, c’è una stratificazione di livelli che richiede molta attenzione.

Okot p’Bitek, che ha una grande cultura sia africana sia occidentale, ha scelto, come studioso di focalizzare l’attenzione sul corrosivo, spesso ultra-enfatizzato problema coloniale e post-coloniale delle identità culturali, della loro permanenza, dei loro confini, della loro stessa legittimità. Un fenomeno in realtà generato da qualunque forma di colonialismo e pseudo-colonialismo sulla terra, intendendo con “colonialismo” l’incontro e il conseguente rapporto chiuso e/o aperto, univoco e/o biunivoco con l’altro, gli altri – problemi mai risolti e tuttora ben vivi nel mondo contemporaneo. In realtà una situazione che si presenta sempre in varia misura nei rapporti “noi” e gli “altri”. La risposta di Ocol alle argomentazioni di Lawino non chiude la questione, anzi la complica, e forse indebolisce gli obiettivi di Okot p’Bitek. Une lettura completa dei due testi si può ascoltare in rete all’indirizzo https://youtu.be/p0JidvB33vM.

Martin Chishimba, creando la sua versione teatrale dei poemetti ha fatto una scelta intelligente, ma certamente non facile. Racconta di aver incontrato Song of Lawino & Song of Ocol nella edizione Heinemann del 1986, mentre frequentava la High School nella città di Ndola nella provincia del Copperbelt in Zambia. Quando nel 2016 fonda il Twangale Cultural Centre, cercando testi che rappresentino storicamente aspetti della cultura africana, si ricorda di Okot p’Bitek, e scrive un arrangiamento teatrale delle due Song – scrive in inglese, che è la lingua ufficiale dello Zambia. È interessante notare che “twangale” in lingua bemba (una delle lingue dello Zambia) vuol dire “let us play”, e che in inglese il verbo “play” copre i significati di “giocare”, “suonare” e “recitare”. Data la lunghezza delle due composizioni, Chishimba spiega di aver limitato la sua versione ad alcune delle sezioni e nello stesso tempo di aver introdotto alcune aggiunte. Prendendo l’avvio dalla scenografia implicita del lamento di Lawino, che nel poemetto evidentemente si rivolge a un pubblico per averne un aiuto, Chishimba crea una sua propria struttura teatrale: Lawino nella versione Twangale parla davanti agli anziani del suo popolo in una assemblea della comunità riunita per ascoltare le sue ragioni e quelle del marito. Nel cast, quindi, oltre Lawino e Ocol, entra il popolo, rappresentato dai quattro musicisti, che suonano, recitano e agiscono in coreografie organizzate insieme agli altri attori; entra un Wiseman, che rappresenta gli anziani; entra la madre di Lawino, che appoggia la figlia, e rappresenta il valore permanente della tradizione; non entra, invece la seconda moglie occidentalizzata di Ocol, Clementine, la cui caratterizzazione è affidata totalmente alle parole di Lawino.

Attori e attrici sono tutti molto bravi sia nella recitazione e movimenti scenici sia nelle loro competenze musicali specifiche. I quattro musicisti sono: Charles Kabwita, percussioni; Derick Chileshe, tastiera; Kombe Mutale, basso; Ng’andu Mweetwa, chitarra. Lawino è Karen Mbolela; la madre è Chanda Henriettah Pule; Ocol è Martin Chishimba stesso; il Wiseman, il “Saggio”, è Amos Chipasha, compositore, cantante, molto seguito in Zambia come T-Low (Terror-League of war; scollegato al rapper tedesco omonimo), interprete hip-hop, rapper, e infine attore. Il personaggio del Wiseman è fondamentale perché assomma in sé funzioni importanti. Ascolta, non giudica, non condanna, quasi come può fare uno psicanalista; sembra avere grande conoscenza sovra-locale e insieme un completo rispetto per il locale; ama la conoscenza; è un negoziatore di pace, suggerisce la riconciliazione, valuta la vita in sé, donde il suo ripetuto refrain «life is good». Lo spettatore può persino congetturare che il Wiseman sia anche una rappresentazione di Okot p’Bitek.

Martin Chishimba dichiara apertamente di aver dato maggiore attenzione alla storia di Lawino e Ocol che alla forma metrica dei monologhi, ma di essere stato colpito dal ritmo della lingua delle Song, che gli è sembrato affine al bit del rap. Il Wiseman e la musica sono le innovazioni più evidenti rispetto ai monologhi di Okot p’Bitek, anche se, letti con attenzione a suono e ritmo, i testi in inglese di Okot p’Bitek si prestano effettivamente molto bene a interpretazioni rap – si deve ricordare che sono stati scritti negli anni Sessanta, prima, sia pure di poco, dell’esplosione del rap. La colonna sonora del play di Martin Chishimba è costituita da canzoni contemporanee, ispirate alla musica tradizionale dello Zambia, intrecciate a influenze jazz, ska, reggae, rock, e non solo.

Le canzoni sono composte da Amos Chipasha e da Martin Chishimba stesso. A un certo punto irrompe un breve brano della Eine kleine Nachtmusik, eseguito alla tastiera da Derich Chileshe. La citazione è dovuta perché la Serenata K525 di Mozart compare anche in Song of Ocol. Per inciso: Okot p’Bitek ha una grande conoscenza della musica classica occidentale, e in particolare di Mozart, dal cui Flauto magico, che ha studiato, ha tratto ispirazione per alcune sue creazioni.

La musica non solo accompagna, ma sembra provocare i movimenti coreografici degli attori. Un aspetto interessante è l’abbigliamento: i due personaggi femminili, Lawino e sue madre, indossano il tradizionale chitenge, un grande colorato rettangolo di cotone che avvolge la figura, analogo a molti altri  femminili africani; Ocol e i suonatori/popolo portano abiti non connotati, universalmente contemporanei e informali; il Wiseman, interpretato da un alto e smilzo Amos Chipasha, è vestito di bianco, con un insieme di pantaloni, bretelle, camicia e cravatta che ricorda un neo-dandy degli anni Trenta in UK e in US, e che trasmette qualcosa di permanente fuori del tempo – in una iconografia cinematografica statunitense piuttosto nota, potrebbe rappresentare un angelo; e potrebbe anche far pensare a un surreale intervento di p’Bitek. Land of Poetry si può vedere integralmente in rete al link https://www.youtube.com/watch?v=_mtBdg6LEl8.

In Okot p’Bitek e in Martin Chishimba sono le donne, fatte salve le gradazioni ironiche dei due autori, a dare corpo alla tradizione, mentre gli uomini sono favorevoli alla innovazione – il Wiseman suggerisce equilibrio. Impossibile non ricordare, però, che in scrittrici come Mariama Bâ, Ama Ata Aidoo, Tsitsi Dangarembga, Yvonne Vera sono le donne ad aspirare alla innovazione e gli uomini a resistere al cambiamento.

Nel retroterra di Okot p’Bitek, e di conseguenza in quello di Martin Chishimba, ci sono testi importanti per lo studio dei rapporti dell’Africa con l’Occidente. Non potendo ricordarli tutti, ci si limita a qualcuno che sembra significativo. Uno dei più precoci è il romanzo Mister Johnson (1939) dell’irlandese Joyce Cary, dove un giovane nigeriano è letteralmente innamorato della cultura inglese, che cerca di imitare il più possibile; il romanzo scava e mostra aspetti razzisti sia consci sia inconsci, e la storia finisce tragicamente. Dopo la Prima Guerra Mondiale arriva l’intensità di Frantz Fanon, con Peau noir, masques blancs (1952), opera che nessuno scrittore africano potrà mai permettersi di ignorare e/o dimenticare – certamente non la ignora Okot p’Bitek. Ci si concede di menzionare anche Nini, mulâtresse du Senegal (1954) di Abdoulaye Sadji, un romanzo discusso dallo stesso Fanon in Peau noir, masques blancs con attenzione antropologica, sociale, e, data la sua professione, psichiatrica.

Non meno importante l’influenza di Chinua Achebe, vero capostipite della narrativa africana. A partire da Things Fall Apart (1958-1959), Achebe affronta ripetutamente il problema dell’incontro, scontro, e confronto tra le culture africane e le culture occidentali, tanto da costituire un modello inevitabile e permanente nel tempo. Lo ha subito anche l’ivoriano Ahmadou Kourouma, sia nei romanzi sia nei suoi straordinari testi per bambini, dove descrive e spiega l’organizzazione sociale – cacciatori, griot, fabbri, e altro – di una comunità africana nel suo paese e in stati limitrofi. 

Pur con tutte le aggiunte e complementi teatrali, nel remake di Martin Chishimba, come era in Okot p’Bitek, il centro focale è il confronto tra culture e la ricerca di come rispettarle entrambe in una realtà inevitabilmente plurale e contraddittoria da quando il Colonialismo le ha irreversibilmente sommate e per molti aspetti fuse. 

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01 giugno 2023

I Festival Eritrei a Bologna nella ricerca artistica di Muna Mussie

Abbiamo partecipato ieri alla preview della mostra di Muna Mussie, Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna, che inaugura oggi 1° giugno alle 18.00 con la performance collettiva Uroboro e rimane aperta dal 2 giugno al 10 settembre 2023 a Project Room del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna.

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Il progetto, a cura di Francesca Verga con Archive Ensemble, riattiva la memoria personale dell’artista e l’archivio storico e iconografico dei Congressi e Festival Eritrei che si sono tenuti a Bologna ininterrottamente dal 1972 al 1991. Frequentati dalle comunità diasporiche eritree provenienti da tutto il mondo, i Festival si sono collocati in prima linea per supportare la lotta armata inaugurata nel 1961 per l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia.
Tanto che ad Asmara, dopo l’indipendenza nel 1993, si è voluto intitolare una strada Bologna St., come riconoscimento permanente del ruolo fondamentale che la città di Bologna ha avuto nel raggiungimento dell’indipendenza dell’Eritrea.

All’incontro era presente il fotoreporter bolognese Mario Rebeschini, che ha regalato un ricordo diretto dei festival “I festival si facevano in agosto, in una Bologna quasi deserta, che però reagiva bene, con atteggiamento accogliente e solidale, perché allora c’era un pensiero comune, di attenzione alle lotte per la libertà. Erano momenti molto seri, impegnativi e anche riservati, perché si parlava di resistenza armata, la si organizzava.”

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Ha spiegato Muna Mussie: “Venivano persone dall’estero, ad esempio dalla Germania, infatti questa mostra avrà una prossima tappa a Kassel, ma anche dai Paesi Arabi, dall’Egitto. Io ero piccola ma li vivevo con un senso di famigliarità, come ritrovare una ‘iper-casa’. E ho cercato di rappresentarla qui. Io sono alla ricerca di tracce, memorie personali e memorie storiche. Infatti ho messo al centro la rappresentazione di un pop corn, che per noi è simbolo di festa, infatti si offre spesso con il caffè al posto dei pasticcini, ma anche dell’esplosione delle armi. E durante i festival bolognesi quello dei pop corn era l’odore dominante”.

A partire dal legame che unisce l’Eritrea, il paese nativo dell’artista (1978), e Bologna, la sua città adottiva, Muna Mussie consegna una narrazione e una mappatura tracciata dai Congressi e Festival eritrei, attraverso la consultazione di archivi pubblici e privati nel territorio bolognese. I materiali di archivio vengono messi in dialogo dall’artista con alcune opere che hanno accompagnato le tappe precedenti della ricerca e altre inedite, tra cui la performance che inaugura la mostra, un rito collettivo e propiziatorio che segue un movimento circolare e richiama, in parte, le danze tradizionali della cultura eritrea e, in parte, la figura dell’uroboro, il serpente, presente fra le opere allestite. L’uroboro, un antico simbolo rappresentato da un serpente che si morde la coda, è la metafora dell’eterno ritorno e il serpente, che ciclicamente cambia pelle, rivela l’essenza di un nuovo inizio.

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La ricerca e la mostra sono realizzate grazie al sostegno dell’Italian Council (XI edizione, 2022), programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Nell’ambito del programma è prevista la donazione al MAMbo di un’opera che verrà completata alla fine del processo di ricerca di Muna Mussie.
L’esposizione al museo bolognese nasce inoltre dal dialogo e dal confronto con Archive Kabinett e fa seguito alla mostra personale di Muna Mussie, intitolata Bologna St. 173. Il sole d’agosto, in alto nel cielo, batte forte (Milano 2021), curata da Zasha Colah e Chiara Figone.

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Sono stati coinvolti: l’Archivio storico del Comune di Bologna; la Biblioteca Amilcar Cabral | Settore Biblioteche e Welfare Culturale del Comune di Bologna; Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia – Fondo Giorgio Lolli; l’Archivio storico de il Resto del Carlino; l’Archivio storico Paolo Pedrelli CdLM Bologna; la Comunità Eritrea in Italia; gli Archivi fotografici dei fotoreporter Mario Rebeschini, Massimo Sciacca e Luciano Nadalini.

Muna Mussie si conferma artista profonda le cui opere indagano le apparizioni fantasmatiche e la storia minore. Il suo lavoro è stato presentato ad Art Fall/PAC Ferrara, Xing/Raum e Live Arts Week Bologna, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Torino, Museo Marino Marini Firenze, Workspace Brussels, Kaaitheater Bruxelles, MAMbo Bologna, Santarcangelo Festival, Museion Bolzano, ERT Bologna, Rue d’Alger/ Manifesta 2020 Marsiglia, Archive Books Milano, SAVVY Contemporary Berlino, Short Theatre Roma, ArteFiera Bologna, HangarBicocca Milano, Biennale Democrazia Torino, Mattatoio Roma, Sesc  San Paolo, Kunstencentrum BUDA Kortrijk, SZENE Salzburg, Centrale Fies Dro, Black History Month Firenze, Spazio Griot Roma, Villa Romana Firenze.

DIDASCALIA:
Muna Mussie
Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna
veduta della mostra nella Project Room del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Photo Ornella De Carlo
Courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

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15 febbraio 2023

Il nuovo numero di Africa e Mediterrano esplora il “Laboratorio Africa”

È disponibile il numero 97 di Africa e Mediterraneo, che ha aperto a ricercatrici e ricercatori dei temi legati all’Africa e alla migrazione uno spazio per descrivere i percorsi di approfondimento che le/li stanno appassionando senza limitazioni tematiche, affinché fosse “il campo” a parlare. In un momento di forti cambiamenti sia sul continente che nel suo rapporto con il mondo e i paesi del Mediterraneo in particolare, ne è nata una mappatura (pur parziale e in fieri) con tre assi principali: il passato coloniale italiano e la storia presente del Corno d’Africa, le frontiere della migrazione, e quello che si può chiamare “laboratorio Africa” che raccoglie argomenti di grande attualità come il Covid-19 e i rapporti con la Cina.

Cover_AeM_97_2022I rapporti tra Etiopia ed Eritrea e la prospettiva di una pace duratura dopo il conflitto che si è concluso di recente sono l’argomento dei contributi di Tekeste Negash e Andebrhan Welde Giorgis. Negash aggiorna le riflessioni apparse nel dossier 92-93 di Africa e Mediterraneo con un accurato resoconto dei principali avvenimenti relativi alle relazioni tra Etiopia, Eritrea e Fronte Popolare per la Liberazione del Tigrai. Le popolazioni dell’area hanno recentemente vissuto una guerra che ha causato enormi sofferenze alla popolazione e perdita di vite, ma questo non sembra aver compromesso la ricerca di una soluzione di pace. Welde Giorgis propone una panoramica approfondita della storia del legame tra Eritrea ed Etiopia a partire dall’annosa questione del confine, che per decenni ha inasprito la conflittualità e alimentato l’antagonismo del Fronte Popolare per la Liberazione del Tigray, facendo così perdere i vantaggi di un dialogo reciproco. Il riconoscimento da entrambe le parti dei confini stabiliti nel 2001 dalla Eritrea-Ethiopia Boundary Commission porterebbe stabilità nel rispetto delle identità dei due stati.Di Etiopia scrive anche Vincenzo Straface, che ripercorre la storia architettonica di Addis Ababa, capitale dell’Africa Orientale Italiana e bacino di sperimentazione dei principi dell’urbanistica segregazionista. Nei progetti degli architetti coloniali, la nuova città, mai completata, sarebbe stata a uso e consumo della minoranza italiana, uno specchio del mito della superiorità razziale. Segue l’approfondimento di Federica Colomo sul ruolo delle donne nel colonialismo italiano in Africa, un tema ancora poco approfondito dalla storiografia italiana. Colomo descrive il peculiare “fardello” della donna italiana nelle colonie, un fardello che la rende al tempo stesso dominatrice e dominata, in quanto partecipe di una cultura patriarcale che la colloca in una gerarchia di genere che non le concede altra libertà se non quella di esercitare potere sul colonizzato.
Le rotte della migrazione nel Mediterraneo, e le esperienze di chi nasce all’interno di famiglie migranti, sono al centro di tre articoli. Il primo, di Alberto Catania, riguarda i territori spagnoli in Nordafrica, in particolare le exclavi di Ceuta e Melilla, che demarcano l’estrema frontiera meridionale dell’Europa. Questi luoghi sono tristemente noti per aver fatto da sfondo, negli ultimi anni, a violenti episodi di repressione e confinamento di persone che tentavano di raggiunge- re l’Europa dalla rotta marocchina. Fabiana D’Ascenzo scrive invece di Lampedusa e Lesbo, anch’esse luoghi di approdo e transito di flussi di migranti, in cui ha svolto periodi di ricerca sul campo. L’autrice esamina i cambiamenti che stanno interessando queste isole nel quadro di una più ampia trasformazione della percezione e del pensiero del Mediterraneo, oggi inteso sempre più come una “barriera” a difesa della quale un’Europa respingente dispiega flotte, mezzi e risorse.
C’è poi l’esperienza della migrazione interiorizzata e reinterpretata dalle seconde generazioni, di cui scrive Sabrina Alessandrini nella sua ricerca etnografica con un gruppo di adolescenti italiani di origine africana. Qui il tema dell’approdo e il concetto di destinazione, molto presenti nei contributi precedenti, acquisiscono un significato diverso nelle testimonianze di chi è cresciuto con la consapevolezza di vivere a cavallo di due mondi.
I restanti contributi riguardano alcuni importanti argomenti di attualità da cui emerge con forza il tema della agency africana, inteso come un voler fare e agire per sé, secondo principi radicati nelle culture autoctone. Barbara De Poli presenta un caso studio sulla controversa gestione della pandemia del defunto presidente tanzaniano P. J. Magufuli, che ha affrontato il virus con un atteggiamento antiscientifico, affidandosi a rimedi naturali e alla preghiera, lasciando la popolazione tanzaniana priva di protezione sanitaria. Sulla base dei dati economici e sanitari disponibili per il periodo 2020-2022 le sue scelte possono essere valutate come una misura che limitatamente ai primi mesi si è paradossalmente rivelata salvifica avendo permesso di scongiurare il collasso sociale e finanziario del paese. Il Covid appare anche nel contributo di Giulia Allegra Liti come una delle contingenze in cui l’artista queer ghanese crazinisT artisT ha inscenato le sue performance. Questa personalità artistica non-binary pratica forme creative di resistenza e auto-affermazione radicale, denunciando la discriminazione subita dalle persone LGBTQI+ nel suo paese. Di resistenza attraverso l’arte scrive anche Priscilla Manfren, soffermandosi sulla produzione di quattro artisti africani che citano e si riappropriano delle modalità espressive dell’arte europea, suscitando riflessioni sull’eredità del colonialismo e su altri temi come le questioni di genere e la globalizzazione.
Partendo dal recente progetto della rivista libanese WatWat, l’articolo di Enrica Battista e Maria Laura Romani si propone di esplorare lo stato del fumetto “per giovani adulti” in Algeria, Egitto, Marocco e Tunisia, dove alcuni fumettisti hanno cercato di colmare questo “vuoto editoriale”, trovando nei fumetti per adolescenti un campo di sperimentazione continua, come appunto WatWat che, diffuso online e sui social network e basato su una produzione inclusiva fatta anche dai ragazzi stessi, ha conquistato molti lettori. All’inclusività, ricercata nella disciplina dell’architettura, guarda l’articolo di Maria Argenti, Anna Bruna Menghini e Francesca Sarno, trovando una risposta nel Sud del mondo e, oggi più che mai, in Africa, dove numerose esperienze qui passate in rassegna mostrano una mediazione tra natura, sostenibilità ed esigenze degli abitanti. Antonella Ceccagno e Mariasole Pepa analizzano il dibattito accademico recente e le opinioni sulla presenza cinese in Africa, evidenziando la polarizzazione dei pareri e l’importanza di concentrare l’attenzione sulla risposta dei diversi paesi del continente alla visione di sviluppo avanzata dal gigante asiatico, quindi sul ruolo dell’agency africana nella ridefinizione del modello di crescita.

Il volume è acquistabile in formato sia digitale che cartaceo qui: https://www.laimomo.it/prodotto/laboratorio-africa-rivista-97/

Infine, questo numero di Africa e Mediterraneo segna il passaggio del timone a Enrica Picarelli come direttrice editoriale, a fianco di Sandra Federici che resta nel ruolo direttrice responsabile.

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03 febbraio 2023

L’Africa digitale è il tema della nuova call for papers di Africa e Mediterraneo.

L’impatto dei processi di digitalizzazione propone uno scenario fertile per poter superare molti dei problemi strutturali che hanno penalizzato l’Africa durante le fasi dell’industrializzazione e della globalizzazione, come ad esempio quelli logistici e doganali. Sebbene in Africa siano presenti forme di divario digitale, molte di queste sono secondarie rispetto alle opportunità di crescita prospettate da realtà estesa, e-commerce, cripto e NFT.

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Africa e Mediterraneo, con il dossier 99 del 2023, curato da Piergiorgio Degli Esposti, sociologo dell’Università di Bologna, vuole esplorare come la digitalizzazione, nel contesto africano, impatti in primo luogo sulla percezione della realtà, analizzando, secondo la chiave di lettura della realtà estesa, le varie forme in cui il reale si può arricchire dalle opportunità offerte dal digitale nelle sue varie forme, come realtà aumentata, mondi virtuali e metaverso, e come gli stessi offrano opportunità di innovazione in particolare per artisti, creatori di contenuti e mondo della moda. Queste infatti al momento rappresentano le principali aree in cui l’Africa può proporre eccellenze.

I sistemi di pagamento digitali, le criptovalute e gli NFT presentano possibilità di implementazione per infrastrutture leggere, liquide e distribuite che possono innescare logiche di valorizzazione dei contesti locali, ma anche la diffusione dell’e-commerce nel continente africano presenta direzioni interessanti da esplorare.

Pubblichiamo qui la call for papers, in scadenza il 30 giugno per l’invio delle proposte.

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18 gennaio 2023

LEDS for Africa – Studenti di Ingegneria dell’Energia da Padova alla Guinea Bissau per combattere la povertà energetica

Il progetto studentesco LEDS for Africa dell’Università degli Studi di Padova si appresta alla prima missione per l’installazione di impianti fotovoltaici nel villaggio rurale di Ponta Cabral, in Guinea Bissau.
L’iniziativa nasce nel 2018 dalla sinergia tra l’associazione LEDS, fondata da studenti di Ingegneria dell’Energia, e il missionario Padre Michael, direttore della missione francescana di Quinhamel.
Dopo quattro anni di lavoro, dedicati alle progettazioni e a un sopralluogo, è in partenza a gennaio 2023 la prima spedizione, con lo scopo di installare i primi impianti fotovoltaici, grazie ai quali si doteranno di illuminazione ed energia più di 30 famiglie.

ledsNel complesso il progetto aspira a conseguire l’installazione di 100 impianti fotovoltaici domestici autonomi, un sistema di pompaggio solare e un impianto in corrente alternata che andranno ad apportare significativi miglioramenti alla vita di circa 100 famiglie.
L’energia elettrica è un servizio essenziale per gli abitanti del villaggio, con immediati benefici dal punto di vista sanitario e di accesso all’istruzione.

Il progetto, conformato ai criteri ispiratori della sostenibilità ambientale e sociale, va nella direzione di molti degli obiettivi globali delineati nell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, a partire dal SDG7, atto a garantire l’accesso a un’energia economica, affidabile, sostenibile e moderna per tutti.
I privati possono sostenere l’iniziativa partecipando a una campagna di crowdfunding inaugurata sul portale Eppela e vengono coinvolti sotto forma di aggiornamenti sull’avanzamento dei lavori e di reward pensati quali ringraziamenti ad hoc per il supporto ricevuto.
Affiancano LEDS for Africa nel proprio operato importanti realtà accademiche quali il Centro Studi Levi Cases, il Dipartimento di Ingegneria Industriale UNIPD e l’IEEE – Institute of Electrical and Electronics Engineers.

CONTATTI

Studenti referenti:
Lara Gloder, lara.gloder@studenti.unipd.it 3404597643
Amedeo Ceccato, amedeo.ceccato@studenti.unipd.it 3466771378

Facebook e Instagram:
@leds4africa

Linkedin:
leds-4-africa

Email: leds.forafrica@gmail.com e leds4africa@ledspadova.eu

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29 novembre 2022

Etiopia: il Tigray dimenticato. Mostra fotografica di Coralie Maneri

A Firenze dal 7 al 13 dicembre si terrà la mostra fotografica dal titolo Etiopia: il Tigray dimenticato di Coralie Maneri con scatti sul tema dell’approvvigionamento idrico delle popolazioni nella regione del Tigray. Le immagini in mostra, antecedenti alla guerra civile iniziata nel novembre 2020, sono la testimonianza vissuta sul campo della quotidianità di un popolo che vive con grande fierezza ed umiltà in un territorio estremamente aspro e difficile.
L’inaugurazione della mostra si terrà presso la Fondazione Robert F. Kennedy Human Rights Italia, via Ghibellina 12, Firenze, il giorno mercoledì 7 dicembre dalle ore 18 alle 20.30.

Orari mostra:
Giovedì 8, venerdì 9, sabato 10, domenica 11 dicembre: 11.00 – 20.30
Lunedì 12, martedì 13 dicembre: 16.00 – 20.30

PATROCINI E SPONSOR
Con il patrocinio di: Regione Toscana, Comune di Firenze, IAH-BGID, IAH-SHG, ECHN-Italy, Società Geologica Italiana, Consiglio Nazionale dei Geologi, Università di Firenze e Museke Onlus.
Con il contributo di: Acquifera APS e IAH-Italy.

unnamedCoralie Maneri, fotografa autodidatta italo-svizzera, si dedica ad oggi soprattutto a progetti sociali nei paesi in via di sviluppo come fotografa freelance. In Etiopia documenta da più di 10 anni la realizzazione di pozzi d’acqua, scuole rurali ed health post, in particolar modo nel territorio del Tigray tramite la Fondazione Butterfly onlus.

Queste immagini sono la testimonianza vissuta sul campo della quotidianità di un popolo che vive con grande fierezza ed umiltà in un territorio estremamente aspro e difficile.  Gli scatti si fermano a novembre 2020, momento nel quale, ong, giornalisti e fotografi sono stati interdetti dalla zona di guerra che dura da più 2 anni.

Viene da chiedersi il perché alcune notizie di guerra e di crimini contro l’umanità siano più degne di attenzione rispetto ad altre. Giornalisticamente sembrerebbe essere importante il concetto di “morto chilometrico” in quanto i media sembrano attribuire importanza alle vittime di una tragedia in base alla distanza che le separa dallo spettatore, dall’ascoltatore o dal lettore.

Il dizionario definisce la parola Umanità come “l’insieme di uomini” in quanto sottoposti alle limitazioni della natura umana; oppure ancora “l’intero genere umano” senza fare alcuna allusione al colore della pelle.

È necessario che l’intera società occidentale non cada nel tranello dei media e dei poteri forti che, per ovvi interessi economici, distolgono l’attenzione da guerre lontane dai nostri occhi (59 guerre in corso sul pianeta nel 2022), e inizi ad occuparsi realmente di “crimini contro l’umanità” al di fuori delle barriere che ci vogliono separare dalla realtà che ci definisce tutti, indistintamente “esseri umani”.

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05 ottobre 2022

Il grado zero del razzismo. Il nuovo dossier di Africa e Mediterraneo

È uscito il dossier 96 di Africa e Mediterraneo intitolato Il grado zero del razzismo. Nell’introduzione i curatori Vincenzo Fano e Matteo Bedetti osservano che la propensione a suddividere la popolazione umana in razze a cui sono attribuite caratteristiche omogenee ed essenziali è tutt’oggi diffusa e supportata non solo da comportamenti sociali e attitudini culturali, ma anche da una pericolosa pseudoscienza che trova spazio e anzi alimenta il dibattito su questo tema.

Partendo dal lavoro del genetista Richard LewontiImmagine AeM96 per newslettern, che ha dimostrato come la variazione genetica tra “razze” sia minima in confronto a quella all’interno delle popolazioni, il dossier offre alcune chiavi di lettura del pensiero razzista, raccogliendo contributi che spaziano dalla disamina antropologica, al pensiero filosofico, ai più recenti studi di genetica. Presenta infatti articoli di Guido Barbujani, genetista da sempre interessato alla storia delle popolazioni umane, dei filosofi della scienza Giovanni Boniolo, Federico Boem, Ivan Colagè e Stefano Oliva e della psicologa Valeria Vaccari, che si concentra sulla psicologia del pensiero razzista. Alla luce del momento storico che sta attraversando il nostro paese va evidenziato il contributo di Erika Grasso e Gianluigi Mangiapane sulla strumentalizzazione dell’archeologia durante il fascismo e sugli usi politici delle istituzioni museali – in particolare il Museo di Antropologia ed Etnografia nell’Università di Torino che ebbe un ruolo molto importante nella diffusione della propaganda razzista di regime. A chiudere la sezione di articoli scientifici c’è il ricordo, firmato da Bogumil Jewsiewicki, del professor Carlo Carbone, insigne studioso dell’Africa dei Grandi Laghi e membro del comitato scientifico di Africa e Mediterraneo, scomparso di recente.
Il dossier è corredato da una selezione di scatti che riproducono alcune opere esposte ai padiglioni africani della Biennale di Venezia 2022 di cui Mary Angela Schroth ha scritto una recensione. Della stessa autrice c’è anche un articolo sul progetto “SEDIMENTS. After Memorypromossa da Roma Culture e Azienda Speciale Palaexpo e co-prodotta e organizzata da SPAZIO GRIOT in collaborazione con Azienda Speciale Palaexpo, un’iniziativa ambiziosa e la prima nel suo genere in Italia a proporre una riflessione ampia e complessa sulle criticità del presente lasciando la parola ad artist* e performer afrodiscendenti e africani.

La rivista è acquistabile sul sito https://www.laimomo.it/editoria/

 

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31 agosto 2022

I profughi e noi. Un’esperienza di accoglienza familiare

Abbiamo ricevuto questa testimonianza in cui si parla di un’esperienza di accoglienza in famiglia, e abbiamo deciso di pubblicarla per condividere un messaggio positivo. Buona lettura!

Una testimonianza di Antonia e Gianfranco

Quando noi abbiamo conosciuto Kapi e Mamadou non c’era in Italia attorno a loro e a tutti quelli come loro quel moto universale di solidarietà che si è espresso nei confronti dei profughi di guerra ucraini. C’era un clima fortemente polarizzato, condizionato ideologicamente.
Eppure le guerre africane o quelle medio orientali non sono state (e non sono) meno terribili del conflitto in atto in Ucraina. I milioni di profughi di queste guerre si sono riversati nei paesi limitrofi, come sta accadendo ora in Europa con gli sfollati ucraini. E di fronte a queste tragedie non è scattato un moto di solidarietà collettiva, ma solo paura e recriminazione per l’arrivo di quei pochi in Europa.
Lo stesso slancio umanitario verso il popolo afgano dopo l’evacuazione dell’esercito americano si era già del tutto spento quando le truppe russe hanno iniziato ad invadere l’Ucraina e gli stessi afgani avevano già da tempo iniziato a percorrere la rotta balcanica.

Corvara 2021Queste considerazioni ci hanno aiutato a capire che ha senso e può essere utile raccontare oggi la nostra storia di accoglienza, e quindi di aiuto e di accompagnamento. Anche se particolare e diversa da quelle che prenderanno forma con donne e i bambini ucraini, in essa è documentato come nella nostra vita personale e famigliare si sia introdotto un cambiamento, inaspettato, ma sostanziale e durevole, che ci ha aperto nuove prospettive.

L’incontro con Kapi e Mamadou ha rappresentato per noi un nuovo inizio e quando qualcosa di nuovo accade c’è un prima e un dopo. A fronte di una accoglienza più o meno lunga, ma sempre temporanea, almeno nelle modalità iniziali in cui si manifesta, c’è un “per sempre”. Nulla si perde.
La storia personale di Kapi e Mamadou e le vicende che hanno contrassegnato tragicamente la loro migrazione sono simili a quelle di tanti altri, come le problematiche e le difficoltà che hanno incontrato in Italia. Ma Kapi e Mamadou non sono “migranti”. Sono Kapi e Mamadou: unici al mondo.

Il nostro impegno non è iniziato per una motivazione sociale o civile, anche se la nostra azione ha indubbiamente una ricaduta in questo senso. Noi abbiamo deciso di accompagnare due persone conosciute ad un certo punto del loro percorso, ascoltando e cercando di venire incontro alle loro necessità, anche particolari e concrete, grazie all’aiuto della rete delle nostre amicizie. Man mano che i problemi emergevano e si rivelava la complessità della loro situazione, è stato indispensabile prendere contatto con gli operatori e le strutture preposte all’accoglienza.
Né all’inizio né in seguito abbiamo agito solo seguendo un impulso emotivo, ma per un desiderio consapevole di condivisione della loro vita e per amore al loro “destino”. Abbiamo agito per un senso di responsabilità.

Recovato da Cecilia 2020È scaturita così una storia che ha coinvolto tanti altri, che, grazie al nostro gesto di accoglienza, sono stati aiutati ad incontrare a loro volta, in modo diretto e personale, una realtà vista fino a quel momento da lontano e da cui forse anche si tenevano lontano.

Per chi desiderasse conoscere la nostra storia, è disponibile la dispensa “L’inaspettata convenienza della famiglia. L’esperienza di accoglienza familiare di Kapi e Mamadou” edita dalla Associazione Famiglie per l’Accoglienza sede regionale Emilia Romagna, che è scaricabile a questo link: https://www.famiglieperaccoglienza.it/wp-content/uploads/2022/03/Linaspettata-convenienza-della-famiglia.pdf

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22 giugno 2022

Acqua e Africa: aperta la call for papers del numero 98 del 2023 di Africa e Mediterraneo.

Il tema dell’acqua nelle storie e nelle culture africane attraversa numerose discipline ed è oggetto di studi vasti e articolati. Imperi e civiltà sono nati lungo le rive dei grandi fiumi africani e in prossimità delle coste e dei laghi. L’acqua, necessità imprescindibile per gli insediamenti e per la sopravvivenza, è sempre stata un fattore centrale della dialettica pastorizia nomade-sedentarietà nella regione sub-Sahariana, e nello stesso tempo fondamentale via per trasporti e commercio. La ricerca delle fonti dei grandi corsi d’acqua e le possibilità implicite della viabilità fluviale hanno accelerato e giustificato le missioni esplorative europee, ispirando una ricca e controversa letteratura occidentale da Erodoto a Conrad. Paradossalmente, la narrazione autoctona su questo tema potrebbe e dovrebbe essere molto ampliata. Eppure, l’acqua è simbolo di identità e identificazione, elemento ancestrale di spiritualità, di ispirazione artistica contemporanea e di antiche e nuove mitologie.

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L’acqua, proprio in quanto necessaria alla sopravvivenza e alla sicurezza di centinaia di milioni di persone, è uno dei maggiori problemi africani. Oggi l’insicurezza idrica causata dall’impoverimento di innumerevoli fonti d’acqua dolce naturali – tra tutte il Lago Ciad – è tra le principali cause di conflitto e migrazione (sia interna sia internazionale) dal continente – un fenomeno destinato ad aumentare con il peggiorare dei cambiamenti climatici. Numerosi programmi di salvaguardia delle risorse idriche sono emersi negli ultimi anni, tra i quali uno dei primi è stato il Lago Nasser. Tali programmi – nazionali e interstatali, oltre che di cooperazione internazionale – prevedono anche investimenti nel management delle risorse idriche e nella creazione di nuove infrastrutture, che, garantendo accesso diffuso e capillare all’acqua e usi sostenibili, hanno una ricaduta positiva sugli habitat sociali e naturali che da esse dipendono, creando le condizioni per un miglioramento diffuso della qualità della vita delle comunità. Ciononostante, non sono mancate e non mancano difficoltà e tensioni, come sta accadendo oggi per il progetto di costruzione di nuove dighe nella regione etiope dell’alto Nilo.

L’acqua si pone, dunque, al centro di questioni di governance e geopolitiche, come più volte evidenziato già molti anni or sono dallo storico burkinabè Joseph Ki-Zerbo – questioni che si intrecciano con il dibattito su sostenibilità, giustizia sociale, rapporti internazionali e, tuttora, decolonizzazione.

Questo numero di Africa e Mediterraneo intende raccogliere contributi sulle criticità associate alla tematica dell’acqua in Africa e per l’Africa.

Scadenza per l’invio
Le proposte dovranno pervenire entro il **31 gennaio 2023** all’indirizzo abstract@africaemediterraneo.it e saranno valutate dal/i curatore/i. In caso di esito positivo, il contributo – che può essere in italiano, inglese o francese – dovrà essere consegnato entro il **31 marzo 2023** insieme a cinque parole chiave in inglese, un abstract in inglese di non più di 100 parole e una nota biografica del/gli autore/i.

Africa e Mediterraneo si avvale di peer review anonima. Gli articoli e le proposte potranno essere inviati nelle seguenti lingue: italiano, inglese e francese.

*

Water and Africa | Water in Africa
Africa e Mediterraneo n. 98/2023

The theme of water in African cultures and histories is the object of extended studies in multiple disciplinary areas. Empires and civilizations emerged along the rivers of the great African rivers and lakes and the continent’s coasts. Water, a primary necessity for settlement and existence, has always been at the heart of the pastoral-nomadic relationship in sub-Saharan Africa, and at the same time a fundamental pathway for transportation and trade. The explorations of the sources of rivers and the inherent possibilities of the waterways accelerated and justified the first exploratory missions by Europeans, inspiring a controversial literature ranging from Herodotus to Conrad. A self-controlled narrative on this issue could and should be greatly expanded. However, water is a symbol of identity and identification, an ancestral element of spirituality, of artistic inspiration of old and contemporary mythologies.

As the very source of survival and security for millions of people, water is one of Africa’s greatest concerns. Today, water insecurity triggered by the weathering of the sources of drinkable water – an example is Lake Chad – is among the main causes of conflict and (internal and international) displacement across the continent – a phenomenon that will grow as climate change worsens. Several water preservation projects have been implemented, including, several decades ago, Lake Nasser. These national and inter-state initiatives – along with the ones of international cooperation – foresee investments in water management and the creation of new infrastructures to guarantee widespread access to water, yielding a positive impact on the social and environmental communities that depend on them and setting the condition for a widespread improvement of the quality of life. However, the same projects are also cause of conflict, as in the case of the new dams to be built in the Ethiopian region of the Nile.

As often observed by the Burkinabé historian Joseph Ki-Zerbo, water is thus also at the forefront of geopolitics and governance as it informs contemporary debates on sustainability, social justice, international relations and, thus far, decolonization.

This thematic issue of Africa e Mediterraneo aims to include contributions on the real and imaginary forms of water in Africa and for Africa.

Deadlines
The deadline to submit an abstract of no more than 400 word is **31 January 2023**. The abstract must be sent to abstract@africaemediterraneo.it. It will be reviewed by the editors of the issue. The deadline for submitting the finished article, along with a 100-word abstract and short profile of the author, is **31 March 2023**.

Africa e Mediterraneo is a blind peer-reviewed journal that publishes articles in Italian, English, and French.

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25 maggio 2022

Aperto il call for papers per un numero miscellaneo di Africa e Mediterraneo

È aperto il call for paper del numero 97 di Africa e Mediterraneo in uscita alla fine di quest’anno. Per la prima volta da diverso tempo, la rivista accoglierà contributi liberi in forma di saggi, articoli brevi, interviste e recensioni che saranno raccolti in un dossier miscellaneo a cura delle direttrici.

Progetto senza titolo

Gli abstract potranno provenire dalle aree umanistiche disciplinari a cui Africa e Mediterraneo dà generalmente spazio, come la letteratura, le scienze sociali, l’antropologia, la storia, le arti e la geografia, ma la rivista vaglierà attentamente anche proposte diverse, privilegiando quelle con prospettiva transdisciplinare e originale.

L’obiettivo di questo numero è offrire una mappatura in divenire di alcuni degli argomenti di maggior interesse per gli studiosi di Africa ed Europa, seguendo il percorso della ricerca accademica e indipendente in un momento di grande tensione e trasformazione internazionale. La scadenza per l’invio delle proposte è il 31 luglio 2022.

Chi voglia consultare i sommari degli ultimi dossier monografici può farlo a questo link: http://www.africaemediterraneo.it/it/numeri/ dove sono disponibili a partire dal numero 82. Tra gli argomenti trattati più di recente ci sono la moda e le arti visive, l’economia circolare e la sostenibilità, il corno d’Africa e l’editoria.

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