Probabilmente, al di fuori dei confini mediorientali, il nome di Juliano Mer Khamis sarà familiare a pochi. Eppure la sua attività e il suo impegno lo hanno reso uno di quei personaggi importanti, di quelli che si sono sempre battuti per rendere la società palestinese meno conflittuale.
Attore di teatro e di cinema, nato dall’unione di un’israeliana, Arna Mer, e di un palestinese cristiano, Saliba Khamis, è stato ucciso tre giorni fa con cinque colpi d’arma da fuoco, sparati da un uomo a volto coperto. Si trovava proprio fuori dal suo Freedom Theatre, la scuola di teatro che aveva fondato nel 2006 nel campo profughi di Jenin, e che poi sarebbe diventata uno dei più importanti luoghi di produzione artistica e culturale indipendente nei Territori Occupati.
Il suo teatro, rivolto ai bambini del campo profughi di Jenin, era diventato già un importante centro culturale negli anni Ottanta, grazie all’attività della madre Arna, a cui aveva dedicato proprio il documentario che lo aveva reso famoso “Arna’s Children”. Juliano aveva aiutato la madre a realizzare il suo sogno di creare una giovane compagnia di ragazzi, lo Stone Theatre, seguendone il percorso formativo attraverso la macchina da presa. L’intenzione del teatro era di rappresentare per questi ragazzi una via di fuga, aiutandoli ad esprimere le loro rabbie quotidiane, le frustrazioni, l’amarezza e la paura. Ma il sogno di progettare una vita alternativa alla violenza per questi ragazzi si è scontrato con la realtà della seconda intifada e dell’occupazione, e così anche i piccoli bambini di Arna hanno preso parte alla lotta per la resistenza contro l’occupazione dei territori palestinesi da parte dell’esercito israeliano, alcuni di loro rimanendovi uccisi.
Fondare nel 2006 il Freedom Theatre all’interno del campo è stato per lui un gesto d’arte, d’amore ma anche di rivoluzione. Aprire uno spazio artistico in un luogo di estrema chiusura e marginalizzazione come un campo profughi non poteva essere un’impresa semplice. Il primo passo era quello di ribaltare l’idea che nei campi si aveva del teatro, cercando di costruirne un’idea differente nella mente degli abitanti, e renderli predisposti all’accoglienza. E poi, con le sue parole: “Il teatro è solo una scusa, noi facciamo arte in genere: scrittura creativa, photoshop, computer, fotografia, psicodramma, realizzazione di film, terapia teatrale. Non siamo il teatro nel senso tradizionale, usiamo tutti i mezzi dell’arte prima per comunicare con il mondo, poi per ricostruire l’identità perduta. Chi siamo? Dove stiamo andando? Cosa pensiamo? Perché siamo in questa situazione? Quale tipo di indipendenza vogliamo e come possiamo costruire identità senza cultura? Altrimenti si creano tanti soldatini. La ricerca dell’identità può avvenire solo tramite l’attività culturale. C’è bisogno di un riflesso di se stessi. È così che si costruisce il sé: riflettendo se stessi su uno schermo, nelle pagine di un libro, creando un dibattito, un dialogo. Combattere la tradizione è combattere l’occupazione.” *
Insegnare la creatività e l’indipendenza ai più piccoli, alle nuove generazioni, svincolarle dai legami tradizionali che agiscono come scudo rispetto alla situazione di marginalità e occupazione. “Questa è la vera lotta contro l’occupazione. Perché, ciò che l’occupazione sta facendo è distruggere la società. Costruire sulla base non della tradizione e della religione, ma della libertà, di strutture democratiche, di un alto livello educazione e della libera opinione, della cultura. Questa è la forza.”
Già negli ultimi due anni il suo teatro e lui stesso erano stato ripetutamente minacciati e attaccati, soprattutto dopo la scelta di portare in scena un testo difficile come La fattoria degli animali di Orwell. Non solo l’offensiva israeliana nella West Bank è stata sempre più forte, ma il teatro, rappresentando una realtà di rottura con alcune tradizioni locali non poteva certo essere di gradimento ai più conservatori di Jenin.
Ma queste minacce non avevano scalfito la sua attività, e aveva continuato ad usare la forza pacifica del suo teatro, anche se di rottura ed opposizione, per creare percorsi di resistenza e liberazione. Embletica fu la frase che pronunciò durante l’accoglienza alla Carovana di Sport sotto l’Assedio del 2009: “We’re going to start a new intifada by poetry, theater, art, humans rights, pacific demonstrations against the wall. Questo vogliamo costruire. Questo è quello che Israele non può uccidere.”