07 febbraio 2011

Alemanno e i Rom: meno urla, più assistenti sociali

Non sto a ripetere lo schifo e la vergogna della morte dei 4 fratellini rom ieri a Roma. Morti bruciati vivi, soli, non ci si può pensare.

E allora il sindaco Alemanno si è messo a urlare. Come faceva a trattenersi, vedendo le scarpine dei bimbi? Il problema è che le cose che ha urlato, di fronte a quella situazione, erano delle assurdità. Ha detto che la colpa è dei “numerosi impedimenti burocratici che hanno rallentato la costruzione dei campi regolari” e che chiederà “urlando” al governo di assegnare poteri speciali al prefetto.

Sulle cronache si legge che il micro-accampamento abusivo di via Appia Nuova in passato era stato più volte sgomberato, ma i nomadi erano tornati con i loro accampamenti. Per forza, caro Alemanno, anche se i Rom li si vuole considerare come rifiuti da sgomberare, da “ruspare”, bisogna pensare che da qualche parte poi bisogna appoggiarli!

Si dice che è colpa loro, che sono loro a volere vivere così. Che sono “nomadi”.

E invece no. Non sono nomadi. E nemmeno stranieri.

La maggioranza dei Sinti e Rom che vivono in Italia sono italiani (http://www.operanomadinazionale.it/) e la maggior parte di loro vive in casa. Alcune famiglie scelgono di vivere nei camper perché fanno i giostrai. Poi c’è una minoranza nella minoranza che proviene di solito dalla ex Jugoslavia e vive in condizione estreme. Sono particolarmente emarginati e visibili e hanno bisogno di essere sostenuti con opportunità e diritti. Certo, alcuni di loro hanno tratti culturali che creano molti problemi, come i matrimoni precoci, il mancato controllo delle nascite. E allora? Cosa vogliamo fare? Li lasciamo nelle baracche che prendono fuoco?

L’idea di togliergli i figli dandoli in affido, emersa in questo fatto dei fratellini morti a Roma, è paternalista e feroce.

È ovvio che se c’è segregazione, c’è anche emarginazione, degrado, illegalità.

Le politiche di integrazione costano ma bisogna dire che anche le politiche di non integrazione, cioè le politiche di emergenza, costano, e molto. Si sono costruiti campi nomadi inutili con misure di sicurezza esagerate (a cominciare a Roma è stata la giunta Veltroni). I numeri sono piccoli, in realtà (nel censimento di giugno 2008 è stata registrata la presenza nei campi, in tutta Italia, di 12.346 persone). Si può lavorare su piccoli progetti di integrazione e avere grandi risultati, le esperienze positive sono tante.

Invece, i contribuenti pagano per tenere in piedi un sistema assurdo e costoso in nome dell’emergenza sicurezza. Sarebbe più economico in termini di risultati avere meno telecamere, meno vigilantes, più assistenti sociali, più progetti di integrazione. Ma paga di più politicamente coltivare ad arte l’idea di essere in una situazione di emergenza.

Il presidente Napolitano ha appena detto che le comunità che vivono in “accampamenti di fortuna, degradati e insicuri, debbono essere tempestivamente ricollocate in alloggi stabili e dignitosi”.

Copio qui sotto un brano dall’articolo di Dimitris Argiropoulos, che abbiamo pubblicato sull’ultimo numero di Africa e Mediterraneo (http://www.africaemediterraneo.it/), dal titolo Campi “nomadi”. La mediazione socio-culturale e l’estremo delle nostre periferie.

Il campo “nomadi” è un terreno alla periferia della città dotato di opere urbanistiche e servizi igienico-sanitari per poter essere abitato da persone in stato di povertà e di cultura differente. Il campo è una situazione abitativa particolare perché deve dare risposte istituzionali di domicilio a un bisogno di tipo abitativo espresso da persone che sono percepite a partire non dalla considerazione delle loro somiglianze ma da quella delle loro differenze. Il campo è una situazione eccezionale, straordinaria ed è concepito per dare risposte a una categoria inventata: i nomadi.

Nel campo la povertà relazionale ed economica colloca famiglie, gruppi e individui in una condizione di estremo degrado, nonché di estremo bisogno. Condizione che si autoalimenta, poiché l’eccezionalità del campo è la sua “eterna provvisorietà”, una provvisorietà intenzionalmente permanente.

Un campo concentra una categoria di persone. Il criterio omologante è quello della categoria etnica: il campo è omoetnico. Un campo “nomadi”, nella sua modalità, è di fatto un campo di concentramento. Le modalità dell’esistenza del campo “nomadi” hanno a che fare con i seguenti fattori concreti: lontananza dal centro della città (sono sempre collocati in periferia); strutture e i servizi poveri e degradati, al limite dell’essenziale; la forte promiscuità e il sovraffollamento di persone; unità abitative di una provvisorietà e povertà uniche; la presenza di categorie professionali specifiche (educatori, sacerdoti, poliziotti, ecc.); facilitazioni per il pagamento delle utenze o la loro totale copertura da parte dell’ente locale; l’assorbimento dell’ostilità circostante. Si tratta, ad ogni modo, di luoghi che concentrano su di sé l’aggressività dei territori limitrofi.

Il campo “nomadi” è una soluzione abitativa speciale, proposta per i Rom e i Sinti e diventata il modello abitativo anche per proposte e soluzioni nei confronti dei migranti, dei profughi e di altre categorie di persone che richiedono la casa.

La soluzione campo “nomadi”, centro di prima ed eterna accoglienza, è diventata la soluzione di problematicità nell’affrontare i bisogni di intere fasce di popolazione povere, che richiedono una molteplicità di risposte.

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