06 dicembre 2013
Per ricordare Nelson Mandela
Mandela is saying goodbye…
Per ricordare Nelson Mandela sono andata a ricuperare questo testo che avevo messo da parte tempo fa, nel 2011, quando Madiba era stato ricoverato di nuovo e i Sudafricani e il mondo intero avevano cominciato a prepararsi alla sua perdita. Si tratta del brano di una recensione, pubblicata su The Nation dallo scrittore cileno Ariel Dorfman, del libro di Mandela Conversations With Myself.
Perché si possono ricordare tante cose: la sua lotta, il fatto che abbia cambiato il mondo, la geniale scelta della riconciliazione, ma quello che abbiamo sentito tutti più forte in questo lungo addio – dall’ultima apparizione ufficiale durante i mondiali in Sudafrica nel 2010 – era l’importanza della sua figura morale, e il fatto che il mondo l’avrebbe persa, ed è proprio a questo che Dorfman si riferisce quando parla delle lettere scritte da Mandela dalla prigione di Robben Island.
“… Leggendole ci accorgiamo che Mandela tiene conto dei suoi censori. Lui sta anche scrivendo a loro, attraverso di loro, vuole entrargli dentro, si può percepire la loro presenza nella sua mente, la sua certezza che le sue parole sulla loro crudeltà e mancanza di decenza avrebbero fatto vergognare questi custodi. Si capisce come stia mettendo in scena una teoria della liberazione appositamente per questa audience di secondini; si coglie tra le righe come stia educando i suoi carcerieri malgrado i loro pregiudizi. E si vede, allo stesso modo, come sta educando se stesso, preparandosi al compito di ricomporre la divisione razziale e di classe che minacciava di distruggere il Sudafrica. Come stia diventando Nelson Mandela.
Forse per questo è così contrariato dalla sua trasformazione in un santo. Non è perché è stato lontano dagli altri, dal male, dalla debolezza di un’umanità fragile, che ha vinto. È stato perché è sprofondato dentro ciò che c’era di negativo in lui e nel doloroso mondo attorno a lui che è stato capace di sviluppare “tutto quanto ci fosse di buono”, come scrive nel suo libro. Come farlo? Una parola affiora continuamente: integrità. La sua integrità e la fiducia nel fatto che essa esiste in ogni persona del pianeta, non importa quanto duramente nascosta dalla paura e dall’intolleranza, e che se tu ti appelli a quanto di meglio c’è negli altri loro, alla fine, risponderanno. Ma lo faranno solo se sentiranno che tu sei fedele a te stesso e ai tuoi principi, al tuo desiderio di un mondo più giusto e umano, che tu sei pronto a tracciare una linea sulla polvere della storia.
È un messaggio che il suo paese deve ascoltare ancora una volta. Il suo meraviglioso Sudafrica, che è ancora in pericolo di smarrire la sua strada. La sua terra, che presto dovrà affrontare un lungo secolo di rinnovata lotta per la solidarietà e la verità e la pace senza la guida di Madiba. La necessità di affrontare questa imminente assenza ci fa arrivare al cuore non detto e nascosto di questo libro: Mandela sta dicendo addio.”
Il brano si trova sul bellissimo blog dell’intellettuale sudafricano Sean Jacobs Africa is a Country. Sul blog hanno pubblicato una compilation di canzoni sudafricane dedicate a Mandela.
Parole chiave : Ariel Dorfman, Nelson Mandela, Robben Island, Sean Jacobs, Sudafrica
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Inkanyiso è il titolo della mostra monografica di Zanele Muholi che include tre nuovi cicli fotografici – nuovi ritratti delle serie ancora aperte Faces and Phases (2010-11), Beulahs (2007-10) e Transfigures (2010-11) – più il documentario Difficult Love (2010). Con questa mostra l’“attivista visuale” Muholi – come lei stessa ama definirsi – continua il suo lavoro sulle minoranze sessuali presentando nuove serie di ritratti in bianco e nero dedicati alle comunità omosessuali nere di Sudafrica, Botswana e Svezia. Il documentario Difficult Love, che ha già collezionato diverse partecipazioni a festival di tutto il mondo ma che per la prima volta viene presentato in una galleria d’arte, offre inoltre una prospettiva personale sulle sfide che devono affrontare le donne omosessuali nel Sudafrica d’oggi.
Zanele Muholi è nata a Umlazi, Durban nel 1972 e vive a Città del Capo. Ha studiato fotografia al Market Photo Workshop in Newtown, Johannesburg. Nel 2009 è stata la Ida Ely Rubin Artist-in-Residence al Massachusetts Institute of Technology (MIT) e ha vinto il Casa Africa and Fondation Blachère awards ai Rencontres de Bamako – Biennale africana di fotografia.
Parole chiave : Arte contemporanea, comunità omosessuali, fotografia, Sudafrica, Zanele Muholi
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Il MoMA di New York ospiterà fino al 29 agosto Impressions from South Africa, 1965 to now, mostra collettiva di artisti sudafricani che presenta opere di vario genere quali poster, copertine di fumetti, serigrafie, elaborazioni fotografiche, ecc. La scelta di dedicare la mostra a una produzione artistica più vicina al mondo delle arti applicate che ai media canonici non è però casuale e rispecchia invece la situazione degli ambienti artistici sudafricani all’epoca dell’Apartheid, quando le opportunità nel mondo dell’arte non erano le stesse per tutti.
In questo contesto il printmaking e i settori ad esso collegati, grazie alla disponibilità di formati flessibili, trasportabili e relativamente economici, ha rappresentato un punto fondamentale nello scambio di idee e nella promulgazione della resistenza politica.
Tra le opere incluse nella mostra sono esposti alcuni lavori di William Kentridge, Conrad Botes e Anton Kannemeyer.
Parole chiave : Anton Kannemeyer, Arte contemporanea, Conrad Botes, Fumetto, Sudafrica
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Si terrà dal 22 al 26 luglio il quarto Talent campus, all’interno del Durban International Film Festival (21-31 luglio). Saranno presenti a Durban circa 50 filmmakers, provenienti da 16 stati africani — Botswana, Burkina Faso, Cameroon, Cote d’Iivoire, Egypt, Ethiopia, Ghana, Kenya, Lesotho, Mali, Nigeria, Rwanda, Swaziland, Uganda e Zimbabwe – che parteciperanno ad un intensivo programma di workshops e seminari nei primi cinque giorni del festival.
Questa quarta edizione del campus, dal tema Africa in Motion, include anche una Doc Station, riservata ai documentari, dove tre tra i talenti scelti saranno aiutati e riceveranno i consigli degli esperti prima di sottoporre i loro progetti di documentario a possibili finanziatori, editori o potenziali coproduttori all’interno del Durban FilmMart.
Monica Rorvik, direttrice del Talent Campus e vice-direttrice del DIFF, ha affermato che “il Talent Campus di Durban dà un contributo significativo alla crescita non solo delle competenze ma anche delle opportunità per i filmmakers africani. Alla giuria del festival quest’anno sono stati sottoposti molti più prodotti creati dai partecipanti al Talent Campus, e saranno proiettati all’interno del DIFF. Per molti di loro la partecipazione al campus è stato un passo per aprire la carriera a livello internazionale, come è successo ad Ariane Astrid Adoji, filmmaker camerunense il cui film è stato proiettato per la prima volta in occasione del DIFF nel 2010, e poi è stato visto ai festival di Goteborg, Dubai e a HotDocs festival, vincendo un premio al festival di Dubai. Ariane è tornata a Durban quest’anno con un nuovo progetto per il Durban FilmMart”.
Il Talent Campus è un progetto nato in partenariato tra il DIFF, il Berlinale Talent Campus e il Berlin International Film Festival, ed è supportato dall’ Ambasciata Tedesca in Sudafrica, dal Goethe-Institut, e dal KwaZulu-Natal Department of Economic Development and Tourism.
A parte il festival di Berlino, il Talent Campus è ospite anche nei festival di Buenos Aires, Guadalajara e Sarajevo, e si sta pensando ad un ulteriore campus in Giappone. Le opportunità per i talenti partecipanti si accrescono infatti attraverso la rete dei Talent Campus e attraverso la piattaforma di informazione globale della Berlinale.
Per qualsiasi informazione sul festival si può contattare tramite mail: talent@ukzn.ac.za o talent.durban@gmail.com
Il Durban International Film Festival è organizzato dal Centre For Creative Arts (University of KwaZulu-Natal) con il supporto del National Lottery Distribution Trust Fund (principale finanziatore), National Film and Video Foundation, KwaZulu-Natal Department of Economic Development and Tourism, HIVOS, City Of Durban, German Embassy, Goethe Institut, e molti altri partner.
Parole chiave : Berlinale, centre for creative arts, documentari, Durban International film Festival, Sudafrica, Talent Camp
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Dal 22 al 27 marzo 2011, saremo presenti con la mostra “Africa Comics- South Africa”, all’interno del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina di Milano. La mostra presenta le migliori storie di autori sudafricani arrivate nelle ultime 5 edizioni del “Premio Africa e Mediterraneo per il migliore fumetto inedito di autore africano”.
Attraverso il fumetto, gli artisti sudafricani raccontano la storia del loro paese, dall’esperienza coloniale, il rapporto tra classe dominante bianca e manodopera nera, alle dure condizioni dei lavoratori nelle miniere, o rappresentano, anche in modo ironico, la disparità di classe in Sudafrica e la condizione della donna, o storie surreali e di fiction.
Il fumetto e la creatività sono due strumenti importanti per comprendere l’Africa di oggi, ed in questo gli artisti sudafricani si sono sempre distinti per qualità, innovazione e ironia delle storie, ricevendo alcuni anche riconoscimenti internazionali per l’editoria a fumetti.
Parole chiave : Fumetto africano, Sudafrica
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30 maggio 2010
Prospettive su moda, cultura e identità in Sudafrica
Presentazione dell’articolo “Prospettive su moda, cultura e identità in Sudafrica”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Masana Chikeka, Design Manager presso il Department of Arts and Culture di Pretoria, Sudafrica.
Durante l’insediamento del presidente Mandela nel 1994, il Sudafrica appariva un paese in cui “dominava l’individualismo”. Infatti, mentre i dignitari del continente, giunti per l’evento, indossavano colorati abiti tradizionali che ne mostravano l’appartenenza culturale, i sudafricani indossavano abiti scuri occidentali, che li designavano solo come individui.
Dopo il 1994, le persone d’ogni razza hanno abbracciato l’ideale mandeliano di riconciliazione e cominciato a indossare abiti che rispecchiavano la loro cultura e la loro identità. Questo fenomeno ha risollevato l’industria della moda e provocato l’emergere di nuovi stilisti sudafricani i quali hanno preso ispirazione dalle loro identità culturali. Con queste ultime ci si riferisce all’insieme di culture, sub-culture e differenti sistemi di valore che compongono il panorama sudafricano.
La ricca tradizione culturale di abiti, artigianato e arte è parte integrante della società sudafricana. L’industria della moda, in questo senso, è stata promotrice e parte dell’iniziale sviluppo del Sudafrica, economicamente, socialmente e culturalmente. Inoltre, il ricostruito senso d’identità ha promosso la diffusione di una serie di tessuti – Seshoeshoe, Venda, Shangaan e Ubeshu – che ne hanno, di rimando, amplificano la visibilità.
Dopo l’ultimo decennio, quindi, la locale industria della moda è stata rivoluzionata. Sono stati introdotti al suo interno (e celebrati) elementi tradizionali prima esclusi. Ma non è tutto, poiché, in questi anni, si è prodotto un fenomeno sincretico caratterizzato dalla fusione d’abiti occidentali e tradizionali. Questo processo ha visto il suo coronamento nell’organizzazione delle “settimane della moda” e nella formazione di compagnie del BEE (Black Economic Empowerment) che operano nel campo della moda.
Se si guarda alla moda nell’intero continente, e soprattutto all’Africa Occidentale, è interessante osservare come la popolazione sia orgogliosa d’adornarsi di vestiti tradizionali della propria regione e di decorare e scarificare il corpo secondo un preciso ideale di bellezza.
Se si considera il solo Sudafrica, la moda ha cominciato a costituire un’espressione rilevante dell’identità culturale solo da un decennio, perciò lo stile conservatore occidentale sembra essere ancora il principale codice d’abbigliamento, promosso anche dalle giovani generazioni affascinate dalla moda funky, che prende ispirazione dalla cultura rap e dall’hip-hop.
Per aquistare on line il N. 69-70 di Africa e Mediterraneo, conoscere o acquistare i numeri precedenti, sottoscrivere un abbonamento vai al sito di Lai-momo, l’editore.
Parole chiave : Moda, N69-70, Sudafrica
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28 maggio 2010
Rundle e il ritorno. La tigre ibrida della moda sudafricana
Presentazione dell’articolo “Rundle e il ritorno. La tigre ibrida della moda sudafricana”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Erica de Greef, Head of Research presso il LISOF di Johannesburg.
Nel processo di creazione dei “personaggi”, delle “identità”, raffigurate nelle passerelle sudafricane, si notano i segni di un lavoro complesso circa la ricostruzione della memoria e delle identità. Nella società del post-Apartheid, che ha sperimentato radicali trasformazioni e profonde esplorazioni del passato, come quella della Commissione per la verità e la conciliazione, la moda
porta con sé tratti del passato che il presente sta rinegoziando. Attraverso l’esplorazione del lavoro degli stilisti sudafricani, si possono analizzare i vari livelli di questa trasformazione.
Walter Benjamin ha ideato il concetto di “tigersprung”, il balzo di tigre, che si riferisce alle tracce del passato e alla loro relazione col presente.
In particolare, Benjamin definisce “tigersprung”, quegli strumenti (tracce) atti a produrre cambiamenti nella struttura delle esperienze della vita moderna, caratterizzata da balzi violenti, alienazione, dislocazione.
Nel caso del Sudafrica, il concetto di “tigersprung” è utilizzato per cercare nella moda quelle tracce storiche che rimandano al trauma della recente storia del Paese.
Clive Rundle, stilista sudafricano, usa la moda come “palinsesto”, inteso, in senso filologico, come una pagina scritta, cancellata e riscritta nuovamente. La sua collezione Estate 2009, presentata durante la Settimana della moda sudafricana a Johannesburg, confonde il passato col presente attraverso l’uso del bianco e nero e d’indumenti e oggetti che rimandano indietro nel tempo: calze (in bianco o nero), reggicalze (in nudo) e slip che si rifanno ai modelli del secolo scorso. La modernità prende così i toni seppia del ricordo.
Clive Rundle, tra gli stilisti sudafricani è forse quello il cui approccio evidenzia meglio la nozione di moda come strumento per la narrazione sociale e luogo della negoziazione del ricordo. Ma non è il solo. Molti artisti sudafricani si son dovuti confrontare col passato e rinegoziarlo, esplorando la storia materiale del Sudafrica come un archivio di memorie e ripresentando periodi noti in nuove forme.
A chi, come Pierre Nora, sostiene che quest’esplorazione del passato non sia ascrivibile al rango di “storia”, che per definizione è impersonale, ma a quella del ricordo, bisogna fare presente che gli stilisti sudafricani inseriscono queste tracce della memoria nel contesto storico più che nel ricordo personale dello shock.
È in questo senso la moda può farsi metafora della “Storia” della trasformazione del Sudafrica, proprio per la sua abilità nel rappresentarne la precarietà e l’instabilità.
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Parole chiave : Apartheid, Moda, N69-70, Sudafrica
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19 maggio 2010
La moda in Sudafrica
Presentazione dell’articolo “La moda in Sudafrica”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Lakshimi Parther, dottoranda in Storia dell’arte africana presso l’Université Paris 1 – Panthéon Sorbonne.
A partire dal 2000, v’è stata una vera e propria esplosione della moda sudafricana soprattutto a partire dall’istituzione della prima “settimana della moda”, eccellente vetrina internazionale per gli stilisti. Attraverso la partecipazione a questi rituali, come le sfilate in genere, gli stilisti affermano il loro status e il loro diritto di identificare degli oggetti come “rari” attraverso il meccanismo della griffe. La moda, in questi termini, si caratterizza come un vero e proprio sistema di credenze che include le capacità creatrici degli stilisti, l’approvazione di professionisti del settore e il credo dei consumatori.
Ma non tutta la moda in Sudafrica passa per le passerelle. In Sudafrica si confrontano infatti due “reti” della moda. Questo concetto di rete viene utilizzato proprio per mettere in risalto le relazioni tra l’insieme di persone che comunicano e che collaborano per crearla e darle rilievo. Delle due reti, una è istituzionalizzata – legittimata da scuole di moda, settimana della moda, media, riconoscimento dei consumatori, ecc. – mentre l’altra, definita in senso dispregiativo “tradizionale”, ha la sua sede in tanti piccoli laboratori- boutique sparsi nelle grandi città.
A questo binomio corrispondono due diverse figure di stilista. Lo stilista “riconosciuto” gode infatti di grande visibilità ma, dovendo confrontarsi con l’Occidente e con la sua definizione di moda e di maniera “africana” di vestirsi, vive forti tensioni identitarie. Gli stilisti “non riconosciuti”, ai margini della rete della moda, hanno invece un rapporto migliore con la cultura del luogo. Questi, infatti, producono gli abiti specifici per particolari pratiche culturali (ad esempio matrimoni, cerimonie in genere). Tale produzione viene legittimata dal valore sociale e culturale dell’abito, e diffusa grazie al passa-parola, alla comunicazione del quotidiano.
Gli stilisti “non riconosciuti” sono in gran parte immigrati da Mali, Nigeria, Ghana, Repubblica
Democratica del Congo, Burundi, Malawi, Zimbawe. Le loro produzioni sono per lo più indossate da immigrati provenienti dall’Africa Occidentale, ma sempre più questi modelli sono graditi anche dai Sudafricani, che apprezzano le innovazioni, provenienti da lontano, apportate ai loro abiti “tradizionali”.
Si compie, in questo modo, nella moda sudafricana, quella che Bourdieu definisce una “rivoluzione
specifica”, ovvero una rivoluzione costituita dalla «sincronizzazione d’una rivoluzione interna
e di qualcosa che succede fuori, nell’universo inglobante».
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Parole chiave : Moda, N69-70, Sudafrica
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28 dicembre 2009
I graffianti disegni di Anton Kannemeyer
Anton Kannemeyer, uno dei miei artisti preferiti nel panorama africano, ha appena concluso una mostra personale alla prestigiosa galleria Brodie/Stevenson di Johannesburg. Kannemeyer ha presentato una selezione di disegni e tavole originali, inclusi alcuni schizzi dagli album a fumetti.
Perché Anton è anche, anzi soprattutto, fumettista, con il nome d’arte Joe Dog. Assieme a Conrad Botes, studente con lui alla Stellenbosch University (Western Cape), fondò nel 1992 la rivista Bitterkomix, appartenente al genere underground, famosa per i suoi attacchi alla cultura e alla lingua afrikaner, e per la feroce critica alla società sudafricana, all’ipocrisia delle convenzioni morali, alla violenza nascosta sotto l’ordine delle strutture familiari.
Nei loro fumetti Botes e Kannemeyer fanno numerosi riferimenti alla situazione politica del loro paese, divertendosi a collocare il punto di vista nel recente passato dell’Apartheid o nella storia della dominazione coloniale bianca.
Con le sue satire velenose, Kannemeyer, figlio di un prestigioso accademico e critico della letteratura afrikaans, ha rappresentato suo padre – e l’establishment bianco da lui rappresentato – implicato in crimini impensabili per la bigotta società sudafricana dell’Apartheid.
Kannemeyer ha una capacità camaleontica di adottare gli stili di altri autori e generi, come si vede nei lavori presentati in questa esposizione personale, incluse due nuove versioni in grande formato della sua famosa reinterpretazione di Tintin, una parodia critica del personaggio di Hergé legato alla colonizzazione belga in Congo. Inoltre, all’interno della serie Alphabet of Democracy sono esposte alcune stampe rare e in particolare Z is for Zuma.
In Africa e Mediterraneo n. 38 (4/01), il cui dossier era dedicato al Sudafrica, abbiamo pubblicato un articolo del critico e sceneggiatore Andy Mason dal titolo “Black and White in Ink: Discourses of Resistance in South African Cartooning”, dove viene tracciata una storia del fumetto sudafricano con un capitolo dedicato a Bitterkomix.
Di Botes e Kannemeyer Mason dice: “Lavorando in un modo davvero personale e confessionale con questi temi, questi artisti hanno prodotto una serie di documenti che scavano nella psiche dell’Apartherid più in profondità di quanto ogni altra vignetta satirica o fumetto abbiamo mai fatto, e probabilmente tagliano più profondamente di ogni altro lavoro prodotto in altre discipline”.
Pubblichiamo qui alcune immagini che Anton ci ha inviato. Abbiamo invece messo sulla cover del numero di AeM che sta uscendo un suo splendido e inquietante disegno, che non anticipiamo qui, dove l’autore ha davvero dispiegato tutta la sua abilità tecnica…
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Parole chiave : Anton Kannemeyer, Apartheid, Conrad Botes, Joe Dog, Sudafrica
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31 luglio 2009
Recensione – “La Madonna di Excelsior”, di Zakes Mda
Riporto qui un brano del romanzo La Madonna di Excelsior, di Zakes Mda (2002, ed. it Edizioni e/o 2006, traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini), uno dei migliori scrittori sudafricani. Il romanzo racconta la storia di una donna, Niki, abitante nella township Mahlatswetsa, accanto alla città di Excelsior, e del caso che nel 1971 coinvolse 19 cittadini accusati di avere avuto rapporti sessuali tra bianchi e neri e di avere quindi violato l’Immorality Act. Niki partorisce una bimba meticcia, Popi, bellissima ma sempre discriminata dai neri per il suo aspetto “misto”. Popi è in realtà il frutto di una vendetta nei confronti di una donna che aveva impietosamente umiliato Niki: è per questo che Popi accetta la relazione con il marito.
La descrizione di questi rapporti extraconiugali tra nere e bianchi, in cui le nere sono oggetto di inconfessabile desiderio – perché proibite dalle leggi dello Stato e della religione – ma anche di sopraffazione, è inserita con efficace contrasto nei quadretti dell’ambiente ipocrita, moralista e basato sulla violenza in cui erano barricati i bianchi nell’epoca dell’Apartheid.
Ma il romanzo, seguendo le vicende della protagonista, racconta anche la crisi e il crollo di questa società “ideale”, e la salita al potere della maggioranza africana nella Nazione Arcobaleno di Mandela. Questo cambio epocale viene raccontato attraverso il caso del consiglio comunale della cittadina di Excelsior, dove i vecchi consiglieri afrikaner si trovano seduti accanto a nuovi politici neri, abitanti della township, e con un sindaco nero, Viliki, il fratello maggiore di Popi in precedenza impegnato nel movimento anti-Apartheid.
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