30 giugno 2010

L’oratore tra tradizione e innovazione – L’esempio delle praterie del Camerun occidentale

in: Cultura

Presentazione dell’articolo “L’oratore tra tradizione e innovazione – L’esempio delle praterie del Camerun occidentale”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Divine Che Neba, senior lecturer in Orature and Comparative Literature presso l’Università del Burundi.

Come ci suggerisce il titolo, soggetto di questo articolo è la tradizione orale delle Grass Landers (praterie) della regione nord-est del Camerun.
Il termine Grass Landers ha anche un vero e proprio significato culturale e antropologico. Esso indica infatti anche i valori condivisi tra le diverse popolazioni che vi abitano, con canti e performance in cui storie e parole cambiano ma i temi trattati sono fondamentalmente gli stessi. Centrale è la figura dell’oratore, che ha il compito di conservare la cultura e l’identità del proprio popolo.
Recitando la propria arte, l’oratore rispetta e ribadisce la tradizione della sua gente. Perciò tale figura risulta essere molto importante perché lega in sé simboli sociali, valori, storia, credenze religiose e relazioni morali e sociali. Egli è quindi un vero e proprio punto di riferimento per la società tutta, una sorta di archivio vivente. Agisce come custode della pura e originale tradizione ancestrale, ma non è solo così: nel momento in cui narra, canta e recita il passato, l’oratore inevitabilmente lo fa suo, lo reinterpreta; egli è anche “creatore”.
Come un vero professionista l’oratore deve conoscere precisamente i vari canti e saperli mescolare tra loro, sapere come iniziare e come finire le sue performance, essere in grado di scomporre e ricomporre le parole della tradizione per riuscire a trasmettere ai fruitori il suo messaggio, deve riuscire a catturare l’attenzione della gente attraverso un linguaggio fresco e variegato, una voce forte, la mimica facciale, l’uso di metafore e figure retoriche.
In breve, ciò che permette alla tradizione orale di sopravvivere è quindi proprio l’oratore, attraverso il suo talento, la sua creatività e fantasia. Questi sono i fattori più significativi di un’orazione per coinvolgere l’uditorio e per questo la figura dell’oratore è insostituibile, nemmeno paragonabile alla staticità e ripetitività di una registrazione, di un filmato o di una fotografia. Ogni differente contesto necessita di un differente stile di orazione, nessuno può essere uguale a un altro.
La presenza stessa dell’oratore è dunque la prova vivente della sopravvivenza della tradizione di un popolo. Di conseguenza non è esagerato dire che la morte di un oratore equivale alla morte del suo messaggio e che è solamente attraverso la figura di questo medium che può essere studiata e compresa la tradizione.

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25 giugno 2010

Appropriazione e “appropriatezza” in architettura: “skin” come un “corpo per viverci”

Presentazione dell’articolo “Appropriazione e appropriatezza in architettura: skin come un corpo per viverci”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Suzette Grace, lectures presso l’Università di Johannesburg e laureata in cinque discipline tra cui Architettura, Filosofia e Belle arti.

L’architettura sudafricana esplora le mode alla ricerca di un’identità stilistica che sia adatta al tempo e ai luoghi che gli sono propri. Allo stesso tempo, s’appropria del substrato storico rielaborandolo in modo eclettico. L’oggetto di queste sperimentazioni è la skin (lett. “pelle”, ma qui anche “involucro”, “abito”) che viene “abbigliata (a festa)”, truccata, secondo la tendenza internazionale di rinnovare fortemente la superficie degli edifici. Fuor di metafora, architettura e moda hanno diversi punti in comune in quanto condividono le caratteristiche vitruviane di funzione, struttura ed estetica e all’equilibrio di questi elementi sono legati i dilemmi dell’estetica architettonica.
L’architettura non è una forma d’arte autonoma e la sperimentazione creativa dello skin building necessita di patrocinio. Le risorse economiche, così come la legislazione (si pensi ad esempio le misure relative alla sostenibilità degli edifici) hanno costituito in passato una limitazione alla creatività e alla libertà d’espressione. Oggi, però, una nuova risposta estetica comincia a emergere.
Tre casi di studio illustreranno la questione. Il primo esempio è il Maropeng Visitor Centre, collocato nel sito detto “la Culla dell’Umanità”, presso Johannesburg. La forma dell’edificio rappresenterebbe un’antica collinetta per la sepoltura, ma è stata interpretata anche in altri modi, ad es. come la maschera dei due volti di Giove. L’edificio sembra un’estensione del paesaggio circostante, e trasmette un senso di varietà rappresentativo della complessità culturale del paese.
Il secondo esempio è l’Hector Pieterson Museum, che commemora la rivolta degli studenti di Soweto nel 1976. Il sito è diventato un simbolo nazionale d’importanza socio-politica. L’ideazione del museo, la cui forma ricorda una fortezza, si è dovuta confrontare con l’area periferica circostante caratterizzata dalla presenza di abitazioni low-cost: il risultato è stato l’inserimento “neutro” del museo nel paesaggio.
L’ultimo esempio è quello del Mapungubwe Interpretation Centre, museo del vicino sito archeologico. È collocato in un’area rocciosa e prende diretta ispirazione dal paesaggio circostante in termini di materiale, forme e tecnologia: la sua struttura richiama, infatti, le forme del paesaggio circostante.
Questi edifici s’appropriano, anche se in modi differenti, del contesto naturale e delle origini storico-architettoniche allo scopo d’esser rilevanti nel lungo periodo. D’altra parte, giocando con le tendenze attuali, cercano d’esser appropriati al particolare momento della loro ideazione.

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20 giugno 2010

I laboratori della condivisione: arte, coesione sociale e sviluppo sostenibile

Presentazione dell’articolo “I laboratori della condivisione: arte, coesione sociale e sviluppo sostenibile”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Blaise Patrix, artista nato a Parigi e poi residente per una ventina d’anni in Africa Occidentale.

Da circa 10 anni, il progetto Les Ateliers Partage, nato per iniziativa dell’artista Blaise Patrix, porta avanti attività finalizzate a risvegliare creatività personale e collettiva e a promuovere coesione sociale e sviluppo sostenibile. È attualmente in fase di progettazione un’iniziativa su scala internazionale che prevede la realizzazione di atelier in Belgio, Francia e Italia, basati sulla collaborazione di artisti noti e cittadini per la creazione di un’opera collettiva. Le opere collettive prodotte verranno poi diffuse attraverso l’affissione, secondo varie modalità (tra cui anche delle mongolfiere), in almeno sei Paesi europei.
In Belgio il progetto sarà portato avanti da SMartBe e da Vénerie. SMartBe, coordinatore ammini- strativo di LAP (Les Ateliers Partage), è un’associazione che propone servizi di tipo amministrativo e logistico per artisti e che si occuperà della gestione e produzione dei vari progetti culturali. La Vénerie, un centro culturale che si occupa di formazione e diffusione dell’arte e dell’organizzazione di un festival d’arte di strada, istituirà degli ateliers di fotografia per famiglie, rappresentative di tutte le classi sociali, sul tema dell’ambiente.
In Francia nell’ambito di Couverture vivante – un’esposizione collettiva internazionale costituita da opere su tessuto confezionate da donne di tutto il mondo – saranno organizzati 20 ateliers destinati alle donne di Parigi e delle sue banlieue.
In Italia il progetto LAP sarà portato avanti dalla cooperativa Lai-momo. Per il progetto LAP realizzerà laboratori artistici per la creazione ed esposizione di un’opera collettiva nell’ambito del programma di sviluppo sociale e culturale che Lai-momo da due anni conduce per la popolazione immigrata presso Calderara di Reno (Bologna); una rete mediatica per diffondere le informazioni sul progetto; un sito Internet; la pubblicazione e la diffusione di un kit di presentazione in francese, italiano e rumeno.

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15 giugno 2010

Cosa caratterizza l’identità della moda in Namibia?

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Cosa caratterizza l’identità della moda in Namibia?”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Melanie Harteveld Beker, stilista namibiana e dottoranda sul tema della formazione delle identità e la moda namibiana.

Dalla metà degli anni Novanta si assiste in tutto il continente africano a una grande rinascita della moda, un fenomeno che coinvolge anche la Namibia.
Anche qui infatti la moda non solo offre ai consumatori l’opportunità di esprimere, attraverso gli indumenti, la propria stessa identità, ma offre anche agli stilisti la libertà di sperimentare ed esprimersi all’interno di un contesto “veramente namibiano”.
Da allora infatti anche un gran numero di stilisti namibiani, inclusa l’autrice dell’articolo, lavorano piuttosto isolati dagli altri, e lentamente hanno iniziato a costruire quella che sembra essere una nuova identità stilistica su base regionale. Ciò ha fatto sì che la sartoria namibiana sia da sempre molto lontana da una produzione industriale di massa, diventando quindi uno stile assai di nicchia; e la ragione di questo è che nessuno stilista crea abiti in grande quantità.
Guardando alle collezioni passate, è evidente che la forte influenza della cultura materiale namibiana è un’importante fonte d’ispirazione per gli stilisti locali.
Tratti distintivi sono i colori “naturali”, i tessuti e le stoffe uniche e una grandissima cura del dettaglio.
Anche per quanto riguarda il colore, gli stilisti trovano spesso ispirazione attraverso due fonti: gli abiti tradizionali e soprattutto l’ambiente esterno (paesaggi, acqua, piante, animali, ecc.); essi infatti descrivono spesso le loro scelte di colore come ispirate dalla natura.
Le stoffe provengono generalmente da materiali grezzi (tessuti, fibre e altri materiali), decorati poi con effetti visivi particolari come cuciture e riflessi e resi davvero unici dall’utilizzo di pelli di capra e mucca, odelela (stoffa di cotone a righe), piume, gusci di uova di struzzo, perline e semi.
La sperimentazione nell’utilizzo di varie combinazioni delle stoffe con tali decorazioni è la giusta strada per inserire elementi tipicamente namibiani nell’industria tessile. Facendo questo gli stilisti saranno in grado di aggiungere la propria stessa identità personale nel processo di creazione delle stoffe e infine degli indumenti.
Gli stilisti della Namibia hanno dunque cominciato, dalla metà degli anni Novanta, quello che sembra essere un movimento collettivo attraverso lo sviluppo di una moda identitaria e “tradizionale” ed è altresì evidente quanto essi siano ancora fortemente influenzati dagli elementi derivanti dai paesaggi e dalla cultura delle loro origini.

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07 giugno 2010

Il dandismo in Africa

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Il dandismo in Africa”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Marie-Amy Mbow, archeologa, ricercatrice sul tessile africano, docente presso l’Institut Fondamental d’Afrique Noire e artista.

A giudicare dalla diffusione delle insegne dei sarti nelle capitali africane e dai frequenti ammodernamenti a cui sono sottoposti gli abiti, soprattutto quelli dei giovani, la sartoria vive un momento di grande vitalità nel continente.
Sebbene stilisti africani di fama rivendichino un proprio ruolo, questa effervescenza sembra essere soprattutto il prodotto della passione e dell’abilità di sarti locali e degli stessi giovani africani che non possono in alcun modo permettersi di acquistare gli abiti dei grandi stilisti africani.
Un ruolo centrale in queste dinamiche hanno i cosiddetti fashion freak o dandy, che hanno fatto della moda una vocazione e un lavoro. I dandy africani, per di più originari delle ex-colonie francesi o inglesi, hanno messo il loro amore per l’eleganza al servizio di amici, conoscenti e clienti. Riuniti in club con speciali codici per gli adepti, pensano se stessi come una sorta d’aristocrazia.
I precursori di questo movimento sono senza dubbio i dandy di Bacongo in Brazzaville, che hanno fondato il club denominato SAPE (Société des Ambianceurs et Personnes Elégantes o Society of Makers of Atmosphere and Elegant People).
Il confronto con i dandy del secolo scorso è inevitabile. Mentre questi miravano a scioccare la società borghese europea, i membri della SAPE (detti in francese sapeurs) seguono la moda per affermarsi in società dove l’apparenza è tutto.
Sociologicamente questo fenomeno può essere visto come il risultato di una dinamica culturale nata dall’incontro tra cultura africana e cultura occidentale; una dinamica che, seppure l’identificazione con un modello dominante sia piuttosto evidente, non può essere circoscritta e interpretata semplicemente come assimilazione in quanto le abilità, le risorse e le aspettative dei sapeurs sono centrali. Questi, e i dandy africani in generale, attraverso gli strumenti dei rituali e dei club, creano nuovi modelli e nuovi valori, andando a costituire una vera e propria subcultura.
Il fenomeno dei sapeur, in conclusione, presenta le città africane come laboratori dell’innovazione dove emergono nuovi stili e modelli sociali sperimentali da elaborare e rielaborare e in cui è comunque visibile, in una certa misura, l’influenza della tradizione.

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03 giugno 2010

Mimetizzazione urbana. Safari di strada

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Mimetizzazione urbana. Safari di strada”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Ann Gollifer, storica dell’arte e artista.

Il tessuto è una lezione di storia materializzata, che passeggia nelle città e nei villaggi di tutta l’Africa.
La storia dell’origine e della diaspora dei tessuti wax e fancy comincia con l’arrivo dei mercanti olandesi in Indonesia nel diciottesimo secolo, i quali copiarono la tecnica batik e ne introdussero la produzione in Olanda. I batik europei (detti wax) erano realizzati attraverso apparecchiature industriali ed erano più costosi dei loro simili artigianali.
La popolarità delle stampe wax crebbe sia in Europa che in Africa tra la metà e la fine del diciannovesimo secolo. La colonizzazione creò una forte domanda di questi tessuti in Africa, al punto che l’industria europea assorbì, nel suo repertorio, motivi e gusti africani. I colonizzatori utilizzavano questi prodotti per aver accesso al continente e alla sua popolazione; ma, allo stesso tempo, registrando i gusti dei clienti africani, l’importazione di questi tessuti permise la salvaguardia di tradizioni vitali e la loro congiunzione con la contemporaneità.
Nel XX secolo l’industrializzazione della produzione tessile si sviluppò in Africa in collaborazione con l’Europa. In particolare, grandi impianti furono aperti in Nigeria e Ghana, i cui prodotti cominciarono a rivaleggiare con le manifatture europee.
Oggi le fabbriche tessili olandesi e inglesi, ad eccezione di Vlisco, hanno chiuso. E anche la produzione africana è diminuita a causa del mercato degli abiti usati e della concorrenza di tessuti indiani e cinesi prodotti espressamente per il mercato africano.
Gollifer, stimolata dalla ricerca su questi tessuti, ha cercato di creare qualcosa che coniugasse la profondità storica del wax con la moda contemporanea e nel 2007, con un gruppo di giovanissimi, desiderosi d’acquisire uno stile maggiormente consapevole, ha creato l’etichetta Urban Camouflage. Insieme hanno organizzato una serie di “safari di strada”, durante i quali si recavano in luoghi particolari della città e realizzavano delle performance. Queste performance avevano impatto sia sulla popolazione presente sia sul gruppo stesso, che reagiva in modo diverso a seconda dei luoghi.
Il progetto ha dato all’autrice l’opportunità di trovare quello che definisce «il senso più contemporaneamente africano» della moda e dello stile, che ne incorpora la storia, l’identità, l’ironia e l’innovazione.

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01 giugno 2010

Il sistema prêt-à-porter

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Il sistema prêt-à-porter”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Barbara Holub, artista e membro di Transparadiso.

Nel progetto The System: Prêt-à-porter Barbara Holub, artista austriaca, partendo dal fenomeno quotidiano dell’abbigliamento, analizza differenti modelli economico-sociali relativi allo scambio o alla vendita d’abiti usati. Un piccolo video realizzato presso un yard sale (mercatino domestico) di Los Angeles, si concentra soprattutto sul cambiamento della postura che le persone assumono nel weekend quando si recano ad acquistare o scambiare abiti (usati) nei cortili anteriori loro o dei loro vicini. Questo processo incoraggia la comunicazione in aree residenziali che sarebbero altrimenti tagliate fuori dal mondo esterno. Nel video, lo scambio di beni ed eventualmente di denaro non è necessariamente basato sul profitto economico e costituisce la base della comunicazione.
Un modello di relazione inversa, centrata al profitto, può essere visto nel pannello realizzato dall’artista ed esposto presso la galleria Künstlerhaus a Vienna nel 2006. Il pannello mostra un macchinario per la selezione degli abiti usati utilizzato dall’organizzazione Humana. Quest’organizzazione, di cui si è interessata l’artista austriaca, è stata fondata in Danimarca ma è attiva a livello mondiale ed ha operato anche a Vienna, dove avveniva la selezione degli abiti usati per il mercato africano. Oggi quest’attività è stata dislocata in Bulgaria e Turchia, dove il costo del lavoro è inferiore.
Sul pannello è possibile vedere l’immagine di una persona graficamente ricoperta dalla fotografia del macchinario per la selezione degli abiti. La persona rappresenta simbolicamente la sparizione di questo lavoro a Vienna. Le foto scattate durante il fashion show al Künstlerhauspassage di Vienna sono poi state utilizzate per creare un paravento esposto al Plymouth Arts Centre.
Barbara Holub lancia un appello su questa rivista agli artisti africani interessati a sviluppare una collezione a partire dagli abiti usati importati dall’Europa, che costituisca un’interpretazione contemporanea della moda africana. Lo scopo è trovare un’interpretazione ibrida della cultura europea e di quella africana. The System: Prêt-à-porter, nato come progetto artistico, potrebbe portare alla creazione di un’etichetta che più che soddisfare il desiderio d’esotismo europeo, rappresenti la con- temporaneità della moda africana.

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30 maggio 2010

Moda ecologica in Africa: gli stilisti guadagnano il centro della scena

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Moda ecologica in Africa: gli stilisti guadagnano il centro della scena”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Novell Zwangendaba, artista dello Zimbabwe e direttrice dell’etichetta BlackScissors.

Il degrado ambientale, risultato dei danneggiamenti compiuti dall’uomo all’ecosistema terrestre, e le sue conseguenze, hanno oggi visibilità globale. La Conferenza delle Nazioni Unite su Commercio e Sviluppo chiede che le risorse naturali siano utilizzate in modo sostenibile. Così anche le firme della moda “ecologica” hanno scelto d’utilizzare materiali biologici e risorse rinnovabili.
Gli stilisti africani sono tra i pionieri di questo nuovo corso della moda: lavorando nella direzione della preservazione dell’ambiente e del consumo etico, producendo a partire risorse sostenibili e/o alternative, come quelle provenienti dal riciclo.
Alphadi, presidente di All-Africa Fashion Designers, ha lanciato una campagna che, attraverso la creatività degli stilisti, coniuga preoccupazioni per l’ambiente e moda. Alphadi ha negozi a New York, Parigi e in diversi Stati africani, una lista di clienti notevole, che include le mogli di molti presidenti africani, Hillary Clinton e Michael Jackson: egli sostiene che la promozione della “moda verde” sia un bene non solo per l’ambiente ma anche per il portafoglio. I suoi capi d’alta moda eco-chic costano diverse migliaia di dollari.
I prodotti “verdi” e i loro benefici presso i consumatori sono promossi in Africa dai “Real Simple Green Innovation Awards”. Questo premio, istituito nel 2008, ha visto come primo vincitore MADE, la nuova collezione di gioielli della Topshop, prodotta dall’immaginazione dei più innovativi stilisti africani, attraverso l’uso di materiale alternativo riciclato. I proventi della vendita di questi gioielli vanno direttamente ai produttori e una percentuale è destinata a finanziare progetti di formazione per le comunità locali. Nel 2009 il premio è stato vinto da Brett Kaplan con la linea d’abbigliamento Woolworths Green Label, fatta col 100% di cotone organico.
Quest’onda di sensibilizzazione in campo ambientale interessa anche l’Africa Orientale, dove il marchio “Made in Africa”, è diventato un prodotto esclusivo di A QUESTION OF, una compagnia che vende merce biologica e T-shirt alla moda prodotte in Tanzania per il mercato equo-solidale. Il cotone biologico, per questa compagnia, non è soltanto una soluzione amica dell’ambiente: oltre ad esser coltivato senza fertilizzanti chimici o pesticidi, infatti, è prodotto garantendo condizioni di lavoro adeguate, certificate Global Organic Textile Standards (GOTS).
La ricerca di preservazione e sostenibilità sono le più importanti azioni in campo ambientale oggi. Anche Vivienne Westwood, la quale sostiene che la moda, poiché effimera, non può esser un’arte, ha realizzato (suo malgrado!) pezzi d’arte alla moda, usando materiali riciclati.

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30 maggio 2010

Prospettive su moda, cultura e identità in Sudafrica

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Prospettive su moda, cultura e identità in Sudafrica”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Masana Chikeka, Design Manager presso il Department of Arts and Culture di Pretoria, Sudafrica.

Durante l’insediamento del presidente Mandela nel 1994, il Sudafrica appariva un paese in cui “dominava l’individualismo”. Infatti, mentre i dignitari del continente, giunti per l’evento, indossavano colorati abiti tradizionali che ne mostravano l’appartenenza culturale, i sudafricani indossavano abiti scuri occidentali, che li designavano solo come individui.
Dopo il 1994, le persone d’ogni razza hanno abbracciato l’ideale mandeliano di riconciliazione e cominciato a indossare abiti che rispecchiavano la loro cultura e la loro identità. Questo fenomeno ha risollevato l’industria della moda e provocato l’emergere di nuovi stilisti sudafricani i quali hanno preso ispirazione dalle loro identità culturali. Con queste ultime ci si riferisce all’insieme di culture, sub-culture e differenti sistemi di valore che compongono il panorama sudafricano.
La ricca tradizione culturale di abiti, artigianato e arte è parte integrante della società sudafricana. L’industria della moda, in questo senso, è stata promotrice e parte dell’iniziale sviluppo del Sudafrica, economicamente, socialmente e culturalmente. Inoltre, il ricostruito senso d’identità ha promosso la diffusione di una serie di tessuti – Seshoeshoe, Venda, Shangaan e Ubeshu – che ne hanno, di rimando, amplificano la visibilità.
Dopo l’ultimo decennio, quindi, la locale industria della moda è stata rivoluzionata. Sono stati introdotti al suo interno (e celebrati) elementi tradizionali prima esclusi. Ma non è tutto, poiché, in questi anni, si è prodotto un fenomeno sincretico caratterizzato dalla fusione d’abiti occidentali e tradizionali. Questo processo ha visto il suo coronamento nell’organizzazione delle “settimane della moda” e nella formazione di compagnie del BEE (Black Economic Empowerment) che operano nel campo della moda.
Se si guarda alla moda nell’intero continente, e soprattutto all’Africa Occidentale, è interessante osservare come la popolazione sia orgogliosa d’adornarsi di vestiti tradizionali della propria regione e di decorare e scarificare il corpo secondo un preciso ideale di bellezza.
Se si considera il solo Sudafrica, la moda ha cominciato a costituire un’espressione rilevante dell’identità culturale solo da un decennio, perciò lo stile conservatore occidentale sembra essere ancora il principale codice d’abbigliamento, promosso anche dalle giovani generazioni affascinate dalla moda funky, che prende ispirazione dalla cultura rap e dall’hip-hop.

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28 maggio 2010

Rundle e il ritorno. La tigre ibrida della moda sudafricana

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Rundle e il ritorno. La tigre ibrida della moda sudafricana”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Erica de Greef, Head of Research presso il LISOF di Johannesburg.

Nel processo di creazione dei “personaggi”, delle “identità”, raffigurate nelle passerelle sudafricane, si notano i segni di un lavoro complesso circa la ricostruzione della memoria e delle identità. Nella società del post-Apartheid, che ha sperimentato radicali trasformazioni e profonde esplorazioni del passato, come quella della Commissione per la verità e la conciliazione, la moda
porta con sé tratti del passato che il presente sta rinegoziando. Attraverso l’esplorazione del lavoro degli stilisti sudafricani, si possono analizzare i vari livelli di questa trasformazione.
Walter Benjamin ha ideato il concetto di “tigersprung”, il balzo di tigre, che si riferisce alle tracce del passato e alla loro relazione col presente.
In particolare, Benjamin definisce “tigersprung”, quegli strumenti (tracce) atti a produrre cambiamenti nella struttura delle esperienze della vita moderna, caratterizzata da balzi violenti, alienazione, dislocazione.
Nel caso del Sudafrica, il concetto di “tigersprung” è utilizzato per cercare nella moda quelle tracce storiche che rimandano al trauma della recente storia del Paese.
Clive Rundle, stilista sudafricano, usa la moda come “palinsesto”, inteso, in senso filologico, come una pagina scritta, cancellata e riscritta nuovamente. La sua collezione Estate 2009, presentata durante la Settimana della moda sudafricana a Johannesburg, confonde il passato col presente attraverso l’uso del bianco e nero e d’indumenti e oggetti che rimandano indietro nel tempo: calze (in bianco o nero), reggicalze (in nudo) e slip che si rifanno ai modelli del secolo scorso. La modernità prende così i toni seppia del ricordo.
Clive Rundle, tra gli stilisti sudafricani è forse quello il cui approccio evidenzia meglio la nozione di moda come strumento per la narrazione sociale e luogo della negoziazione del ricordo. Ma non è il solo. Molti artisti sudafricani si son dovuti confrontare col passato e rinegoziarlo, esplorando la storia materiale del Sudafrica come un archivio di memorie e ripresentando periodi noti in nuove forme.
A chi, come Pierre Nora, sostiene che quest’esplorazione del passato non sia ascrivibile al rango di “storia”, che per definizione è impersonale, ma a quella del ricordo, bisogna fare presente che gli stilisti sudafricani inseriscono queste tracce della memoria nel contesto storico più che nel ricordo personale dello shock.
È in questo senso la moda può farsi metafora della “Storia” della trasformazione del Sudafrica, proprio per la sua abilità nel rappresentarne la precarietà e l’instabilità.

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