Siamo abituati a pensare al lavoro di cura come appannaggio di donne provenienti dall’est Europa che in Italia cercano il modo per guadagnare denaro e inviare rimesse a casa. Ma ci sono ben altre realtà da tenere in considerazione. Il Libano, per esempio, è meta di tante lavoratrici domestiche provenienti da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh e Filippine. Come vivono queste donne? Quali sono le loro condizioni lavorative? Che diritti vengono loro riconosciuti? A questi interrogativi dà risposta l’articolo When Immigration Becomes Slavery. Migrant Housemaids in Lebanon, the Normalization of the Unusual, scritto da Omar Bortolazzi e pubblicato sul numero 79 di Africa e Mediterraneo, di cui qui vi proponiamo l’abstract in italiano.
Quella libanese è una società ossessionata dalla logica di classe e le lavoratrici domestiche migranti sono spesso usate come strumento per ostentare benessere da parte di coloro che non potrebbero mai permettersi il lusso di una cameriera autoctona. Le domestiche immigrate costano meno e soprattutto non hanno diritti, il razzismo e l’estrema severità nei loro confronti sono giustificati a livello sociale, e questo le pone in una condizione di completa sudditanza nei confronti dei loro datori di lavoro. Secondo le statistiche ufficiali 120.000 donne straniere lavorano come domestiche in Libano, alle quali si devono aggiungere le migranti irregolari. Provengono soprattutto da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh, Filippine. La predominanza dello Sri Lanka come Paese di origine ha reso il termine “srilankese” sinonimo di “lavoratrice domestica” nell’arabo libanese colloquiale.
Vige il sistema della kafala, ovvero della sponsorizzazione, in base al quale la regolarità della posizione delle lavoratrici dipende completamente dalla famiglia nella quale sono impiegate; perdere il lavoro o scappare significa diventare illegali. Le donne che abbandonano la casa nella quale lavorano molto spesso sono costrette a pagare per la restituzione del passaporto. Infatti, nel 99% dei casi, il documento viene loro confiscato della famiglia che le assume. Secondo testimonianze raccolte da Human Rights Watch, molto spesso le lavoratrici vengono confinate in casa e i loro contatti con l’esterno sono ridotti al minimo, non viene dato loro il giorno libero per paura che possano rimanere incinte e che si coalizzino con altre domestiche per pretendere salari più alti e condizioni di lavoro migliori.
Tanti sono i casi di donne che subiscono violenze e abusi perché è pratica diffusa maltrattare le domestiche nella convinzione che così facendo diventino più obbedienti e servili. Questa è la condizione della maggioranza delle donne che vivono con la famiglia per la quale lavorano, migliore è la condizione di quelle che finita la giornata lavorativa tornano alle loro case. Inutile denunciare le aggressioni, la polizia non fa altro che aggiungere ulteriori violenze a quelle già subite e molto spesso forza le donne a confessare reati non commessi come il furto, in modo da incarcerarle. Tutti gli sforzi per introdurre una nuova legge che regolamenti la presenza e il lavoro delle lavoratrici domestiche sono falliti e al momento non ci sono le condizioni per cui la loro situazione possa migliorare nonostante l’impegno di tante NGO.
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Parole chiave : Human Rights Watch, kafala, lavoratrici domestiche, Libano, Omar Bortolazzi
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Badanti, assistenti familiari, domestiche, questi sono i ruoli ricoperti dalla stragrande maggioranza delle donne immigrate lavoratrici. Figure diventate indispensabili per tante famiglie italiane, pilastri su cui poggia il difficile lavoro di cura nei confronti degli anziani di casa. Per approfondire questo tema presentiamo qui un estratto dell’articolo Donne migranti e cura delle persone anziane: un progetto di sviluppo di comunità, scritto da Paolo Ballarin e Tatiana Di Federico e pubblicato sul n. 79 di Africa e Mediterraneo in un dossier dedicato interamente al tema “Donne nella migrazione”.
In Italia negli ultimi anni si registra una presenza crescente di donne migranti, arrivate non solo attraverso i ricongiungimenti familiari, ma anche sole e con motivazioni legate al lavoro. Nel 2008 le donne migranti rappresentavano il 50,8% della popolazione straniera regolarmente residente in Italia, nel 2012 sono diventate il 53,1%. La femminilizzazione della migrazione ha un carattere internazionale e interessa tutti i movimenti migratori, come afferma anche il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, secondo il quale mai come negli ultimi 50 anni le donne hanno fatto parte di tale fenomeno. Dal Dossier Statistico Idos 2013 emerge un altro dato significativo: nel 2012 sono stati rilasciati il 27% in meno di nuovi permessi di soggiorno rispetto al 2011, ma questo andamento riguarda più gli uomini che le donne. Gli uomini hanno avuto un calo del 33%, le donne del 19,5%, rappresentando nel 2012 il 48,7% degli ingressi. […]
L’esperienza della migrazione e la costruzione di una nuova vita lontana dal proprio Paese di origine è profondamente diversa per uomini e donne e mette in campo bisogni e priorità differenti. Dal punto di vista di genere, l’analisi delle migrazioni delle donne che svolgono il lavoro di assistenti familiari evidenzia tre importanti aspetti: la globalizzazione del lavoro di cura, per cui gli stili di vita del cosiddetto “Primo Mondo” sono resi possibili da un trasferimento su scala globale delle funzioni associate al ruolo tradizionale della moglie – ovvero la cura dei figli e degli anziani, la gestione della casa – dai Paesi poveri a quelli ricchi; il care drain e l’esperienza della maternità a distanza, che porta le famiglie migranti a diventare una formazione sociale fluida e in continuo movimento. Le madri partono, questo genera forme di delega, di riorganizzazione dei legami familiari, famiglie transnazionali caratterizzate da profonde sofferenze e sacrifici, che talvolta nemmeno i ricongiungimenti familiari riescono a sanare. L’incontro tra madri e figli o tra coniugi dopo anni di separazione può rivelarsi infatti carico di tensioni e delusioni e al tempo stesso rischia di accentuare i conflitti rispetto a come generi e generazioni negoziano i propri ruoli e responsabilità; l’importanza delle rimesse economiche e sociali delle donne migranti, che sono la seconda fonte di finanziamento dall’estero per i Paesi in via di sviluppo, e sono usate per le necessità quotidiane, l’assistenza sanitaria e l’istruzione.
Oltre alle rimesse economiche, sono da considerare anche le cosiddette rimesse sociali, ovvero il fatto che le donne migranti inviando denaro trasmettono una nuova definizione di cosa significhi essere donna, con i conseguenti rischi di creare conflitti tra generi o generazioni, come detto in precedenza. Questo incide sul modo in cui le famiglie e le comunità considerano le donne ed è un fattore molto forte di empowerment per loro stesse e per le altre che rimangono nel Paese di origine.
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