28 febbraio 2014

Quando l’immigrazione diventa schiavitù. Le lavoratrici domestiche in Libano

Siamo abituati a pensare al lavoro di cura come appannaggio di donne provenienti dall’est Europa che in Italia cercano il modo per guadagnare denaro e inviare rimesse a casa. Ma ci sono ben altre realtà da tenere in considerazione. Il Libano, per esempio, è meta di tante lavoratrici domestiche provenienti da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh e Filippine. Come vivono queste donne? Quali sono le loro condizioni lavorative? Che diritti vengono loro riconosciuti? A questi interrogativi dà risposta l’articolo When Immigration Becomes Slavery. Migrant Housemaids in Lebanon, the Normalization of the Unusual, scritto da Omar Bortolazzi e pubblicato sul numero 79 di Africa e Mediterraneo, di cui qui vi proponiamo l’abstract in italiano.

Beirut 2010. Foto di Michela Bignami

Quella libanese è una società ossessionata dalla logica di classe e le lavoratrici domestiche migranti sono spesso usate come strumento per ostentare benessere da parte di coloro che non potrebbero mai permettersi il lusso di una cameriera autoctona. Le domestiche immigrate costano meno e soprattutto non hanno diritti, il razzismo e l’estrema severità nei loro confronti sono giustificati a livello sociale, e questo le pone in una condizione di completa sudditanza nei confronti dei loro datori di lavoro. Secondo le statistiche ufficiali 120.000 donne straniere lavorano come domestiche in Libano, alle quali si devono aggiungere le migranti irregolari. Provengono soprattutto da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh, Filippine. La predominanza dello Sri Lanka come Paese di origine ha reso il termine “srilankese” sinonimo di “lavoratrice domestica” nell’arabo libanese colloquiale.

Vige il sistema della kafala, ovvero della sponsorizzazione, in base al quale la regolarità della posizione delle lavoratrici dipende completamente dalla famiglia nella quale sono impiegate; perdere il lavoro o scappare significa diventare illegali. Le donne che abbandonano la casa nella quale lavorano molto spesso sono costrette a pagare per la restituzione del passaporto. Infatti, nel 99% dei casi, il documento viene loro confiscato della famiglia che le assume. Secondo testimonianze raccolte da Human Rights Watch, molto spesso le lavoratrici vengono confinate in casa e i loro contatti con l’esterno sono ridotti al minimo, non viene dato loro il giorno libero per paura che possano rimanere incinte e che si coalizzino con altre domestiche per pretendere salari più alti e condizioni di lavoro migliori.

Tanti sono i casi di donne che subiscono violenze e abusi perché è pratica diffusa maltrattare le domestiche nella convinzione che così facendo diventino più obbedienti e servili. Questa è la condizione della maggioranza delle donne che vivono con la famiglia per la quale lavorano, migliore è la condizione di quelle che finita la giornata lavorativa tornano alle loro case. Inutile denunciare le aggressioni, la polizia non fa altro che aggiungere ulteriori violenze a quelle già subite e molto spesso forza le donne a confessare reati non commessi come il furto, in modo da incarcerarle. Tutti gli sforzi per introdurre una nuova legge che regolamenti la presenza e il lavoro delle lavoratrici domestiche sono falliti e al momento non ci sono le condizioni per cui la loro situazione possa migliorare nonostante l’impegno di tante NGO.

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