Tutela ambientale, rifiuti ed economia circolare in Africa

Africa e Mediterraneo n. 94 (1/21)

Tutela ambientale, rifiuti ed economia circolare in Africa

Africa e Mediterraneo n. 94 (1/2021)

Foto di copertina: © Detail of garment label by the upcycling Ghanaian brand Slum Studio, based in Accra. http://www.theslumstudio.com/ Photo by Tora San Traoré

Lo sappiamo tutti e tutte: se le cose non cambiano, da qui al 2050 il mondo consumerà risorse pari a tre pianeti, a fronte di una crescita della popolazione che, nello stesso periodo, raggiungerà i 9,6 miliardi di persone. Già nella Conferenza di Rio de Janeiro nel 1992 si era espresso un consenso sulla necessaria cooperazione nella lotta al degrado ambientale: le nazioni più sviluppate hanno riconosciuto la loro responsabilità verso uno sviluppo sostenibile, sulla base della loro maggiore impronta sul pianeta e delle risorse tecnologiche e finanziarie che possiedono. Negli ultimi due anni l’opinione pubblica globale sente il problema in maniera sempre più urgente, prendendo come punto di riferimento comune i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile adottati dalle NU nel 2015 all’interno dell’Agenda 2030 e diventando sempre più consapevole dell’interdipendenza globale.

La via alla crescita sostenibile, tra opportunità e contraddizioni, deve essere percorsa dall’intera comunità internazionale, e in questo processo l’Africa può giocare un ruolo da protagonista.

Dal punto di vista delle istituzioni, un rilancio green arriva in Africa dalla visione dell’Agenda 2063, the Africa we want,1 un piano strategico comune per la trasformazione socioeconomica del continente lanciato nel 2013 dall’Unione africana. Parallelamente, la strategia per l’Africa del Global Compact delle NU richiama il ruolo del settore privato e dell’impresa responsabile, al fine di «creare mercati più integrati, società più resilienti e raggiungere uno sviluppo duraturo e sostenibile»,2 mentre l’Unione europea ha varato nel 2020 il Green New Deal,3 che prevede anche una strategia di partenariato con l’Africa basata su un nuovo mix di aiuti e di investimenti privati per andare insieme verso una crescita sostenibile. La devastazione economica e sociale portata dalla pandemia Covid-19 nel continente sembra aver stimolato un’accelerazione dell’azione dei vari stakeholder: nel 7° Africa Regional Forum on Sustainable Development tenutosi dall’1 al 4 marzo 2021, l’idea che ha permeato gli interventi è che la ricostruzione postpandemia dovrà seguire traiettorie green e tendenti alla minima emissione di carbonio.

Nei paesi africani gli attivisti e le organizzazioni della società civile da tempo sollevano il tema: l’esempio di Ken Saro-Wiwa, la cui bruciante attualità è qui ricordata dall’articolo di Itala Vivan e dalla traduzione inedita di una sua poesia, resta paradigmatico, così come quello di Wangari Maathai. Non mancano iniziative di advocacy e messa in rete a livello continentale: ad esempio, nel 2008 è stata creata la piattaforma Pan African Climate Justice Alliance, che riunisce più di 1.000 organizzazioni e comunità; inoltre, per dare visibilità alla crescente comunità dell’economia circolare in Africa e promuoverla in tutto il continente, nel luglio 2016 è stato istituito l’African Circular Economy Network (ACEN), al quale aderiscono enti pubblici, privati e non-profit di oltre trenta paesi africani. In questo dossier uno dei co-fondatori Peter Desmond spiega che la sua visione mira a costruire un’economia africana “riparatrice”, che generi benessere e una prosperità inclusiva di tutte le persone attraverso nuove forme di produzione e consumo, che mantengano e rigenerino le sue risorse ambientali.

Se l’economia circolare è considerata da molti come una potenziale soluzione per ridurre le emissioni di carbonio in Africa, oltre a fornire opportunità per creare e mantenere valore nei paesi africani, in cui l’estrazione di risorse è stata in passato l’obiettivo principale, diventa allora cruciale comunicarla nel modo più efficace possibile. Su questo si interrogano il presidente di REVOLVE Circular, Sören Bauer, e il direttore dell’Indian Ocean Observatory, Wanjohi Kabukuru, per dare suggerimenti su come coinvolgere i media in modo che comprendano (e sappiano poi raccontare) questo paradigma complesso e ancora relativamente nuovo, in Africa ancora percepito come specialistico e accademico, quindi a rischio di rimanere escluso dalla copertura mediatica.

Un tema cruciale è rappresentato dai rifiuti smaltiti in Africa, nonostante sia in vigore dal 1998 la Convenzione di Bamako che proibisce ai paesi africani di importare rifiuti pericolosi. La ricerca di Piergiuseppe Morone, Gülsah Yılan e Ana G. Encino analizza i problemi connessi all’industria della moda, che è responsabile dell’8-10% delle emissioni globali di CO2 e, con la crescita del fenomeno del fast fashion, esporta in Africa una quantità crescente di abiti di seconda mano o invenduti. Spesso però, invece che generare attività di recupero, questo fenomeno si traduce in una pollution shifting, per il fatto che questi vestiti, essendo venduti a poco prezzo in balle di cui gli acquirenti non conoscono il contenuto, spesso vengono direttamente buttati appena arrivati perché risultano invendibili. Un tema complesso da trattare integrando le sfere ambientale, economica, politico-sociale, etico-culturale. Questo tema riguarda tutti i consumatori a livello globale, ci ricorda Simone Cipriani nel suo articolo, richiamandosi alla tendenza sempre più seguita della moda consapevole. I consumatori del Nord attenti all’ambiente e alla società si indirizzano sempre più verso la moda circolare, che mantiene l’abbigliamento in circolazione il più possibile e poi lo ricicla come materia prima per produrre altri capi, riducendo notevolmente l’impronta di carbonio. L’Ethical Fashion Initiative da lui diretta sta lanciando in Kenya un progetto per lavorare le enormi quantità di vestiti di seconda mano importati nell’Africa orientale, smontando i capi e producendone di nuovi, con un forte contenuto di design, e rivendendoli a una community di clienti coinvolti tramite un’app. Il consumo critico nella moda deve riguardare anche i consumatori del Sud, per i quali i grandi marchi tradizionali esercitano ancora moltissimo fascino. Enrica Picarelli presenta il caso della piattaforma Twyg, che dà visibilità ad attori sostenibili del Sudafrica: designer, giovani studenti, ma anche spazi espositivi e influencer che si impegnano secondo i principi della cura, della giustizia sociale e del rispetto delle tradizioni ancestrali del territorio, molte delle quali offrono soluzioni immediatamente attuabili per una produzione di moda a impatto ambientale zero. L’analisi della sua comunicazione digitale mostra che l’impegno per la tutela della natura e delle popolazioni sudafricane si accompagna a quello a favore della promozione di un’industria della moda che fino a oggi ha risentito di stereotipi orientalisti che l’hanno esotizzata e ne hanno spesso fatto un oggetto di appropriazione culturale.

Gli abiti del Nord non sono i soli rifiuti che mettono in pericolo l’ambiente del continente e, oltre che sulla circolazione globale di questi materiali, da reinserire in catene di valore, è necessario concentrarsi sulla condizione dei raccoglitori di rifiuti che vivono in condizioni di grave marginalità, impiegati in lavori pericolosi e sottopagati. Rossana Mamberto porta il caso della discarica di Agbogbloshie, a pochi chilometri dal centro di Accra, una delle principali destinazioni per i dispositivi elettronici dismessi in Europa. In questa discarica urbana, uno dei luoghi più inquinati della terra, è nato un vero e proprio distretto commerciale, che incide direttamente sulla vita e sul lavoro di 80.000 persone.

Un tema discusso anche a livello interno ai singoli Stati che, a seguito della crescita demografica e dei cambiamenti negli stili di vita, hanno dovuto affrontare difficoltà crescenti nella gestione dei rifiuti, in particolare della plastica e degli imballaggi. In Mozambico, spiega Carlos Manuel dos Santos Serra, benché la legislazione sia stata aggiornata più volte per transitare verso la circolarità, la situazione sul territorio evidenzia enormi difficoltà, specialmente nei centri urbani, dove la maggior parte dei rifiuti plastici viene abbandonata in discariche a cielo aperto, bruciata, seppellita o addirittura scaricata o dispersa in fiumi, fossi, fognature e bacini di raccolta. Sarebbe necessario un intervento integrato tra diversi elementi: educazione ambientale, incentivi al riciclo e sostegno all’innovazione.

Anche i settori agricolo e forestale stanno sperimentando da tempo nuove soluzioni tecniche. Utilizzando la chiave di lettura del cosiddetto “metabolismo sociale”, l’articolo di Stefania Albertazzi, Valerio Bini e Samuele Tini analizza gli impatti di alcuni progetti di cooperazione nella foresta Mau in Kenya, la principale foresta montana dell’Africa orientale che, essendo stata oggetto di programmi di reinsediamento della popolazione, è a rischio di deforestazione. Le soluzioni tecniche a vantaggio dell’efficientamento energetico e della sostenibilità ambientale, come le stufe a biogas, i pannelli solari e la piantumazione di alberi nei villaggi, hanno portato risultati misurabili nella creazione di un rapporto tra società e foresta più equilibrato. Uno dei problemi principali del settore agricolo in Africa è la bassa produttività della terra e del lavoro, che deve essere stimolata attraverso l’introduzione di nuove tecniche, non solo per generare maggiori rendimenti ma anche per agevolare una transizione sostenibile ed equa. Susanna Mancinelli, Massimiliano Mazzanti e Andrea Pronti sottolineano l’importanza dell’agroecologia, che con il suo approccio sistemico propone processi di grande potenzialità per una reale transizione ecologica dei sistemi agroalimentari. Essa può essere sempre più adottata dalle comunità agendo anche attraverso la creazione simbolica degli agricoltori all’interno delle loro comunità: sono gli aspetti culturali e simbolici a generare una visione condivisa su una figura mitica di “buon agricoltore”, che guida le azioni della comunità agricola come istituzione condivisa al suo interno. Anche in Africa, come nel resto del mondo, la sfida dell’attuazione di una transizione ecologica che sia anche equa è estremamente complessa. Nella consapevolezza dei fattori che contribuiscono al degrado ambientale, a partire dal predominio del modello di sviluppo “energivoro”, il continente africano si trova a dover gestire varie dimensioni: l’essere ormai attore globale che dialoga, commercia e si allea con tanti partner secondo i propri interessi (EU, USA, Cina, India, Turchia, mondo arabo, ecc.); il voler crescere e creare condizioni per il mercato interno (è stata creata l’African Continental Free Trade Area-AfCFTA, la più grande area di libero scambio al mondo per numero di Stati aderenti) e per gli investimenti esteri, valorizzando al meglio le sue risorse (naturali e umane); il dover accrescere drammaticamente le infrastrutture materiali (strade, ferrovie, porti, aeroporti, energia) e immateriali e l’utilizzo sostenibile delle fonti energetiche.

In questo dossier vogliamo dare un contributo alla riflessione su questo tema estremamente complesso, con alcune analisi di pratiche e situazioni attuali, esempi positivi da promuovere e criticità da affrontare, senza dimenticare che la circolarità è stata praticata in tutta l’Africa per generazioni, in larga misura per necessità, e che questo atteggiamento rigenerativo e rispettoso dell’ambiente può contribuire al pensiero circolare, in uno scambio globale che sia arricchente per tutti.

NOTE

1 – https://www.nepad.org/agenda-2063
2 – https://www.unglobalcompact.org/engage-locally/africa/afri- ca-strategy

3 – https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/europe- an-green-deal_en

 

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