Nuovi canali per nuove narrazioni

Sandra Federici

Editoriale del numero 87 (2/2017) di Africa e Mediterraneo, “L’Africa si racconta. Dal griot all’influencer digitale”

Bob Muchiri Njenga, Kichwateli, Video 7’43”, 2011

Piace ancora molto l’idea largamente diffusa che in Africa la funzione del narrare sia essenzialmente compito del griot, oltre che degli anziani, dei capi tribù e delle donne, anch’esse depositarie del patrimonio favolistico orale. Griot è il termine europeo con cui i viaggiatori francesi del 17° secolo hanno nominato una precisa figura sociale dell’Africa occidentale tradizionale, chiamata con appellativi diversi nelle varie lingue, che aveva il compito di trasmettere oralmente al popolo e alle classi dirigenti la storia, le genealogie, gli elementi della cultura, nonché di mediare nelle liti e nelle alleanze tra famiglie.

È però da molto tempo che questa figura si è adattata all’epoca contemporanea, assumendo come identità dominante una competenza artistica e performativa che si esprime professionalmente in festival musicali, rassegne teatrali, con grande successo e una visibilità anche internazionale.

Comunque, non è più così che in Africa si racconta. L’elaborazione di narrazioni, la comunicazione di opinioni e l’informazione sull’attualità passano oggi per forme e modi caratterizzati da immediatezza, velocità, interattività. Profili Facebook e Instagram, canali YouTube, blog, produzioni televisive veicolano un flusso costante di storie, discussioni, rappresentazioni. Vengono condivisi e trasmessi video, immagini, testi, creando reti e incentivando condivisioni, con codici mediatici in continua evoluzione.

Una ricerca marketing del 2016 di Kantar TNS[1] indaga sull’utilizzo dei media da parte dei giovani di sette Paesi dell’Africa sub-sahariana, rilevando come il 91% di loro guardi la televisione ogni giorno e il 44% (con un incremento rispetto all’anno precedente) siano internauti, e utilizzino la connessione principalmente per interagire tramite canali social.

Tra gli influencer più seguiti si può citare Strive Masiyiwa, uomo d’affari e filantropo, originario dello Zimbabwe ma di base a Londra, finanziatore di varie iniziative in materia di sanità ed educazione, mentore per giovani imprenditori attraverso la sua pagina Facebook, seguita da più di 3,1 milioni di persone. O Xtian Dela, noto blogger, presentatore radio e personalità nel panorama mediatico del Kenya (miglior profilo Facebook e Second Most Influential Twitter Personality in Africa nel 2016)[2], che nel 2014 ha iniziato la campagna #BringBackOurKDFSolders per spingere il governo del Kenya a ritirare i soldati stanziati in Somalia per combattere i ribelli di Al-Shabab.

Intanto, anche i media tradizionali continuano ad avere un seguito e un impatto rilevante. In Nigeria, seguitissimi sono gli intrighi della longeva soap opera Tinsel. La popolare telenovela C’est la vie, sceneggiata da Marguerite Abouet, unisce invece intrattenimento ed educazione nell’Africa occidentale francofona, promuovendo consapevolezza e dialogo su temi importanti come la salute, la violenza di genere, i diritti. Non solo: le discussioni sono incoraggiate attraverso incontri, corsi, piattaforme web, travalicando quindi i confini del mezzo televisivo.

A partire da queste premesse, questo dossier di Africa e Mediterraneo propone una riflessione su forme e linguaggi del racconto che l’Africa fa a se stessa, in particolare, ma non esclusivamente, nelle nuove dinamiche interattive del web 2.0, reinterpretate a partire dalle esigenze specifiche locali.

Irene Brunotti analizza la pratica delle contestazioni diffuse online nei confronti dei messaggi diffusi sulla lavagna (reale) Sauti ya Kisonge, installata a Zanzibar in un quartiere popolare, nota per il fatto di riportare affermazioni politiche a favore del partito di governo. Dato che l’opposizione non ha lavagne o altri spazi su cui replicare, le immagini della stessa, condivise sui social media, permettono la partecipazione a vari dibattiti a un pubblico più ampio, in termini di tempo e spazio. In questa arena parallela, membri di gruppi sociali subordinati si organizzano per far circolare un contro-discorso portatore di un certo grado di libertà di espressione, dando vita a comunità che sono legate da un profondo senso di appartenenza. Uno spazio alternativo in cui l’informazione è prodotta, circola, viene dibattuta e legittimata.

Il mito forse un po’ paternalista di un’Africa tradizionale in cui le relazioni e la cura per gli altri hanno un ruolo centrale, in cui le persone rispettano gli anziani e condividono le risorse per un beneficio non individuale ma della comunità, viene abbastanza messo in discussione dall’articolo di Dieynaba Gabrielle Ndiaye. Un excursus su alcune ricerche nell’ambito disciplinare della psicologia sociale mostra come in Senegal l’economia di mercato e il consumismo abbiano avuto un impatto sul sistema di valori e le pratiche relative alla cura degli altri. Se la ricchezza e l’aspirazione al successo rendono le persone meno empatiche e inclini alla solidarietà, tali cambiamenti di valori si riflettono, inevitabilmente, anche in prodotti culturali come film e serie tv, come già aveva preconizzato il regista Ousmane Sembène nel film Le mandat (1968). Ndiaye analizza il caso clamoroso di Dinama Nekh: serie molto popolare girata in wolof, le cui protagoniste sono due giovani donne che, per mantenere uno stile di vita costoso e materialista, superiore alle loro possibilità, conducono relazioni con uomini spesso sfruttati per interessi economici, ponendo come valore alla base dei loro comportamenti il consumismo.

Le serie tv che spopolano oggi in Senegal, spia di un cambiamento valoriale diffuso, e al tempo stesso una piattaforma di dialogo su importanti temi sociali, non sono spuntate dal nulla. La narrazione di storie attraverso forme espressive e modalità di fruizione di derivazione occidentale sono un elemento importante della vita del Senegal moderno, con una varietà di produzione in cui la dimensione letteraria si collega concretamente a una narrazione/fruizione popolare. Attraverso un percorso storico che va dalla vigilia dell’indipendenza all’epoca contemporanea, Nelly Diop individua linee di continuità e innovazione nelle tematiche (la famiglia, il rapporto giovani e anziani, la forza delle donne, l’arte della débrouille quotidiana) e negli strumenti espressivi delle varie modalità di racconto della società senegalese, a partire dalle pièce di “théâtre à l’européenne” messe in scena per la borghesia di Dakar al Théâtre National Daniel Sorano negli anni 50 e 60. Un percorso in cui potenti influenze arrivate dall’estero (tra cui la soap opera americana Dallas) hanno dato la spinta a produzioni totalmente autonome.

La panoramica nei media africani curata da Rossana Mamberto ci presenta casi da Nigeria, Kenya, Senegal, Ghana, Camerun. Telegiornali a ritmo di rap per comunicare ai più giovani in Africa occidentale francofona; emoji del disegnatore Félix Fokoua raffiguranti personaggi popolari e situazioni della tradizione camerunese utilizzabili sull’applicazione di messaggistica Telegram; un sito di consulenza per matrimoni curati nei minimi particolari del Kenya; una piattaforma web, Africa on the rise, per incoraggiare il potenziale africano, attraverso l’informazione su buone pratiche e leadership positive, tra cui le dodici donne che stanno cambiando l’Africa; un sito in cui si pongono i riflettori sulle potenzialità innumerevoli delle varie declinazioni dei social (Circumspecte.com).

Il dibattito sulla rappresentazione dell’Africa nei media occidentali è antico. Già con le indipendenze si era messo l’accento sull’importanza dell’attivismo mediatico da parte delle popolazioni che si liberavano dal colonialismo e il dibattito è proseguito, alimentato da numerose ricerche, con una tappa importante nella definizione nel 1982 del documento sul Nuovo ordine dell’Informazione e della Comunicazione (NOMIC), inteso come una liberazione dal dominio culturale del mondo ex-coloniale. Nella pratica, tuttavia, si è constatato come la dominazione anche simbolica dei media del Nord abbia continuato a essere fortissima.

Da qualche anno, però, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione stanno davvero cambiando le cose dal punto di vista della presa di parola.

Nei Paesi africani i media contemporanei – anche quelli tradizionali resi, globali, interattivi e social grazie al web 2.0 – fanno sì che oggi più che mai le popolazioni siano al tempo stesso produttrici e fruitrici autonome di un discorso  sulle questioni sociali, i rapporti umani e famigliari, la politica, i grandi temi come la povertà, la corruzione, la democrazia, con una narrazione che travalica i confini dei singoli Paesi e del continente stesso.

Tutto si muove tanto rapidamente che non è possibile fare previsioni, e il nostro non vuole essere uno sguardo ingenuamente ottimista: guerre dimenticate, sottosviluppo, migrazioni forzate, distruzione delle risorse naturali, violazioni dei diritti umani restano purtroppo capitoli molto attuali, ora conoscibili in tempo reale sui nostri schermi.

Però, oltre a questo, ci sono produttori, autori e un pubblico, in Africa e fuori da essa, che vogliono raccontare e ascoltare anche altro.

 

 

 

 

 

[1] https://www.tns-sofres.com/communiques-de-presse/kantar-tns-publie-les-resultats- dafricascope-20152016-letude-media-de-reference-en-afrique-sub-saharienne

[2] “2016 African Blogger Award winners announced”. http://www.africanbloggerawards.com/2016-winners/