La posta in gioco: sport e attività fisica risorse per una “società delle culture”

Editoriale di Giovanna Russo del numero 84 di Africa e Mediterraneo, "Sport e immigrazione"

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Kenya. Rifugiati e operatori a Dadaab giocano per il TeamRefugees. © UNHCR

L’Italia da alcuni decenni è territorio di frontiera per le migrazioni: il continuo flusso di persone di origini differenti delinea ormai il Bel Paese come una “società delle culture” in itinere, in un quadro di mobilità europea e nazionale di non facile gestione. Nel contesto europeo il ruolo dell’Italia è però soprattutto quello di “Paese di transito” per i flussi migratori (UNHCR 2015): come emerge dal 21° Rapporto sulle Migrazioni ISMU è plausibile pensare che il fenomeno migratorio in Italia sia in continua trasformazione, tanto da poter parlare di un nuovo ciclo le cui dinamiche sono principalmente collegate alle trasformazioni geopolitiche e ai conflitti dei Paesi del Medio Oriente e dell’Africa sub-sahariana e, sul fronte domestico, all’impatto della crisi economica sul mercato del lavoro italiano. Tale scenario, complesso e diversificato, è frutto delle seguenti motivazioni: notevole incremento dei flussi migratori; forte riduzione delle persone che entrano nel Paese per cercare lavoro; consolidamento delle unità familiari; aumento complessivo dell’emigrazione dall’Italia; presenza significativa dei migranti provenienti dai nuovi Paesi dell’Unione europea in Italia (Cesareo 2016, p. IX). In un quadro così delineato, l’Italia sta cambiando volto: con 5.014.000 stranieri residenti che rappresentano l’8,2% dei suoi abitanti, oggi è al secondo posto, assieme al Regno Unito (5 milioni) e dopo la Germania (7 milioni), tra i Paesi che in Europa ospitano il maggior numero assoluto di immigrati (Centro studi e ricerche Idos 2015).

Le ragioni che sostengono i flussi migratori riguardano nello specifico motivi di lavoro (52,5%), di famiglia (34,1%), e dal 2014 anche richieste di asilo (7%), che rispetto agli anni precedenti hanno sopravanzato il motivo dello studio.

Ma la questione migratoria non è importante solo per la sua dimensione numerica e strutturale: la rilevanza degli aspetti socio-culturali è di primario interesse ai fini dell’integrazione sociale degli immigrati, costituendo una risorsa e una sfida per il Paese ospitante (Martelli 2015). Si tratta infatti di un fenomeno problematico, da indagare in profondità con approcci multidimensionali in grado di fare luce sugli immigrati quali nuovi attori della società civile globale. Se è vero quindi che studiare l’integrazione è oggi una questione ineludibile, ciò avviene in virtù non solo di una migliore conoscenza delle dinamiche d’interazione con l’economia, ma soprattutto delle politiche territoriali di inclusione sociale e culturale volte al benessere delle comunità locali e dei suoi protagonisti.

© Giovanna Amore

© Giovanna Amore

Con una prospettiva che privilegia il punto di vista dell’altro e aperta alla scoperta, questo dossier intende esplorare le pratiche socio-culturali che informano il quotidiano dei migranti nel Paese di accoglienza facendo attenzione ai legami sociali che si creano e si rigenerano nel tempo libero. L’occasione è quindi utile per riflettere su uno spazio sociale innovativo, come lo sport, adatto a osservare le occasioni di incontro fra autoctoni e immigrati per le sue capacità di generare capitale sociale, favorendo – o contrastando – l’integrazione (ibidem, p. 216). Lo sport offre infatti straordinarie possibilità di conoscenza, di incontro tra culture, di contaminazione di pratiche sportive “socialmente responsabili”. In quest’ottica può essere inteso come veicolo di valori positivi, esercizio di civiltà e di umanità, arena di socializzazione ma anche di educazione e apertura all’“altro diverso da me”.

Sui rapporti fra sport e integrazione dei migranti l’impegno delle politiche e dei progetti europei è da tempo evidente: il Libro bianco (2007) afferma esplicitamente che sport e attività fisica sono strumenti di inclusione sociale, di partecipazione civile, di socializzazione, di interazione positiva fra i migranti e i membri delle società che li accolgono. Le evidenze empiriche a sostegno di tali tesi però sono ancora piuttosto scarse, almeno nel nostro Paese. Ciononostante, allo sport e all’attività fisica da tempo si riconoscono le funzioni di cartina al tornasole capace di illustrare i meccanismi su cui si basa una società, di fattore di civilizzazione e globalizzazione della modernità (Martelli, Porro 2015), di linguaggio comune e universale atto a favorire l’integrazione sociale del “diverso”.

Dunque, oltre le possibili ideologie, qual è la posta sui campi da gioco? Lo spazio sociale dello sport rivela oggi una complessità che rimanda a segni, pratiche, linguaggi, immagini differenti di un contesto che si pone il difficile obiettivo dell’interculturalità1 e che, di fatto, è alla continua ricerca di identità. Credo sia questa la scommessa che si vive sui campi da calcio, da basket, da cricket… Negli stadi, nelle palestre, negli spazi pubblici dove si pratica attività fisica e/o sportiva, in realtà si giocano soprattutto «partite per l’identità. La posta in gioco è infatti il tipo di identità che si riesce e a costruire a partire dalle posizioni sociali disponibili nelle diverse realtà» (Zoletto 2010, p. 45). Il gioco dell’integrazione è dunque una partita – una battaglia? – nella quale si tenta di superare un confine, colmare una differenza fra un “noi” e un “loro”, capovolgere uno stigma, oltrepassare le discriminazioni. Lo sport è infatti un campo culturale nel quale, come ha affermato Pierre Bourdieu (1998), si affrontano attori con interessi specifici legati alla posizione che occupano nello spazio sociale: un campo di competizione, il cui traguardo oggi si trasforma in un segno di convivenza civile. Lo sport e l’attività fisica sono infatti «capaci di integrare, di convertire simbolicamente “quelli di fuori” in “quelli di dentro” […] strumenti capaci di dare identità, di generare identificazione negli individui […] di renderli partecipi, anche simbolicamente, di una stessa realtà, di condividere, di sentirsi parte di qualcosa di comune: in definitiva di convivere» (Xavier Medina 2002, p. 22).

Mondiali antirazzisti 2016. © Nicola Fossella

Mondiali antirazzisti 2016. © Nicola Fossella

I contributi multidisciplinari qui presentati ruotano attorno a questo focus illustrando, da differenti punti di vista, come lo sport possa essere un luogo generativo di intercultura o, all’opposto, uno spazio di discriminazione e/o di rivendicazione culturale. L’intento è di andare oltre gli stereotipi, i luoghi comuni, i paradossi e le ambiguità che la realtà migratoria e le sue pratiche sociali pongono quotidianamente alla riflessione contemporanea. In questa cornice teorica si sviluppano i primi tre saggi: Siebetcheu espone la questione della cittadinanza sportiva in Italia come sviluppo di una cultura civica necessaria a costruire uno stile di vita in assenza di pregiudizi presentando i dati di una ricerca qualitativa sulla pratica calcistica svolta da richiedenti asilo; Bottoni, Masullo, Mangone illustrano invece i dati inediti di una ricerca quantitativa sullo sport come strumento di inclusione per gli stranieri allo scopo di indagare il grado di diffusione/accettazione degli stereotipi della diversità fra gli adolescenti della regione Campania. Con uno sguardo oltre i confini nazionali, lo sport è discusso nelle vesti di strumento d’integrazione nelle politiche europee nell’intervista al sociologo dello sport W. Gasparini (Russo), svelando le potenzialità e i paradossi del modello di integrazione francese messo a confronto con le esperienze sportive di Italia, Germania e Inghilterra.

I contributi successivi si concentrano sul calcio – the beautiful game – ambito privilegiato per indagare dinamiche di un mercato globale in grado di replicare le strutture sociali e le difficoltà di integrazione dei suoi protagonisti “etnici”. L’analisi di Pedretti esplora le strategie impiegate dall’industria del calcio nella costruzione di brand progressisti, di fatto lontani dalle logiche eurocentriche delle strutture di potere che governano i campi da gioco e dai fenomeni di razzismo che li abitano; mentre il caso dei Black italians (Caccamo) evidenzia la difficile affermazione degli atleti stranieri in Italia, tra percorsi di etichettamento e un lento processo di riconoscimento dell’italianità. Su questa scia, il contributo di Kyeremeh propone un’analisi di genere del mondo sportivo, illustrando il difficile cammino di affermazione delle atlete black a livello agonistico e dilettantistico. Il corpo femminile nello sport diviene così terreno di lotta, di contestazione e di affermazione di un’identità continuamente rinegoziata, fra percorsi di inclusione sociale e di discriminazione. L’approccio di analisi “intersezionale”, volto a evidenziare la multidimensionalità vissuta dai soggetti marginalizzati, si rivela utile finestra di osservazione capace di fare emergere la funzione di mobilità sociale dello sport non solo per le atlete nere, ma per tutte le persone migranti che risiedono in Italia. In linea di continuità, il saggio di Bifulco e Del Guercio presenta il caso dell’Afro-Napoli United, associazione sportiva nata con l’intento di creare una squadra di calcio amatoriale “melting pot”, spazio di incontro per atleti immigrati e italiani, osservando nei vari aspetti della vita degli atleti migranti come l’esperienza calcistica risulti positiva e propedeutica all’inserimento sociale nei Paesi ospitanti e utile anche alla costruzione di un sentimento di appartenenza. Un aspetto poco indagato emerge invece nel contributo di Berthoud, il quale – con taglio etnografico – analizza l’influenza delle strutture familiari nei percorsi dei calciatori migranti camerunesi (pre e post carriera) rilasciando un’immagine dei giocatori africani come “vittime” di un sistema di parentela nel quale prevale la dimensione della “sopravvivenza” collettiva a quella del singolo individuo. I termini di parentela, così come le singole carriere degli atleti, appaiono dunque integrati in un unico sistema che obbedisce a leggi universali, agendo anche a livello inconscio.

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© Fabrizio Pompei

Nel segno dell’happening Martone illustra la manifestazione ventennale dei Mondiali antirazzisti, nella quale lo “sport per tutti” emerge come “bene relazionale” capace di produrre a livello di gruppo un forte senso di appartenenza fra i membri coinvolti. In quest’ottica viene descritta l’esperienza performativa e mediatica nella quale migranti (tra i quali negli ultimi anni sono presenti diverse squadre di richiedenti asilo) e ultras, attori sociali solitamente all’opposto sulla scena sportiva, coesistono all’insegna di un unico obiettivo di convivenza civile.

Ulteriori testimonianze della valenza sociale, inclusiva della pratica sportiva – o al contrario del suo potere discriminante – emergono dagli interventi a chiusura del dossier: dalla storia di “Musta”, campione di arti marziali la cui ascesa è simbolo del legame fra Italia e Marocco (Bini, Bondi), all’evoluzione del lessico del calcio in swahili a testimonianza delle interferenze e dei mutamenti semantici che il gioco più bello del mondo è capace di veicolare (Sidraschi). Il calcio è inoltre teatro “atteso” dai media per la narrazione di episodi di razzismo attraverso parole, gesti e gestacci di un linguaggio ormai universale (Germano); oppure vero campo di battaglia, nei Mondiali del 1998, per l’indipendenza della nazionale croata nel racconto del documentario Vatreni (Valle Baroz). La dimensione politica dello sport emerge, infine, sia nella storica partita della Rugby World Cup del 1995, episodio spettacolare della storia sudafricana, momento epico di un difficile processo di unificazione non ancora concluso (Paci), sia nell’analisi della presenza dei Paesi africani alle Olimpiadi nel corso del ’900, rivelando un percorso costellato da boicottaggi internazionali e molteplici difficoltà proprie di questo continente (Armillotta).

In questi ultimi mesi in cui, a fronte della crescente presenza di richiedenti asilo ospiti nei centri di accoglienza dei territori, la società italiana si confronta in maniera inedita con persone di origini culturali differenti e percorsi di vita particolarmente difficili, osservare le relazioni fra sport e immigrazione significa cogliere l’importanza e la multidimensionalità che le pratiche motorie possono mettere in gioco all’interno delle culture e delle società contemporanee. Alla base vi è un pregio indiscutibile: lo sforzo di far “cambiare la pelle alla cultura”, laddove lo studio dello sport e dell’attività fisica si fa portavoce di nuove istanze sociali per fornire risposte concrete a una differente domanda di qualità della vita per autoctoni e immigrati.

Bibliografia

P. Bourdieu, Program for a Sociology of Sport, in «The Sociology of Sport Journal», V, n. 2, 1998, 153-161

Commissione europea, Libro Bianco sullo sport, 2007, disponibile al sito: http://ec.europa.eu/sport/index_en.html

P. Donati, Riconoscersi con la ragione relazionale, in «Atlantide. Un mondo che fa parlare altri mondi», n. 14, 2008, pp. 59-64

V. Cesareo (ed.), The New scenario of Migrations, in Fondazione ISMU The Twenty- first Italian Report on  Migrations 2015, McGraw-Hill Education, Milan-London 2016, pp. IX-XXIX

Centro studi e ricerche IDOS, Dossier statistico 2015, IDOS, Roma 2015

ISTAT, Rapporto del Paese 2016, ISTAT, Roma 2016

S. Martelli, Religions and sports: are they resources for the integration of immigrants in the host society?, in «Italian Journal of Sociology of Education», a. 7; n. 3, 2015, pp. 215-238

S. Martelli, N. Porro, Manuale di Sociologia dello sport e dell’attività fisica, FrancoAngeli, Milano 2015

UNHCR, Syria Regional Refugee Response, 2015, reperibile al sito: http://data.unhcr.org/syrianrefugees/regional.php

F. Xavier Medina, Deporte, immigraçión, e interculturalidad, in «Apunts», Deporte e immigraçión, Generalitat de Cataluniya, INEFC, n. 68, 2002, pp. 18-23

D. Zoletto, Il gioco duro dell’integrazione. L’intercultura sui campi da gioco, Cortina, Milano 2010

Note

1 – Nella misura in cui pone l’accento sulla «semantica relazionale, secondo la quale le differenze (anche quelle culturali) sono modi diversi di formare la nostra identità che si basano su relazioni le quali si formano non per opposizione o esclusione dell’altro, ma attraverso circuiti di dono e quindi di riconoscimento reciproco» (Donati 2008, p. 62).