La cittadinanza sportiva in Italia:
mito o realtà?

Estratto dell'articolo di Raymond Siebetcheu, pubblicato in Africa e Mediterraneo 84, "Sport e immigrazione"

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Repubblica Democratica del Congo. “As War Drags on” © UNHCR

«Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare. Esso ha il potere di unire le persone in un modo in cui poche altre cose lo fanno. Parla ai giovani in una lingua che comprendono. Lo sport può portare speranza dove una volta c’era solo disperazione». Prendendo spunto da questa bella cornice definitoria che ci suggerisce Nelson Mandela, lo sport nel suo valore globale e olistico è un fenomeno di grande importanza capace di abbracciare tanto la dimensione meramente competitiva e ludica quanto quella socio-culturale ed educativa. In questo senso, riesce a promuovere valori come la solidarietà, l’unità, lo spirito di gruppo, la tolleranza, l’uguaglianza, l’integrazione, il rispetto delle regole e l’accettazione delle differenze. Facendo riferimento al contesto migratorio, dove identità diverse s’incontrano e, in alcuni casi, si scontrano, secondo il Libro bianco europeo sullo sport (2007),1 lo sport costituisce uno strumento efficace per facilitare l’integrazione degli immigrati nella società, attraverso il dialogo interculturale e un senso comune di appartenenza e di partecipazione. Senza voler perdere di vista alcuni casi eccellenti, come quello della squadra di rugby di Casale Monferrato, quasi esclusivamente composta da richiedenti asilo e che milita in C2, in questa sede focalizzeremo l’attenzione sul calcio, inteso come il paradigma, il laboratorio sociale ideale della manifestazione simbolica dello sport come strumento di aggregazione e di integrazione. La scelta del calcio è legata alla sua capacità di unire ma anche al fatto che è uno degli sport più amati, più praticati e più seguiti al mondo. In Italia, secondo il Report Calcio 2015, il calcio incide per circa il 25% sui tesserati, italiani e stranieri, e sulle società sportive nelle 45 Federazioni affiliate al CONI. Non a caso Valeri (Valeri 2005, p. 382) considera questa disciplina come «una buona cartina al tornasole di ciò che avviene, più in generale, a livello sociale». Riflettendo in modo specifico sul ruolo del calcio in contesto migratorio, Gasparini osserva che si tratta di un «terreno di studio particolarmente interessante per riflettere sulle espressioni identitarie e ripensare l’integrazione dei migranti attraverso lo sport» (Gasparini 2013). Per Avila et al «l’impatto di questo gioco sulla vita di ogni giorno lo rende un forte strumento per potenziare le questioni importanti dell’apprendimento permanente e dell’integrazione» (Avila et al 2011, p. 2).  Sulla scia di queste premesse teoriche, che ci suggeriscono che il calcio ha cessato da molto tempo di rappresentare soltanto un gioco e che oggi costituisce un vero e proprio sistema culturale (Porro 2008), questo contributo si prefigge di osservare quanto lo sport riesca concretamente a contribuire ai processi di inclusione sociale, soprattutto nei confronti dei richiedenti asilo che spesso versano in condizioni di evidente e preoccupante vulnerabilità.

La questione della cittadinanza sportiva in Italia

In Italia il principio di cittadinanza sportiva e di educazione democratica attraverso lo sport è chiaramente sancito dall’art. 16, comma 1, D.lgs 242/19992 che recita: «Le federazioni sportive nazionali sono rette da norme statutarie e regolamentari sulla base del principio di democrazia interna, del principio di partecipazione all’attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di parità e in armonia con l’ordinamento sportivo nazionale e internazionale». Nonostante tale normativa, molti minori di origine straniera si sono spesso visti negare il diritto di partecipazione all’attività sportiva nelle squadre nazionali e nei tornei internazionali. A nostro avviso si tratta di un vero e proprio “spreco di talenti” e di una “doppia cittadinanza negata” (né italiana, né del Paese di origine). A confermare questa tesi sono le premesse del seminario dal titolo Cittadinanza sportiva: opportunità ed ostacoli per una piena cittadinanza, tenutosi ad Arezzo il 17 dicembre 2012: «I meccanismi di tesseramento di ragazzi che non hanno la cittadinanza italiana nelle società sportive sono farraginosi e spesso inefficaci, e di fatto li escludono da gran parte delle competizioni dei loro coetanei: è frequente vedere un ragazzo allenarsi con impegno e risultati, e poi non giocare in partita o non poter partecipare alle competizioni. Questo da un lato costituisce un’importante discriminazione, e dall’altro impoverisce lo sport nostrano di talenti ed introiti» (www.meltingpot.org, 12 dicembre 2012).

Un passo decisivo verso la cittadinanza sportiva è stato fatto con la Legge n. 12 del 20 gennaio 2016 che ha introdotto lo ius soli sportivo. Secondo tale legge «I minori di anni diciotto che non sono cittadini italiani e che risultano regolarmente residenti nel territorio italiano almeno dal compimento del decimo anno di età possono essere tesserati presso società sportive appartenenti alle federazioni nazionali o alle discipline associate o presso associazioni ed enti di promozione sportiva con le stesse procedure previste per il tesseramento dei cittadini italiani». Premettiamo che anche se tale legge non prende in considerazione alcuni aspetti importanti come la possibilità per i ragazzi di origine straniera di indossare la maglia azzurra, essa costituisce comunque l’anticipazione di una risposta che si aspetta ancora rispetto alla revisione della Legge sulla cittadinanza (L. 91/1992).3 Tuttavia, il concetto di cittadinanza sportiva è, a nostro avviso, prima di tutto lo sviluppo di una cultura civica e sportiva capace di costruire uno stile di vita che superi ogni forma di pregiudizio e discriminazione. Gli episodi di razzismo negli stadi testimoniano che lo ius soli sportivo non riguarda soltanto l’atleta di origine straniera, ma deve coinvolgere famiglie, scuole, società sportive, tifosi e politici. Inoltre i cori razzisti indirizzati ai giocatori di alto livello, e in alcuni casi già in possesso della cittadinanza italiana, sono la testimonianza che non basta il riconoscimento da parte del Parlamento così come non è sufficiente essere in possesso del passaporto italiano per parlare di una cittadinanza sportiva effettiva.

Profilo dei giocatori e delle squadre composte
da richiedenti asilo

Il numero sempre più crescente degli sbarchi di immigrati sulle coste italiane nell’ultimo decennio e la conseguente distribuzione di questi ultimi nelle varie regioni della Penisola hanno dato nascita a diversi percorsi innovativi di integrazione, tra cui quelli attraverso il calcio, mai sperimentati prima in modo sistematico. In realtà, in risposta alle ripetute richieste dei rifugiati e al talento che sanno di poter esprimere sui campi, sono nate numerose squadre di calcio all’interno dei centri di accoglienza, tanto nell’ambito di eventi occasionali, quanto per la partecipazione ai tornei amatoriali o federali. Sulla base della nostra ricognizione, in Italia sono al momento sei le squadre di profughi che partecipano ai campionati federali organizzati dalla Federazione italiana di giuoco calcio (FIGC).

Nell’ambito della nostra indagine, abbiamo preso in considerazione dodici squadre principalmente composte da “migranti forzati” (costretti a scappare dai loro Paesi in seguito a guerre, conflitti e persecuzioni), collocate in varie aree geografiche (dal Piemonte alla Sicilia) per avere un’idea dell’“integrazione targata sport” in tutto il Paese. Sono squadre prevalentemente composte da giocatori dell’Africa subsahariana, tra cui spiccano Senegal, Gambia, Nigeria, Ghana, Mali e Costa d’Avorio. Notiamo però che tra le squadre analizzate, l’Afro Napoli e la RFC Lions Ska sono composte anche da italiani. Queste squadre, con giocatori dai 17 ai 40 anni, sono gestite e sostenute da volontari che credono nei valori dello sport, inteso non solo come competizione ma anche come strumento di integrazione. Status giuridico incerto, distanza tra i centri di accoglienza e la città, dinamiche organizzative e abitative dei centri molto diverse dall’organizzazione socio-familiare dei Paesi di origine (orari di ingresso e di uscita, orario di pranzo e di cena, ecc.), stress da sradicamento, incertezza rispetto al futuro, “sindrome del sopravvissuto” (disagio psicologico legato ad un evento traumatico con un senso di colpa) o “sindrome di Ulisse” (disturbo psicosomatico che spesso colpisce gli immigrati), difficoltà linguistiche, pregiudizi e stereotipi negativi, in alcuni casi impossibilità di trovare un lavoro: sono questi i principali elementi che caratterizzano il disagio socio-economico di cui sono vittime i richiedenti asilo e di fronte al quale il calcio vuole dare una risposta.

Rifugiati in Italia: barriere nell’accesso alle attività sportive

Barriere burocratiche

Per essere tesserati e giocare in un campionato della Lega Nazionale Dilettanti (LND), i richiedenti asilo devono essere in possesso del permesso di soggiorno, del certificato di residenza e in alcuni casi di un’autorizzazione da parte della federazione estera di riferimento. Inoltre, ogni squadra può solo «tesserare e schierare in campo due soli calciatori extra-comunitari [ma] un numero illimitato di calciatori/calciatrici di cittadinanza comunitaria» (art. 40 quater delle N.O.I.F).4 Queste lungaggini burocratiche e questi passaggi complessi costringono le squadre a tesserarsi nei campionati amatoriali. Tuttavia, la squadra Afro – Napoli United è un esempio di come sia opportuno perseverare nonostante le barriere. Dai campionati amatoriali iniziali, l’Afro-Napoli, dopo la sua ammissione alla più bassa categoria del campionato federale (Terza categoria), è reduce da una scalata vincente che in tre anni l’ha portata alla categoria “Promozione” (avvenuta alla fine della stagione 2015-2016). Degna di nota è inoltre l’autorizzazione concessa da Carlo Tavecchio, allora presidente della LND (oggi presidente della FIGC), alla squadra Pagi di Sassari. I giocatori di questa squadra, tutti africani, sono stati pertanto tesserati, anche se non in possesso di residenza definitiva in Sardegna, purché non provenienti da federazioni calcistiche straniere. Nonostante tutte le barriere un’altra bella pagina sportiva è stata scritta dalla squadra Migranti San Francesco di Siena: già campione provinciale, regionale e interregionale nei rispettivi campionati CSI di calcio a 7 nell’anno 2016, la squadra di Siena ha chiuso le finali nazionali al secondo posto, con un po’ di rammarico per la finale persa, ma con grande soddisfazione e orgoglio per la lezione di vita trasmessa in tutte le città italiane dove ha giocato.

La questione linguistica

La questione della lingua per i rifugiati implica da una parte l’apprendimento della lingua italiana e dall’altra parte l’uso delle loro lingue di origine. In riferimento alla lingua italiana, la barriera è legata a tre aspetti principali:

  • – a causa delle spesso discutibili politiche linguistico-educative dei Paesi di partenza dei richiedenti asilo, l’arricchimento culturale e il valore strumentale legati all’apprendimento formale dell’italiano non sono sempre percepiti come lo vorrebbero gli enti formativi in cui sono inseriti;
  • – per molti profughi l’Italia è solo un luogo di transito e, per questo motivo, alcuni non ritengono necessario investirsi nell’apprendimento della lingua italiana;
  • – anche se la pratica sportiva è già di per sé un linguaggio comune, la terminologia calcistica non è sempre alla portata dei neo-arrivati. Di fronte a queste tre esigenze, nella squadra di Migranti San Francesco, sono stati attivati dei percorsi di apprendimento dell’Italiano durante gli allenamenti. Obiettivo di queste attività è imparare divertendosi, senza rinunciare alla propria passione e senza sentire il “peso” dell’apprendimento, mantenendo così motivazione e impegno. Considerando invece le lingue dei rifugiati, si può affermare che, attraverso esse, i rifugiati rivendicano con forza il diritto all’asilo linguistico, il diritto di esistere e di rendersi visibili. Tali lingue immigrate sono quindi «laceranti urla di aiuto, richieste di soccorso nell’identità, auspicio della fine del conflitto fra lingue, culture ed identità. Sono urla nel silenzio delle lingue dominanti, ma anche, a volte auspicabilmente, segni della pace linguistica, della serena convivenza delle lingue, delle culture, delle identità» (Barni 2004, p. 15). Il campo di calcio diventa così un luogo di contatto e di confronto, uno spazio di ricreazione e ricostruzione di identità linguistico–culturale.

Barriera culturale

Il fatto che le squadre dei rifugiati siano prevalentemente composte da africani non significa che costituiscono necessariamente dei gruppi omogenei. Oltre al colore della pelle e alla situazione giuridico-psicologica, che possono costituire dei punti in comune, è opportuno notare che dietro all’etichetta “Africa” si nascondono ben 54 Paesi, oltre duemila lingue e migliaia di culture diverse che fanno sì che gli abitanti di tale continente non possono essere considerati identici e con le stesse esigenze. […]

Raymond Siebetcheu è docente presso l’Università per Stranieri di Siena. Le sue attività di ricerca vertono intorno ai temi dell’immigrazione straniera in Italia e dell’emigrazione italiana in Africa nel loro legame con lo sport, il contatto linguistico e la mediazione linguistico-culturale.

Bibliografia

AREL, FIGC, Report Calcio 2015, Roma 2015, www.figc.it

V. Avila et al., Manuale di Hattrick per la formazione degli allenatori, dieBerater, 2011, http://cesie.org/media/HATTRICK_Trainer_Manual_IT.pdf

M. Barni, Lingue immigrate: un nuovo elemento dello spazio linguistico italiano, in C. Bagna, M. Barni, R. Siebetcheu, Lingue immigrate in provincia di Siena, Guerra, Perugia 2004, pp. 7-18

Commissione europea, Libro Bianco sullo sport, in «Rivista di Diritto ed Economia dello sport», vol. 3, fasc. 2, 2007, pp. 177-200

W. Gasparini, Ripensare l’integrazione attraverso lo sport: la partecipazione sportiva a livello comunitario dei migranti turchi in Francia, in «M@gm@», vol. 11, n. 1, 2013

N. Porro, Sociologia del calcio, Carocci, Roma 2008

R. Siebetcheu, Lo sport come strumento di integrazione, in Centro Studi e Ricerche Idos, Dossier Statistico Immigrazione 2015, Roma 2015, pp. 227-230

M. Valeri, La razza in campo. Per una storia della Rivoluzione Nera nel calcio, Edup, Roma 2005

Notes

1 – Libro bianco sullo sport, dell’11 luglio 2007, presentato dalla Commissione europea al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato delle regioni e al Comitato economico e sociale europeo.

2 – Legge del 20 gennaio 2016, n. 12, intitolata “Disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva”.

3 – Il 13 ottobre 2015 la Camera ha approvato un testo in materia di cittadinanza con due novità: ius soli temperato (cittadinanza a chi è nato in Italia da genitori stranieri, sulla base di alcune condizioni) e ius culturae (cittadinanza in seguito a un certo percorso scolastico).

4 – Norme organizzative interne della FIGC (Federazione italiana giuoco calcio).