Oltre le emergenze: semi di resilienza nelle comunità

Sandra Federici

Editoriale del numero 91 (2/2019) di Africa e Mediterraneo, “Emergenza, comunità, resilienza”

Sisma in Emilia 2012. Tende nel campo di accoglienza. San Felice sul Panaro (MO) © Foto di Medardo Alberghini 

«Soltanto il mare, oltre la cupa scacchiera dei caseggiati, testimoniava di quello che vi è d’inquietante e di mai stabile nel mondo. E il dottor Rieux, guardando il golfo, pensava ai roghi di cui parla Lucrezio, innalzati davanti al mare dagli Ateniesi, al tempo del morbo. […]

Da un’officina poco distante saliva il sibilo breve e ripetuto d’una sega meccanica. Rieux si scosse: là era la certezza, nel lavoro d’ogni giorno. Il resto era appeso a fili e a movimenti insignificanti, non ci si poteva fermare. L’essenziale era far bene il proprio mestiere.»

Albert Camus, La peste (1947), in Opere: romanzi, racconti, saggi, Bompiani 1988, p. 403.

Resilienza è diventata, negli ultimi anni, una parola particolarmente fortunata che, grazie alla sua forza evocativa e metaforica, risuona negli ambiti più diversi. Termine che trae le sue origini nel settore della fisica e della tecnologia, dove è usato per descrivere la capacità di un materiale di resistere a un urto assorbendo energia, è poi transitato in diversi ambiti disciplinari: in psicologia, nello studio del trauma e delle sue conseguenze (tra i vari autori/rici il più noto è lo psichiatra psicologo e neurologo francese Boris Cyrulnik), ma anche in urbanistica, spesso in relazione alla sostenibilità ambientale, in sociologia, antropologia, economia, per poi proliferare nel mondo della comunicazione di massa, dal giornalismo ai social.

Questa molteplicità di usi (e abusi) ha sollevato anche molti dubbi sulla sua reale capacità esplicativa: si tratta di un’utile parola-chiave, di uno strumento analitico per meglio comprendere la contemporaneità, o di una semplice moda? Resilienza, insomma, è un termine che rischia di logorarsi, di perdere significato – o anche, in un riflesso uguale e contrario, di diluirsi e allargarsi, fino a significare troppo.

Nella consapevolezza di questa possibile dispersione semantica, e cercando di valorizzare il concetto di resilienza in termini di ricaduta socio-culturale reale, questo dossier di Africa e Mediterraneo vuole affrontare il tema da un punto di vista molto specifico: la stretta connessione tra la costruzione di comunità e territori resilienti e l’inclusione dei cittadini più vulnerabili.

Da un lato, infatti, è assodato che un tessuto sociale coeso potrà resistere meglio di fronte alle emergenze (Colucci, Cottino 2015), e si diffonde la consapevolezza di dovere adottare strategie di community-based disaster risk reduction (CBDRR) (Shaw 2016); d’altro lato bisogna constatare che la maggior parte degli abitanti più vulnerabili rimane esclusa dalle infrastrutture della resilienza, o perché vive in zone disagiate, o a causa di barriere linguistiche o culturali. Creare comunità resilienti significa allora, necessariamente, creare comunità più eque. In quest’ottica, in una società caratterizzata da un multiculturalismo crescente, una comunità resiliente cresce riconoscendo le differenze e valorizzando gli elementi di coesione, sia in tempi di normalità sia in fasi di emergenza (per calamità naturali e/o provocate dagli esseri umani).

Ci interessava quindi ragionare sulla resilienza come competenza della comunità, per costruire le condizioni per affrontare l’emergenza senza escludere nessuno. In questo ambito però la resilienza è da considerare anche come competenza dell’individuo, approccio fondamentale per favorire processi di empowerment, in cui i singoli possano sviluppare una propria linea di azione e reazione rispetto alla catastrofe e alla difficoltà improvvisa, ricostruendo e ripristinando un, seppur precario, orizzonte simbolico.

L’articolo di Graziella Favaro parte dalla constatazione che non si è mai avuta in Europa «un’immigrazione così importante di ragazzi provenienti da Paesi extraeuropei, privi di fili parentali e amicali, che partono come pionieri e sono spesso ignari della meta», e dalla definizione della migrazione come «spartiacque che segna in maniera profonda la […] storia e l’identità personale», con cambiamenti molteplici e improvvisi, fratture, difficoltà apparentemente insormontabili da affrontare nel Paese di accoglienza. Questa vulnerabilità può suscitare la capacità di resistere, difendersi e reagire grazie anche all’appoggio di persone della società di accoglienza che li guidino: persone/stella le chiama l’autrice ispirandosi a Cyrulnik.

Jean Godefroy Bidima esplora il significato e le implicazioni della resilienza analizzando l’impatto dell’uragano Katrina sulla popolazione di New Orleans (il terzo più forte uragano che abbia mai raggiunto le coste degli Stati Uniti, con quasi 2.000 vittime e decine di miliardi di dollari di danni nel 2005), indagando la maniera in cui i cittadini colpiti dalla devastazione hanno saputo ricostruire la propria vita, ma anche indicando con esempi concreti le lacune dell’intervento governativo e dell’organizzazione sociale statunitense, che hanno ostacolato un’azione pienamente resiliente da parte della popolazione. In particolare, la gestione burocratica della ricostruzione organizzata dalle istituzioni ha fatto sì che le comunità, identificate principalmente su base razziale, abbiano continuato a essere mantenute in condizione di subordinazione, in particolare i migranti non regolari che non potevano accedere ai progetti di ricostruzione se non autodenunciandosi.

Nelle persone richiedenti asilo e rifugiate in situazione di particolare fragilità psicologica, spesso vittime di gravi violenze e traumatismi, la spiritualità può essere un fattore di resilienza: su questo porta l’attenzione lo psicologo e psicoterapeuta Paolo Ballarin, basandosi sulla sua esperienza clinica e sull’assunto, condiviso da diversi teorici, che la resilienza rappresenti l’insieme di risorse disponibili per affrontare eventi negativi e reagire in modo proattivo e adattivo. Nella relazione terapeutica con persone che fanno riferimento a concezioni animistiche della realtà, la spiritualità entra in gioco non solo come risorsa alla quale appellarsi, ma anche nella legittimazione del ruolo del “terapeuta”, le cui qualità, potere e conoscenze sono associate da questi pazienti alla sfera religiosa, cosa che costringe lo psicologo a interrogarsi e a prendere posizione rispetto ad esse.

Sisma in Emilia 2012. Caduta della cupola della Chiesa
S. Maria Maggiore. Pieve di Cento (BO) © Foto di Medardo Alberghini 

A otto anni di distanza dal terremoto che ha colpito l’Emilia (59 comuni nelle province di Modena, Ferrara, Reggio Emilia e Bologna) nel 2012, causando 28 morti e 300 feriti, l’articolo di Silvia Festi e Sara Saleri ripercorre quell’esperienza attraverso il prisma di una serie di parole chiave – emergenza, comunità, solidarietà – e ne esplora il portato, per proporre un approccio all’emergenza che tenga conto delle relazioni interculturali. Lo studio, in uno specifico progetto di ricerca, della reazione a quell’evento ha mostrato i punti di forza della comunità e i punti di debolezza, indicando, in particolare ai decisori, la necessità di ricostruire la comunità in modo più autentico, avendo cura delle relazioni interculturali in un tessuto sociale caratterizzato da un’altissima presenza di famiglie di origine straniera, attirate negli anni dall’alta domanda di manodopera di un tessuto economico estremamente fiorente. Le autrici sottolineano la necessità di creare – “in tempo di pace” – una rete di comunicazione che possa raggiungere tutte le comunità di origine straniera, effettuando una mappatura dei servizi intermedi – sia di carattere istituzionale che afferenti al terzo settore – comprensiva delle strutture informali (come le mense per i senza fissa dimora, le organizzazioni culturali impegnate nel lavoro con i migranti e cittadini in condizione di marginalità) per poter comunicare efficacemente, in caso di calamità, senza escludere nessuno.

Anche l’articolo di Francesca Borga, Cristina Demartis e Giordano Munaretto pone al centro dell’attenzione la necessità di preparare una reazione positiva delle comunità multiculturali all’emergenza, descrivendo l’azione messa in campo dalle organizzazioni che hanno preso parte al progetto AMARE-EU. A partire dalla domanda su come prevenire e gestire calamità naturali o un disastro causato dall’uomo quando nelle città è presente un certo numero di nuovi arrivati, non nativi e con basse competenze linguistiche e comunicative, i partner del progetto e alcune città-pilota hanno lavorato insieme per elaborare e testare strumenti che guidino ad approntare piani di prevenzione e gestione del “rischio catastrofe” che siano capaci di sensibilizzare e coinvolgere tutta la comunità.

L’articolo di Anna Louise Kristensen porta al dossier l’esperienza concreta di Vejle, in Danimarca, città sottoposta a un alto rischio di inondazioni, che nel 2015 è entrata a far parte di “100 Resilient Cities”, un network internazionale creato per aiutare le città a governare in maniera più inclusiva, consapevole dei rischi e lungimirante. La città nel marzo 2016 ha lanciato una “Resilience strategy” basata sulla co-creazione, cioè sulla collaborazione tra istituzioni e abitanti, per far sì che il processo di rafforzamento della resilienza non sia calato dall’alto ma progettato dai cittadini, in particolare per quanto riguarda la resilienza sociale, con la creazione di un set di valori e soluzioni di welfare trasversali rispetto alla popolazione, e le nuove tecnologie, per la protezione dai cyber-attacchi e la riduzione del digital divide.

Nell’affrontare una difficoltà comune si può vedere una grande occasione: mettere da parte gli apparati disfunzionali di cui tutti siamo vestiti nei tempi “non emergenziali” e ritrovare una dimensione capace di “tirare fuori il meglio” di ciascuno. Perché la macchina degli aiuti in contesto emergenziale può insegnarci molto su come possiamo operare quando l’emergenza non c’è.

In questo senso può essere utile il concetto di “antifragilità”, che viene sempre più utilizzato, in seguito alla sua teorizzazione da parte del filosofo di origine libanese Nassim Nicholas Taleb. Essere antifragili significa essere pronti ad accettare la perdita, ad attraversare la difficoltà imprevista, potendo così affrontarla liberi dalla paura del rischio e della scossa. Il mondo è per Taleb un luogo in cui gli esseri viventi sono sottoposti ad attacchi e imprevisti, ma anche un insieme di relazioni e sistemi complessi, dove chi è capace di essere antifragile affronta gli eventi di stress come fonte preziosa di informazioni, un indirizzo per muoversi.

L’emergenza climatica sta sottoponendo periodicamente i nostri territori a disastri: alluvioni, tempeste, incendi devastanti, mentre epidemie che la globalizzazione impedisce di circoscrivere ritornano periodicamente a rinfrescare una memoria che la letteratura ha fissato con opere straordinarie. Constatiamo che a volte un tessuto sociale disaggregato o un clima culturale regredito portano a reazioni di rottura, all’accusa nei confronti dei più deboli. Altre volte invece, partendo dalle forze positive delle comunità, seppure “in crisi”, è possibile curare il tessuto sociale “ferito” in cui piantare nuovi semi di resilienza, indispensabili per affrontare le sfide degli imprevisti.

Foto di copertina: 58th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, May You Live In Interesting Times Laure Prouvost, Deep see blue surrounding you Courtesy: La Biennale di Venezia Photo by: Francesco Galli