Una questione di sguardi

Editoriale di Sandra Federici del numero 83 di Africa e Mediterraneo, "Oltre l'albero di Acacia: natura, paesaggio ed ecologia in Africa"

Kiripi-Katembo-Tenir

Kiripi Katembo, Tenir, “Un regard” series, 2011 Lightjet, 60 x 90 cm, Exposition Beauté Congo

È noto che gli incontaminati e vuoti paesaggi dell’Africa – mitizzati dai vari orientalismi, compresa l’industria turistica, e contrapposti all’opprimente antropizzazione del primo mondo – sono messi in pericolo da un inquinamento crescente, che numerose voci denunciano.

Tra i fenomeni che suscitano maggiore preoccupazione ci sono l’aumento della popolazione e l’urbanizzazione. Nei prossimi anni, infatti, è prevista una vera e propria esplosione demografica nel continente, soprattutto nelle aree urbane, tanto che le Nazioni unite prevedono che l’Africa vedrà raddoppiare la sua popolazione urbana tra il 2000 e il 2030. Anche i tassi positivi di crescita economica, che in Paesi come il Kenya e la Nigeria raggiungono percentuali record, costituiscono un punto critico se confrontati alle sfide dello sviluppo sostenibile e inclusivo, a 15 anni dalla Dichiarazione del Millennio.

I cambiamenti climatici legati al surriscaldamento globale stanno manifestando il loro impatto devastante sulle vite di agricoltori e comunità rurali, e le proiezioni climatiche suggeriscono che tale situazione è destinata a peggiorare in futuro, tanto che il timore giustificato di un aumento di oltre due gradi della temperatura del pianeta ha spinto i capi di Stato convenuti a Parigi in dicembre 2015 a prendere delle misure per invertire la rotta.

In questa situazione, aggravata dalle debolezze politiche e dai conflitti interni o esterni agli Stati, il carico delle conseguenze negative grava soprattutto sulle popolazioni, costrette a volte alla migrazione. Se organizzazioni internazionali e governi sono impegnati in negoziazioni e alleanze per promuovere politiche adeguate, in Africa sono gli organismi della società civile, il mondo universitario, i media, gli intellettuali a essere attivi in iniziative di ricerca, sensibilizzazione e sperimentazione concreta di pratiche alternative, nella consapevolezza di quanto sia urgente che un pensiero immaginativo e creativo aiuti ad attuare un futuro più equo e sostenibile. Numerose sono le ricerche scientifiche nelle varie discipline, spesso svolte da partenariati internazionali, mentre l’iniziativa mediatica appare davvero infinita, amplificata in modo esponenziale dalla possibilità di produrre e fare circolare informazioni non selezionate (tanto che, ha affermato uno dei responsabili di Google, la quantità d’informazioni – testi, immagini, musica – prodotte dall’umanità fino al 2003 verrebbero ora generate nell’arco di 48 ore).

Con questo dossier di Africa e Mediterraneo abbiamo cercato di andare alle radici dello sguardo occidentale sulla natura e sul paesaggio africani, ricollegandoci a un discorso ormai antico di critica dell’Orientalismo,1 che è ora in corso di rinnovamento alla luce dei “nuovi Orientalismi” costituiti dai discorsi sommariamente ecologisti e vittimisti nei confronti delle risorse naturali di un continente che non sarebbe in grado di difendersi da solo.

È necessario partire da un’osservazione prospettica dell’approccio occidentale all’Africa, che sin dall’inizio si è conformato sulle basi di una lente deformante costituita dalla presunzione di superiorità dell’Europa e dall’attrazione verso l’alterità e che ha classificato dall’inizio questo continente come terra nullius, un immenso territorio a disposizione per essere esplorato, conquistato, civilizzato. Nella lunga storia d’incomprensione e oppressione sperimentata a opera degli Occidentali, l’Africa è stata quindi nel tempo osservata e compresa attraverso il prisma di determinate immagini mentali del suo ambiente, che hanno dato origine a una serie di stereotipi. Il titolo di questo dossier è stato ispirato da un articolo pubblicato sul blog Africa is a Country, che ha ironicamente sottolineato come spesso gli scrittori africani e gli autori di romanzi ambientati in Africa subiscono “the acacia tree treatment”,2 e cioè sono pubblicati con una copertina raffigurante l’immagine tipica dell’albero di acacia sullo sfondo di un sole al tramonto.

Il gusto dell’esotico, argomenta il filosofo kenyano Dismas A. Masolo nell’articolo di apertura, ha influenzato il modo di approcciarsi all’Africa sin dai viaggi di Vasco de Gama, che circondarono il continente con una cintura di fortezze, concepite come porte di accesso alla conquista – attraverso la supremazia militare o misere donazioni ai capi locali – di risorse naturali a disposizione di futuri conquistatori. L’idea che in questo sconfinato paesaggio la natura sia senza proprietario, immobile nell’attesa che qualcuno la scopra e la conquisti, persiste pericolosamente alla base dell’attuale sfruttamento del territorio africano. Dal 1959 esso si è trasformato, afferma duramente e pessimisticamente Masolo, in un insieme di campi di morte, riempiti da cadaveri dei conflitti basati su motivazioni politiche, etniche o religiose, mentre le risorse ambientali sono braccate o distrutte impunemente e sempre più sommerse da prodotti elettronici a ciclo di vita breve, di cui l’Africa è ormai grande consumatrice. In questo contesto, sottolinea l’autore, le responsabilità non sono da attribuire solo a una parte, a causa della corruzione complice e irresponsabile di tanti Africani, siano essi importanti governanti o semplici guardie ambientali, come quelle che hanno permesso l’uccisione del leone Cecil in un parco dello Zimbabwe da parte di un dentista americano.

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Terreno spaccato durante la siccità in Mauritania. Progetto di lotta contro la desertificazione: UNO/MAU/010/NSO. ©FAO/Ivo Balderi

Anche il dibattito sul degrado delle risorse ambientali del continente, in questa prospettiva, può essere visto come un’imposizione basata su apparati concettuali e strumenti epistemologici estranei alle culture in cui si pretende di applicarli. Ad esempio, come spiega la linguista Marina Castagneto, l’idea occidentale di ecologia, basata su una «rete cognitiva che l’uomo proietta nel mondo» dalla sua posizione al centro dell’universo, non può essere trasferita automaticamente in un continente in cui i concetti astratti di “natura” ed “ecologia” non hanno alcun equivalente nelle lingue del continente (in questo caso è preso in considerazione il mondo swahili). Nell’indagare il rapporto tra crisi ambientale e cultura, l’antropologia ha recentemente messo in crisi il «mito del buon selvaggio ecosostenibile», mostrando che non sempre «l’obiettivo di proteggere la natura [è] elemento consapevole della cultura», come nel caso, studiato da Gaetano Mangiameli, delle pozze d’acqua tangwana in Ghana, che il popolo kassena protegge non come riserve naturali intoccabili, ma come «luoghi vissuti e manipolati dagli esseri umani», nell’ambito di un sistema costituito di relazioni tra gli umani e l’ambiente.

La geografa Aude Nuscia Taïbi ci propone di leggere le catastrofiche narrazioni occidentali di un costante deterioramento del paesaggio africano tenendo conto che esse sono spesso condizionate da filtri culturali e non basate su effettive rilevazioni, per cui, ad esempio, gli osservatori “nordici” hanno descritto la vegetazione dell’Africa mediterranea vedendola come conseguenza di un processo di degradazione rispetto a un originario stato di rigoglio, che spesso non è mai esistito. Se la narrazione di un declino costante è servita come strumento dei poteri coloniali per assoggettare e deprivare le popolazioni locali delle risorse naturali, giustificando così la sottrazione dei territori ai loro proprietari incapaci di preservarli, questo argomento è stato allo stesso modo utilizzato dai governanti degli Stati divenuti indipendenti e da ONG impegnate a sollecitare l’aiuto dei finanziatori con argomenti “di successo” ma estranei ai bisogni reali di determinati territori.

Ora sono i governi africani a doversi impegnare per imporre la protezione dei territori da loro gestiti, con o senza l’aiuto della cooperazione internazionale, e questa consapevolezza è cresciuta, grazie anche all’azione delle ONG internazionali e locali. Il Mozambico, racconta Elisa Magnani, ha ad esempio adottato da anni un Programma nazionale che si basa sul principio della resilienza climatica, individuando nei cambiamenti del clima un tema trasversale a tutti gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.

Per osservare il paesaggio e la natura nella letteratura africana è necessario partire dalla constatazione che è dall’epoca coloniale che gli scrittori africani sono impegnati a combattere contro “una certa immagine dell’Africa”. Dominique Ranaivoson parte dalle rappresentazioni ereditate dalle descrizioni di avventurieri e viaggiatori occidentali – Karen Blixen, Joseph Conrad, Winston Churchill –, che descrivono la natura di questo immenso continente come vergine, strana, impressionante, talvolta come una risorsa grezza da organizzare e sfruttare. Nelle letterature africane post-coloniali, invece, l’albero e la foresta diventano più spesso un riflesso delle emozioni e dello stato d’animo dei personaggi e dei problemi che affrontano: paura, senso del pericolo, corruzione, siccità, debolezza di fronte alla violenza, mentre in primo piano è messo l’uomo con il suo rapporto pratico con la natura e la società in cui vive.

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Foresta congolese. © Paul Godard

Francesca Romana Paci analizza l’opera della scrittrice Bessie Head, sudafricana di nascita ma vissuta tanti anni in Botswana, in particolare il romanzo When Rain Clouds Gather, dove la natura appare molto concretamente il luogo e lo strumento di attuazione di un progetto di vita comune, un’utopia agricola in cui una piccola comunità di Africani ed Europei cerca di collaborare per lo stesso fine, cercando di smussare le differenze culturali. L’autrice si identifica con i personaggi, mostrando di avere con l’agricoltura «un rapporto intimo, tenerissimo, e nello stesso tempo informato e, dal punto di vista pratico, razionale.»

Il dossier è completato da alcuni articoli riferiti a esperienze concrete e progetti attivati nel continente, come la raccolta differenziata e il compostaggio messi in piedi dalla popolazione dell’oasi di Dgache, in Tunisia (Francesca Davoli) e il progetto Russade di fomazione universitaria dei giovani saheliani ai più recenti approcci agricoli realizzato da un gruppo di università africane ed europee (Carlo Semita et alii). La commistione tra la modernità e l’ordine simbolico tradizionale che connota il paesaggio culturale di un’area del Congo entra in gioco quando una risorsa naturale del territorio deve trasformarsi in bene economico fruibile sul mercato per opera di una multinazionale energetica: il rituale tradizionale con cui viene sancito questo passaggio è raccontato da Lorenzo Orioli. Infine, un racconto allegorico di Mauro Armanino mette in scena un albero del Niger umanizzato che diventa testimone della difficile storia del suo Paese, delle tante illusioni e della nuova storia di emigrazione a cui sono costretti i giovani di quel territorio.

Africa e Mediterraneo esce con una nuova veste grafica e un formato rinnovato, così come il sito internet dell’omonima associazione che la promuove. Dal numero scorso, abbiamo aggiunto l’inserto Asylum Corner, interamente dedicato al tema dell’asilo, trattato secondo una prospettiva europea. L’inserto, legato a una piattaforma internet, nasce dalla necessità della cooperativa editrice della rivista – da alcuni anni impegnata nell’attività, cruciale in questo momento storico, dell’accoglienza dei richiedenti asilo – di aprire uno spazio di confronto con altre esperienze realizzate in altri Paesi e con le istituzioni pubbliche, con coloro che sono chiamati ad affrontare questa che è davvero una sfida che mette in gioco ognuno di noi e la nostra Europa.

Note

1 – All’interno dello stesso discorso coloniale tra le due guerre si riscontrano numerose denunce delle «divagazioni fantasmatiche dell’esotismo», così come contestazioni dei topoi esotici dei viaggiatori (pittori e fotografi soprattutto) e critiche ironiche dei romanzi e film d’avventura. Cfr. P. Halen, De quelques enjeux du paysage (ou du non paysage), in «Etudes littéraires africaines», n. 39/2015, pp. 119-131.

2 – Elliot Ross, The Dangers of a Single Book Cover: The Acacia Tree Meme and “African literature”, in «Africa is a country», 7 maggio 2014.